Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Un Gioco Da Assassini
Un Gioco Da Assassini
Un Gioco Da Assassini
E-book713 pagine10 ore

Un Gioco Da Assassini

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Nell’oscuro mondo delle operazioni segrete, un gruppo di assassini misteriosi sta scatenando il caos tra le fila del MI-6.


Siamo al culmine della guerra fredda e degli agenti dei servizi segreti britannici vengono presi di mira da un ignoto gruppo di sicari. In preda alla disperazione, l’agenzia manda il suo miglior agente a dara la caccia a questi assassini.


Jack “Gorilla” Grant non è uno dei tipici agenti segreti. Inflessibile e spigoloso, non va d’accordo con glia genti elitisti e affascinanti dell’intelligence. Jack viene trascinato in un gioco in cui niente è come sembra, e persino la spia perfetta può morire in un deserto di specchi. Riuscirà a scovare gli inafferrabili assassini prima che sia troppo tardi?


Una storia di spionaggio che devi leggere. “Un gioco da assassini” è un thriller ricco d’azione ambientato nella scena globale della guerra fredda.

LinguaItaliano
Data di uscita13 mar 2022
Un Gioco Da Assassini

Correlato a Un Gioco Da Assassini

Titoli di questa serie (1)

Visualizza altri

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Un Gioco Da Assassini

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Un Gioco Da Assassini - James Quinn

    Un Gioco Da Assassini

    UN GIOCO DA ASSASSINI

    CRONACHE RISERVATE LIBRO 1

    JAMES QUINN

    TRADUZIONE DI

    CINZIA RIZZOTTO

    Copyright (C) 2017 James Quinn

    Layout design e Copyright (C) 2022 by Next Chapter

    Pubblicato 2022 da Next Chapter

    Copertina di The Cover Collection

    Questo libro è un’opera di finzione. Nomi, personaggi, luoghi e incidenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza ad eventi attuali, locali, o persone, vive o morte, è puramente casuale.

    Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, incluse fotocopie, registrazioni, o da qualsiasi archiviazione delle informazioni e sistemi di recupero senza il permesso dell’autore.

    INDICE

    Entra fra gli assassini

    Capitolo 1

    Le regole del gioco

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Contrattacco

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Mediante l’inganno

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Re nero, regina bianca

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Movimenti nelle Tenebre

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Mossa finale

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Scacco matto

    Epilogo

    Dedica

    Ringraziamenti

    Caro lettore

    L’autore

    "Devi imparare le regole del gioco.

    E poi devi giocarci meglio di chiunque altro."

    ALBERT EINSTEIN

    ENTRA FRA GLI ASSASSINI

    LIBRO PRIMO

    CAPITOLO

    UNO

    REPUBBLICA DOMINICANA – 30 MAGGIO 1961

    Il penetrante sole diurno si andava finalmente affievolendo per lasciar posto alla sera, più confortevole e fresca. Ciò nonostante, gli insetti e i moscerini della palude vicina brulicavano ancora, speranzosi di raccogliere gli ultimi vestigi del calore del giorno e, di tanto in tanto, punzecchiare i sei corpi prostrati nel fosso di fianco alla strada.

    Gli assassini erano rimasti al loro posto nelle ultime tre ore, aspettando, sudando e ignorando insetti e calore. In tutto erano otto: sei dominicani e due europei. Gli europei e quattro del gruppo indigeno aspettavano l’obiettivo nel fosso; gli altri due erano rimasti nelle macchine parcheggiate a poche centinaia di metri da lì, lungo la strada, in qualità di osservatori. Faceva poi parte del loro lavoro anche intervenire con veicoli d’assalto per bloccare l’imminente arrivo delle limousine di El Benefactor nel centro dell’area di esecuzione.

    Il Catalano diede una scorsa al suo collega, il Georgiano. Entrambi vestivano abiti civili: camicia a maniche corte, pantaloni resistenti e scarponi da lavoro. La radio da campo crepitò riprendendo vita. I due europei si guardarono l’un l’altro, ancora una volta; i loro sguardi si incontrarono. Sapevano di cosa si trattava. Nessun falso allarme, nessun ripensamento, nessun errore. L’esecuzione sarebbe iniziata presto.

    «La luz es brillante, la luz es brillante» strillò l’osservatore alla radio. La luce è brillante. Era la frase in codice che annunciava l’imminente passaggio del corteo di automobili de El Benefactor.

    I sicari erano stati finanziati e incoraggiati dagli americani tramite l’ambasciata e l’arrivo di quei due specialisti europei li aveva spronati a passare da ciò che era stato il barlume di un’idea a qualcosa che stava per diventare invece assai reale.

    Gli uomini dell’Agenzia si erano stancati in fretta dell’impopolarità crescente de El Benefactor e, nel timore che non presentasse una gran battaglia per evitare un ribaltone comunista, avevano deciso che sarebbe stato utile rimuoverlo dal potere. Il loro pensiero era se non può essere nostro, non può essere di nessuno e non ci volle molto per far loro convocare i due agenti indipendenti più versatili, i due europei, affinché pianificassero la missione e organizzassero i combattenti per la libertà, assolutamente privi d’addestramento e d’esperienza, in una squadra d’esecuzione ridotta ma efficace.

    Il messaggio in codice aveva ormai raggiunto il gruppo di sicari. Gli uomini si irrigidirono, le armi furono controllate, le sicure rimosse e i fucili gettati in posizione sulle spalle. Per prima cosa scorsero la nuvola di polvere sollevata dall’arida strada di campagna al passaggio del convoglio, composto da due macchine. Le informazioni che avevano ricevuto dicevano che quella strada, una tranquilla via secondaria, era quella che più probabilmente avrebbero percorso quando El Benefactor avesse fatto visita alla sua amante preferita, a San Cristobal. Era il posto perfetto per un’imboscata.

    La nuvola di polvere si fece sempre più vicina e il ringhio dei pesanti motori più sonoro. E poi accadde, non a un ritmo affrettato o frenetico, ma lentamente. L’avanzare tranquillo, a mezza velocità, del convoglio composto dalle due Lincoln scintillanti; il ruggito del motore a tutto gas nel camioncino d’assalto che guadagnava velocità per bloccare il corteo; il suo ringhio quando si girò con una U tracciata alla perfezione in mezzo alla strada, facendo inchiodare i mezzi de El Benefactor. E poi il rumore di numerose armi automatiche che sputavano morte, una morte mirata accuratamente verso quel corteo ben disposto.

    Per un breve istante, niente di più, il rumore fu assordante. Quelli della squadra d’esecuzione erano entusiasti di entrare in combattimento e cacciarono quante più pallottole poterono nelle vetture del presidente. Ciascuno di loro voleva poter raccontare quella storia ai propri nipoti. Ciascuno di loro voleva essere colui che aveva ucciso il mostro Trujillo.

    La prima raffica fu impressionante e mise completamente fuori uso le automobili. Poi, mentre alcuni uomini della scorta del presidente lottavano per recuperare l’iniziativa, pensando addirittura di poter replicare all’attacco, i combattenti per la libertà si misero in movimento, sparando per liquidare il nemico, cambiando i caricatori per poter continuare con le salve.

    A dirigere il tutto in prima linea c’era il collega del Catalano, il tozzo Georgiano dallo sguardo truce, che gridava loro di "atacar hacia adelante", prima di scaricare la propria pistola contro un’infelice guardia del corpo che aveva deciso di mettersi a correre. Sembrava che non ci potessero essere superstiti… né testimoni. Poi il rumore si infiacchì e cessò, il fumo iniziò a dissiparsi e l’eliminazione di colui che era sembrato un dittatore invincibile giungeva quasi al termine. Tutto così veloce, e così facile, dopo tutto.

    Il Catalano, supino, si rialzò e fece cenno al Georgiano di andare al veicolo presidenziale di supporto, da dove le poche guardie del corpo rimaste venivano trascinate fuori senza troppi complimenti per essere pestate. Non sarebbero durate molto. Andò con calma fino al veicolo principale, colpito a morte. Il suo viso era una maschera di sudore e tensione: ammazzare era un affare serio. Le fiancate e i finestrini dell’automobile erano stati crivellati da innumerevoli proiettili e imbrattati di sangue dall’interno. L’odore della morte si faceva già percepire.

    «Hanno risposto al fuoco da arditi, comandante» disse Rafael, il membro più giovane del gruppo. Il Catalano fece un cenno d’assenso e spiò all’interno della macchina. Era un autentico ossario. L’autista e la guardia del corpo erano stati polverizzati. Una serie di spari isolati risuonò dalle vicinanze.

    Il Catalano si rialzò e si guardò intorno, trovando che il Georgiano e i colleghi stavano giustiziando le guardie del corpo rimaste. «Dov’è Trujillo?»

    «È scappato verso gli alberi, Ramon gli ha sparato alle gambe. Lo sta custodendo e la aspetta.»

    «El Benefactor è ancora vivo, però?»

    «Sì, señor

    «E dei nostri, niente vittime?»

    «No, señor. Non sono neanche arrivati a sapere chi li ha colpiti.»

    Il Catalano si fece strada verso la fila degli alberi e lì, col piccolo combattente che lo custodiva, giaceva l’uomo che aveva tenuto quello staterello nel suo pugno di ferro per più di trent’anni. Il sangue gli sgorgava dalle gambe, stese con un’angolazione innaturale, i suoi abiti erano coperti di fango e polvere, ma la faccia… la faccia conservava ancora tutto il suo disprezzo e la sua arroganza. Ma non per troppo tempo ancora, pensò il Catalano.

    «El Presidente. Sa chi sono?»

    L’uomo paffuto dai capelli bianchi restituì un’occhiataccia. «Sei un maiale di combattente per la libertà e un figlio di puttana che glielo succhia ai traditori!»

    Il Catalano sorrise scuotendo la testa. «No, señor, non vengo dalla sua bella isola. Vengo da lontano… ma ho un messaggio, un messaggio da parte dei Norte Americanos." Lo shock sulla faccia di Trujillo è lampante, pensò il Catalano, gli americani lo hanno fregato.

    «Il tuo tempo qui è scaduto» mormorò il Catalano e con un movimento fluido trasse una pistola dal grande calibro, una Smith & Wesson, e sparò un’unica pallottola in un occhio del dittatore. Un vecchio morto in un fosso. «Ramon, tu e i ragazzi portate via il cadavere e nascondetelo. E qui…» porse il revolver all’unico testimone dell’esecuzione. «Se te lo chiede qualcuno, a Trujillo hai sparato tu, ok?»

    Ramon prese la pistola e vi posò lo sguardo, sentendone il peso e il grasso che gli colava tra le dita. Era una bella pistola. «Sì, señor. Possiamo nascondere il cadavere in uno dei rifugi fino a quando non arriverà il momento di farlo vedere al mondo intero.»

    Il Catalano fece un cenno d’approvazione. «Bene, allora organizzatevi e andate! Via da qui più in fretta possibile.»

    «E lei, comandante, lei e La Bala

    La Bala era il soprannome che i ragazzi avevano dato al Georgiano. Era un nomignolo affettuoso. La Bala, la pallottola, perché il piccolo georgiano lo sembrava davvero. Piccolo, tozzo, duro, calvo…

    «Ce ne andremo per un’altra strada. Non vedrete mai più nessuno dei due, il nostro lavoro è finito. Che vi vada tutto bene.»

    Il Catalano e il Georgiano avrebbero dovuto fare in fretta. Avevano una macchina che li aspettava parcheggiata a qualche minuto di distanza lungo una strada principale e che li avrebbe portati al rifugio che avevano usato nelle ultime settimane. Una ripulita e un cambio d’abiti sarebbero bastati prima di presentare il resoconto dell’operazione a Tanner, il loro contatto della CIA nel paese, in un incontro presso l’Hotel Rafael a Ciudad Trujillo.

    Quando la notizia della scomparsa de El Benefactor si fosse iniziata a filtrare, i due sarebbero già stati su un idrovolante diretto a Miami e il loro contatto della CIA avrebbe riportato a Langley che gli agenti QJ/WIN e WI/ROGUE, rispettivamente il Catalano e il Georgiano, avevano compiuto quanto stipulato per il loro incarico attuale e che si stavano recando negli Stati Uniti per il rapporto finale presso il dipartimento del Capo delle Azioni Esecutive.

    BEIRUT, LIBANO – AGOSTO 1962

    L’uomo basso e tarchiato stava in piedi all’angolo della strada trafficata. Controllò l’orologio con nonchalance. In teoria per vedere che ora era, in realtà per controllare se qualcuno lo stava osservando. Gettò una rapida occhiata tutt’intorno. Nulla.

    Indossava un completo leggero, color crema, che si era fatto fare durante una breve tappa ad Hong Kong, alcuni anni prima, e una camicia celeste dal collo aperto. Il sole mediorientale filtrava attraverso i suoi capelli corti e biondissimi, scottandogli il cuoio capelluto. Portava un paio di occhiali da sole avvolgenti per attenuare il bagliore. Aveva poco più di trent’anni, l’aspetto curato; era in forma, e all’erta. Il suo nome in codice era Gorilla. Un nomignolo che gli calzava a pennello, non per via delle sue dimensioni o della sua mole, ma per il passo ondeggiante del suo incedere, lo sguardo torvo dietro gli occhiali da sole e il cenno di una natura irsuta che spuntava da sotto quell’abito su misura.

    Si rimise in movimento, facendosi strada a spintoni attraverso i marciapiedi, oltre i ristoranti e le caffetterie affollate. Donne dall’aspetto esotico e i fianchi liquidi compravano nei designer store, uomini d’affari tenevano riunioni davanti a un piatto di meze e amici chiacchieravano tra tazze di Cafe Blanc, un infuso a base d’acqua bollente, fiori d’arancio e miele. È facile capire, pensò Gorilla, perché di Beirut dicono che sia la Parigi d’Oriente.

    Avanzò a passo fermo lungo via Hamra, facendo attenzione a non incrociare in modo diretto lo sguardo di nessuno, né di urtare i corpi ammassati sui marciapiedi. Se avesse urtato qualcuno, lo avrebbe accompagnato con un rispettoso "pardon en moi": quel giorno parlava in francese perché era più consono alla sua copertura e perché in quel modo avrebbe mascherato la propria identità per un domani.

    Fu allora che vide il suo scudiero. Un uomo grasso, dai baffi ordinari e la carnagione scura, sedeva in una vecchia Buick. La sua copertura era quella di un Servee, come si denominavano i tassisti del posto. Sia l’automobile che l’autista avevano senz’altro conosciuto giorni migliori. Uno scudiero era una risorsa d’informazione locale di basso livello che forniva attrezzature o servizi agli agenti di campo in visita. Documenti falsi, soldi, rifugi, armi e mezzi di trasporto: tutto rientrava nelle competenze dello scudiero e proprio come i loro predecessori medievali se ne esigeva la disponibilità con poco preavviso.

    Un’occhiata veloce, poi Gorilla attraversò la strada a grandi passi e salì tranquillamente in macchina, sul sedile posteriore. Se in strada aveva pensato che faceva caldo, non era niente in confronto all’afa soffocante in cui si imbatté all’interno della vettura. In compenso la vettura aveva una visione limitata grazie ai finestrini ricoperti di polvere che non erano mai stati lavati, facendo sì che l’incontro all’interno fosse il più discreto che ci potesse essere.

    Lo scudiero rimase immobile e continuò a fissare i passanti attraverso il lunotto. Via Hamra era affollata, a quell’ora del giorno, ed era difficile riuscire a scorgere eventuali gruppi locali di sorveglianza, così decise di parlare con un angolo della bocca, accennando un’occhiata occasionale al retrovisore.

    «Salam alaykum» disse l’autista.

    «Alaykum salam» rispose Gorilla.

    E una volta sbrigate le formalità, passarono agli affari. «Sai dove stai andando?»

    Gorilla assentì: aveva letto i rapporti e conosceva l’itinerario dopo aver studiato una mappa della zona.

    L’obiettivo aveva un piccolo ufficio situato in un angolo tranquillo di Rue Jeanne D'Arc e lui stesso aveva telefonato proprio quella mattina per accordare una riunione d’affari, con la scusa di essere un investitore francese interessato ad avvalersi dei servizi dell’obiettivo, della sua attività di import-export. Gorilla aveva insinuato di avere un carico illegale da muovere e sperava così di aver punzecchiato sia la curiosità che l’invidia dell’altro. Che, almeno in questo modo, sarebbe stato da solo ed esattamente dove Gorilla voleva che si trovasse.

    «Il pacco?»

    «Sotto il mio sedile. Con così poco preavviso è quanto di meglio ho potuto fare, ma penso che basterà.»

    Gorilla allungò una mano sotto il sedile del conducente e ne ritirò una borsetta a tracolla. Dentro, coperta da un quadrato di mussolina, giaceva il suo attrezzo da lavoro di quel giorno: una Beretta M1951, completa di un bulboso silenziatore. Vecchia ma affidabile: non la sua arma preferita ma, date le limitate risorse disponibili, certamente accettabile.

    Provò velocemente la molla del caricatore, controllò il funzionamento dell’arma, innestò il silenziatore, schiaffò di nuovo al suo posto il caricatore e fece scorrere in avanti il carrello. Un rapido controllo alla camera, per essere sicuro che la pallottola fosse al suo posto, e poi mise la sicura.

    L’unico altro strumento a sua disposizione era un bouquet di garofani. Agli occhi di un osservatore qualsiasi sarebbe sembrato un uomo che andava a trovare la sua donna o l’amante, ma il bouquet avrebbe nascosto la Beretta silenziata in una fodera annidata in mezzo ai fiori. Gorilla nascose la pistola nel mazzo, che poggiò sulla piega del gomito sinistro.

    L’obiettivo era un agente a contratto, libanese di nascita, di nome Abu Qassam, che aveva fatto il doppio gioco nell’Africa Francese del Nord, agendo per i britannici ma tradendone poi le operazioni in favore del FLN, l’esercito Nazionale di Liberazione Francese.

    Il tutto aveva raggiunto l’apice quando si era scoperto che Abu Qassam aveva preso parte personalmente all’omicidio di una risorsa chiave britannica nella regione. Dopo essersi reso conto di aver tirato troppo la corda era scappato nella sua Beirut natale dove, erroneamente, pensava di potersi nascondere fino a quando, anni dopo, fosse stato al sicuro.

    Gli inglesi gli potevano anche perdonare il tradimento, in un certo senso. Ma l’omicidio di uno dei loro, mai! Si erano messi a pianificare la ritorsione. Si formò una squadra per la localizzazione; si sollecitarono favori in tutta la comunità dei servizi segreti, si arruolarono risorse su cui contare… fino a scoprire il suo nuovo nome. Poi ebbero un indirizzo. Quindi una data e un orario. E fu allora che venne convocato l’uomo basso dal leggero completo estivo, Gorilla.

    L’unità cui apparteneva era specializzata nel trattare con agenti nemici, traditori, estremisti; per loro questa era l’operazione che lo avrebbe svezzato. Un colpo dicevano, toccata e fuga. Fallo per bene e salirai la scala di un gradino, forse ci sarà addirittura un comando permanente. In realtà Gorilla sapeva ben poco dello sfondo del caso, proprio il minimo, e ad essere onesti era comunque troppo. Per quel tipo di operazioni le uniche informazioni necessarie erano un’ora, un luogo e una descrizione; qualsiasi altra cosa, secondo lui, era esibizionismo del coordinatore che dirigeva il caso. La sua unica priorità era fare il proprio lavoro e andarsene a gambe levate.

    «Aspetterò qui» disse lo scudiero. «Posso darti al massimo cinque minuti, dopo di che ti dovrai arrangiare.»

    Gorilla assentì. «Cinque minuti sono più che sufficienti; non ho intenzione di mettermi a chiacchierare con lui. Tieni il motore acceso.»

    Una scorsa veloce ai movimenti sulla strada e uscì dalla macchina, afferrando con nonchalance il suo letale regalo.

    Aveva già ucciso in precedenza, ai tempi dell’esercito, alcuni uomini in situazioni non dissimili da quella, ma mai in un modo mirato così freddamente, così spietato. Sapeva di essere più che capace di svolgere l’incarico che gli aveva assegnato il colonnello; altrimenti perché era stato scelto? Gorilla vantava una collezione speciale di qualità che lo rendevano utile per quel genere di lavoro. Lui lo sapeva, il colonnello lo sapeva e lo sapevano anche le gerarchie di Broadway.

    Scivolò lungo la strada, esaminando da dietro le lenti scure le persone che si fossero eventualmente interessate a lui ma di nuovo… niente. Si muoveva come uno spettro. Era uno dei talenti di Gorilla: quella qualità quasi innata di passare inosservato. Uno dei suoi istruttori una volta aveva detto che lo si sarebbe potuto perdere tra una folla di due persone.

    Spostandosi sul lato libero della strada, vide l’ubicazione dell’obiettivo un po’ più avanti: una porticina d’accesso che aveva all’esterno una targa di ottone che diceva Import/Export; alla porta si accedeva lungo una rampa di dodici gradini. Risalì l’ingresso in penombra, contando lentamente gli scalini tra sé e sé mentre avanzava. Si sistemò i garofani più comodamente sulla mano destra e salì gli ultimi gradini fino alla porta di legno con la finestrella in vetro della Al-Saud Import/Export Company. Girò il pomo con la mano sinistra, entrò e richiuse la porta delicatamente dietro di sé.

    Valutò all’istante la disposizione della stanza e ciò che vi si trovava: le ombre della stanza oscurata dalle tende, gli armadietti adornati e le immagini che decoravano le pareti, la languida figura reclinata all’indietro su una poltrona da ufficio, dietro la scrivania. L’uomo stava fumando delle Galoises francesi e un bicchierino di arak giaceva vuoto di fronte a lui, sulla scrivania. Non c’erano altri presenti. Bene.

    La valutazione era durata una frazione di secondo.

    Poi Gorilla avanzò, come volendo dominare quello spazio. Gli bastarono tre passi per raggiungere la scrivania. L’uomo fece per alzarsi in piedi, porgendo una mano per salutare con un sorriso. «Monsieur Canon, come…» iniziò a dire, ma Gorilla aveva già raggiunto la parte anteriore della scrivania e velocemente, seppur non in fretta, alzò il bouquet con entrambe le mani all’altezza del torace. Il movimento fu ingannevolmente casuale.

    La confusione sorvolò il volto dell’obiettivo. Perché quel cliente gli stava sbattendo un mazzo di fiori in faccia? Era un qualche strano costume francese? Quando l’obiettivo ebbe raggiunto la completa posizione eretta, Gorilla toccò con i petali delicati la fronte dell’uomo, sfiorandone dolcemente la pelle, e premette due volte il grilletto nascosto nel bouquet letale, in rapida successione. FUT, FUT!

    Il rumore fu appena percettibile, non più sonoro di un colpo di tosse vigoroso, di certo non abbastanza per richiamare l’attenzione di qualcuno all’esterno. Al primo sparo l’uomo fissò Gorilla come se fosse appena stato colpito in fronte con una mazza da cricket. La testa gli oscillò all’indietro e per inerzia poi tornò ad allungarsi di nuovo in avanti, proprio quando lo colpì il secondo sparo, a pochi centimetri dalla prima pallottola. Stavolta, però, il proiettile non fece oscillare ulteriormente l’obiettivo: gli cedettero semplicemente le gambe e crollò come una marionetta cui sono state tagliate repentinamente le corde. Cadde in un cumulo accartocciato dietro la scrivania, ricoperto di fatture e documenti di lavoro. Ciò che era stato bianco, era diventato rosso.

    Gorilla aggirò la scrivania e sparò altri due colpi dal mazzo di fiori ormai lacero, mirando alla testa dell’obiettivo. Tanto per andare sul sicuro, anche se sapeva per esperienza personale che quei colpi non erano necessari. L’intera operazione non era durata più di quindici secondi. Un po’ lento, pensò Gorilla, che odiava gli spari di qualità scadente, specialmente quando si trattava dei propri. Niente roba di fantasia, nessun gran discorso, solo un BANG e obiettivo abbattuto.

    Dopo quell’estremo atto di violenza regnava il silenzio; l’unico suono nell’ambiente era il tat-tat-tat di un vecchio ventilatore in un angolo della stanza.

    Il cuore di Gorilla prese a battere a ritmo sostenuto mentre lo colpiva un’ondata di adrenalina. Prese due lente e profonde boccate d’aria, chiuse gli occhi e si mosse. Tornò velocemente alla porta dell’ufficio, girò il cartellino che vi pendeva e recitava "Reunion en cours", abbassò la tendina e chiuse la porta. Buttò i fiori sulla scrivania e si mise a cercare nel resto dell’ufficio, camminando rapidamente da una parte all’altra. Si muoveva in silenzio, con la Beretta silenziata a far strada come un tribuno letale. Meno di un minuto più tardi si diede per soddisfatto, finalmente convinto che non ci fosse nessun altro.

    Lavoro fatto, pensò. Ora non doveva far altro che andarsene senza imbattersi nella dannata donna delle pulizie, o in qualsiasi altra casualità che rischiasse di immischiarsi in quel tipo di operazione. Ma le sue preoccupazioni si rivelarono infondate.

    Smontò la Beretta dividendola nelle sue singole parti: il soppressore, il caricatore e il carrello. Dopo aver raccolto i bossoli dei colpi che aveva sparato, se li mise tutti nel taschino interiore della giacca prima di lasciare l’ufficio. La sua presenza non suscitò nemmeno uno sguardo mentre usciva da lì e si incamminava per via Hamra per tornare al taxi dello scudiero. Pochi istanti dopo Gorilla aprì la portiera posteriore e si calò sul sedile.

    «Ok. Ce ne andiamo. Ma vai con calma. Niente motore a tavoletta o alta velocità» disse al conducente.

    Lo scudiero assentì e prese a condurre l’auto in mezzo al fitto traffico. «È andato tutto bene, amico? Nessun problema?»

    Gorilla ripose i pezzi della Beretta nella borsa prima di infilarla nuovamente sotto il sedile dello Scudiero. «Tutto bene. Meno ne sai meglio è.»

    «Capisco. Dirai alla tua organizzazione che ho fatto il mio dovere, che sono stato utile?»

    Gorilla assentì. Lo scudiero aveva fatto esattamente quello che gli si richiedeva. Buon guidatore, scelta dell’arma appropriata, nessun trambusto. «Certo. I miei ti ricompenseranno senz’altro. Sei stato davvero bravo.»

    «Inshallah. Grazie. E adesso verso dove, amico?»

    «L’aeroporto. Ho un volo da prendere.»

    Quando il cadavere dell’obiettivo fosse stato scoperto, Gorilla sarebbe stato in volo verso Parigi, per poi tornare a casa sua a Londra. Un tragitto tortuoso, certo, ma che almeno avrebbe ridotto al minimo le tracce che avrebbe lasciato dietro di sé.

    Si mise comodo e guardò il sole che calava sulla Corniche e sulle montagne in lontananza, avvolte in una foschia gialla. Guardando verso il basso notò un solo puntino di sangue sul bavero della giacca. Era come un testamento e, di fatto, l’unica prova della sua prima Redazione.

    VARSAVIA, POLONIA – OTTOBRE 1962

    La lunga guardia di Tomasz Bajek era iniziata in un luminoso sabato pomeriggio, anche se tutto era cominciato in realtà tre ore prima, quando aveva iniziato il suo turno di sorveglianza.

    L’operazione, cosa piuttosto curiosa, si svolgeva allo zoo di Varsavia, che a Bajek sembrava un posto strano per un gruppo di uomini già cresciuti che cercavano di mescolarsi inosservati tra la folla in un tiepido weekend. Ma pensò che forse che gli agenti stranieri non conoscevano il lusso di lavorare solo nei giorni infrasettimanali.

    Lo zoo era stato ricostruito nel 1949, in seguito ai bombardamenti della seconda guerra mondiale, e ora era una delle attrazioni principali della nuova Polonia. Bajek aveva già completato tre giri del suo settore dello zoo e sedeva dondolando la carrozzina che aveva spinto nelle ultime ore. Agli occhi di un osservatore qualsiasi, senza dubbio sarebbe sembrato un devoto papà novello spinto fuori di casa dalla moglie agitata per passare un po’ di tempo con la prole durante il fine settimana. Lo zoo era un modo relativamente economico di passare la giornata fuori.

    Ad ogni modo, niente era come sembrava. Bajek non era un papà novello e la carrozzina non conteneva altro che un bambolotto, avvolto in vari strati di lenzuola e berretti, nella remota possibilità che un membro del pubblico troppo zelante desiderasse vedere il piccolo. Di visibile non c’era altro che un paio di brillanti occhi azzurri che spiavano fuori. Bajek non riusciva ad immaginare niente di peggio che girovagare per lo zoo per ore ed ore. Non aveva mai visitato lo zoo prima di allora, odiava i maledetti zoo, e una volta finito il lavoro non lo avrebbe voluto visitare mai più.

    In realtà Tomasz Bajek era un giovane agente dei servizi di sicurezza interna della Polonia. Aveva lavorato nel dipartimento di controspionaggio negli ultimi quattro anni, aiutando a catturare spie e traditori.

    Di solito stava legato a una scrivania, ma quel giorno, per mancanza di personale, era stato assegnato ad uno dei gruppi itineranti di sorveglianza. Staccare dalla scialba sede centrale era sempre un piacere.

    Era il sesto operatore in un gruppo di otto uomini, cosa che lo qualificava appena sopra agli addetti alle pulizie del quartier generale, ma sotto agli archivisti. Ciascun membro del gruppo aveva la propria area designata all’interno del perimetro dello zoo. Facevano parte dell’operazione anche due veicoli di sorveglianza: uno mascherato da camion delle immondizie, che percorreva il perimetro, mentre l’altro era il mulo dei servizi segreti, un mezzo di riparazione con un operaio adeguatamente indolente che ci avrebbe messo delle ore per… non fare praticamente niente.

    Bajek aveva assegnata l’area che ricopriva il parco e il recinto dei cinghiali. Abbastanza piacevole, ma non quando si aspetta nervosamente di catturare una spia occidentale.

    Il lavoro era stato passato loro dai russi. In via del tutto eccezionale, al comando dell’operazione c’era un esperto ufficiale del KGB, chiamato maggiore Krivitsky. Tozzo, volgare, sprezzante degli ufficiali dell’intelligence polacca ai suoi ordini, Krivitsky aveva esposto bruscamente le sue carte nel briefing mattutino.

    Si era messo in piedi davanti al gruppo, con le grandi nocche posate sul tavolo, il mento proteso in avanti, gli occhi neri privi di sentimenti fissi su di loro, come provocandoli a sfidare la sua autorità. Poi aveva proceduto sciorinando la sua esperienza. Aveva combattuto nella grande guerra patriottica, comunista da tutta la vita, ufficiale del NKVD prima che cambiasse nome adottando il nuovo anagramma; gestore di agenti, acchiappa-spie, un vero bastardo e l’unica persona con cui uno non si sarebbe voluto incrociare. Tutto questo lo spiegò nel polacco più schifoso che Bajek avesse mai sentito. La voce di quell’uomo era gutturale e a volte quasi incomprensibile, ma abbastanza chiara per trasmettere il briefing.

    Era stata formata una rete di spie polacche e ora i russi volevano l’opportunità di mettere le mani su un agente occidentale vivo. Ma non un agente occidentale qualsiasi, non uno che lavorasse per mezzo dell’ambasciata o che contasse sulla rete di sicurezza dell’immunità diplomatica.

    No, si trattava di un’operazione coperta extra-ufficiale, lanciata in incognito per recuperare materiale incriminante. «L’affare è questo. Voi potete avere gli agenti polacchi, noi vogliamo l’occidentale» disse in cagnesco Krivitsky. «Un processo farsa» aveva detto Krivitsky «per mettere in imbarazzo gli americani, gli inglesi, chiunque cazzo ci sia dietro. Poi un interrogatorio prolungato, un po’ di tempo in un gulag e alla fine lo vedremo tornare in occidente, tra qualche anno, a cambio di un agente dei nostri.»

    Ma allora chi era questo agente? Che aspetto aveva?

    «Non lo sappiamo, quindi inutile che lo chiediate. Alto, forse; giovane, di sicuro. È tutto quello che sappiamo e da dove abbiamo avuto queste informazioni non caveremo nient’altro» aveva mormorato Krivitsky, che pareva detestare il dover fornire più informazioni di quelle strettamente necessarie. La voce che Bajek aveva sentito in giro era che la spia polacca interrogata da Krivitsky non aveva avuto una costituzione abbastanza forte e aveva deciso di non stare più al gioco. Per sempre.

    «Gli abbiamo preparato una trappola» aveva annunciato Krivitsky. «Un’ora e un posto. Abbiamo preparato il segnale del via libera. Un segno col gesso su un lampione di via Marszałkowska. Arrivano i mezzi e svuotano la cassetta delle lettere. Un recapito segreto. Lui penserà di ricevere le chiavi del Cremlino, ma noi saremo lì a catturarlo. Quindi ricordate: voi lavorate per me. Farete quello che dico io. Se non lo fate, mi assicurerò di farvi scopare merda nelle fogne per il resto della vostra vita.»

    Il recapito segreto era in realtà un mattone allentato, nella terza fila verso il basso, il sesto in orizzontale, in un muro che circondava il terrario dei rettili. Si trovava dietro un piccolo cespuglio che, per farla breve, forniva riparo da qualsiasi sorveglianza. Il mezzo di riparazione che ospitava uno dei membri del gruppo di sorveglianza contava su una discreta fotocamera a lungo raggio puntata verso l’accesso alla stradina.

    Il piano era osservare l’obiettivo entrare nello stretto passaggio tra il muro e il cespuglio, avvisare il resto del gruppo che allora si sarebbe mosso per bloccare l’agente straniero con la forza e detenerlo una volta uscito.

    Durante le ultime ore avevano visto alcuni candidati che potevano essere la spia da catturare di lì a poco, ma nessuno di loro combaciava col profilo di un agente straniero dell’intelligence: una coppia di anziani che camminavano sostenendosi a braccetto, una madre in visita coi due figli giocosi, il solito seguito di coppiette che si corteggiavano. Il candidato più probabile era stato un uomo alto di mezz’età, con un completo d’affari occidentale, che poi però si identificò velocemente come un ufficiale del partito.

    Uno del gruppo aveva lavorato con lui alcuni mesi prima seguendo una sospetta falla nella sicurezza del ministero e la cosa più controversa al suo riguardo era la sua storia d’amore con una giovane segretaria della sezione amministrativa. Il gruppo lo scartò velocemente e pochi minuti dopo lo vide camminare verso il parco mano nella mano con una giovane ragazza dai capelli chiari che di certo non era la moglie.

    Bajek diede uno sguardo all’orologio: erano le 16.45, la luce stava cominciando a scemare e lo zoo sarebbe stato chiuso nel giro di un’ora. Forse la spia aveva dato loro buca o magari si era accorta della sorveglianza e aveva deciso di abortire l’operazione di svuotamento del recapito segreto, cosa che significava, per Bajek, che anche l’indomani sarebbe potuto trovarsi rinchiuso a girare per lo zoo. Maledizione!

    Sollevò la sua pesante mole dal sedile e decise di fare un altro giro lungo il suo itinerario, spingendo la carrozzina e fingendo interesse nei confronti della limitata selezione di animali che lo zoo aveva da offrire. Completò un giro, ne fece un secondo e fu proprio all’inizio del terzo, quando non si aspettava altro che di compiere l’ultima tornata, che udì il suono del fischietto.

    A tutti i membri del gruppo ne era stato dato uno, l’equivalente a un primitivo sistema di allarme. Non particolarmente all’avanguardia, ma comunque efficiente. «Se lo vedete suonate il fischietto. Capito?» aveva avvertito Krivitsky durante il briefing.

    Bajek si voltò in direzione del rumore. All’inizio non vide niente, solo lo zoo nella sua versione più familiare: turisti che esaminavano i recinti degli animali. Normalità. Poi vide muoversi qualcosa. Un uomo di età simile alla sua, coi capelli neri e magro rispetto alla sua stazza, vestito con una salopette e un giubbotto da operaio, correva a perdifiato da dove si trovava il recapito e sembrava dirigersi verso il sentiero principale che portava ad una delle uscite.

    A ridosso di quello che correva, ma senza nessuna possibilità di raggiungere la sua preda, c’era Stephan, il membro più anziano del gruppo di sorveglianza, che sfoggiava il suo naso insanguinato. Il povero vecchio Stephan con una mano si premeva, cercando invano di tamponare il fiume di sangue, e oscillava l’altra nello sforzo di proiettarsi in avanti più velocemente possibile. Sembrava che la spia non aveva voluto lasciarsi prendere e aveva contrattaccato.

    Poi tutti i fischietti sembrarono suonare all’unisono, avvisando il resto del gruppo di intervenire, e fu allora che Bajek colse al volo l’opportunità. Non era fatto per correre, né era particolarmente in forma nonostante fosse giovane, ma aveva davvero un vantaggio fondamentale: si trovava ad un angolo di 45 gradi rispetto a dove si sarebbe trovata la spia da un momento all’altro. Se fosse riuscito ad attraversare il prato avrebbe potuto intercettare la traiettoria del corridore, placcarlo e mandarlo a terra col proprio peso. Contro la mole di Bajek quell’uomo magro non avrebbe potuto far nulla: sarebbe stato semplicemente abbattuto.

    La carrozzina che era stata sua compagna di sorveglianza durante le ultime ore venne scaraventata via, abbandonata, bambolotto e tutto, e partì! Scuotendo su e giù le braccia, lavorando di gambe per spingersi in avanti, intercettò l’uomo con la coda dell’occhio. Era una corsa per la sopravvivenza. Bajek per le sue possibilità di promozione e per scappare dalla scrivania che pareva una prigione; la spia, ne era sicuro, per la sua stessa vita e libertà. Mancavano dieci secondi, era sicuro di farcela…

    Cinque secondi all’impatto. Bajek, l’eroe del servizio, l’uomo che aveva abbattuto una spietata spia occidentale… il sangue gli pulsava nelle orecchie… l’unico suono che riusciva a udire era quello del suo cuore che tuonava…

    Poteva vedere chiaramente quell’uomo: giovane, certamente, ma con un viso duro, bello… tre secondi, quasi…

    Poi però successe qualcosa di strano. L’uomo sembrò inciampare, incespicare, infine recuperò l’equilibrio. Bajek aveva quasi messo una mano sul collo del giubbotto della spia, quando finalmente udì l’ordine.

    All’inizio Bajek fu consapevole di quelle urla in russo, anzi, strilli sarebbe un termine più accurato. Poi il fragore di numerosi colpi che venivano sparati, il ronzio delle pallottole che gli passavano di fianco, lo stridio degli animali in gabbia che reagivano con paura. Poi la spia sembrò barcollare, o almeno lo sembrò a Bajek, ma i colpi d’arma da fuoco continuarono. Chi diavolo aveva una pistola nel gruppo? Pensa Bajek. Pensavo che avessimo tutti solo dei fischietti.

    Gli ultimi proiettili sembrarono esplodere nella spia che correva. Uno nella spalla e quello finale, il più severo, che lo colpì dietro al cranio, dotandolo per un istante di una bella aureola rossa, prima di farlo crollare a terra senza riguardo. Il mondo sembrò fermarsi, un respiro trattenuto come nell’attesa di quanto sarebbe accaduto in seguito. Ma poi non venne nient’altro. Le pallottole avevano fatto il proprio lavoro. La spia era stesa a faccia in giù, con le braccia e le gambe ritorte in angoli strani, tanto da sembrare una bambola di pezza per bambini, gettata in disparte in un momento di stizza.

    Bajek si inginocchiò per esaminare l’uomo ferito. Incrostata sul sentiero di cemento c’era una massa di sangue e materia grigia.

    Il lato sinistro della testa gli era saltato in aria, una ferita fatale, tuttavia bisognava riconoscergli che continuava ad afferrarsi agli ultimi scampoli di vita. Il suo corpo si contorceva di tanto in tanto, gli occhi roteavano selvaggiamente e la mandibola si muoveva come se stesse cercando di parlare.

    Bajek si avvicinò ulteriormente, in modo che il suo orecchio toccasse quasi le labbra di quell’uomo. All’inizio non ci fu niente, poi con uno sforzo enorme una parola fuoriuscì con un sussurro rauco… per poi essere ripetuta ancora e ancora e ancora. Ogni volta lo sforzo aveva un costo su quell’uomo morente, che però continuava ad espellere la stessa parola fino a quando, finalmente, non ne ebbe più. Gli occhi gli rotearono all’indietro e se ne andò. Bajek gli chiuse le palpebre e si rialzò su un ginocchio.

    Il resto del gruppo rimase immobile, come fossero stati ad un funerale, cosa che in un certo modo era vera, pensò Bajek, mentre porgeva un cordone per mantenere lontani i curiosi. E lì, dietro tutti loro, stava quel maledetto bastardo russo, il cosiddetto professionista, il pesce grosso del KGB, che aveva sparato i colpi fatali.

    Il russo se ne stava lì come un bambino in castigo, con le mani sui fianchi e la pistola ancora sulla destra, con aria colpevole, un’espressione di vergogna sul volto. I suoi occhi si posarono sul gruppo polacco e poi congedò l’episodio della sparatoria alzando le spalle. Fu allora che Bajek, il giovane ufficiale che era solo di un gradino superiore agli addetti alle pulizie, scattò e si avventò su di lui. Senza sotterfugi, né pensieri o piani prefissati, semplicemente avventandosi dritto alla gola del russo.

    «Ce l’avevo quasi… tu… tu… macellaio!»

    I due caddero in un groviglio, la pistola cadde a terra mentre Bajek cominciò a picchiare quello del KGB con pugni, calci e gomitate. Bajek si ritrovò spinto all’indietro in fretta e poi contenuto. Venne spinto via mentre Jan, il capo squadra, sollevava il russo da terra, lo spolverava e cominciava a scusarsi, allontanandolo da lì.

    «Mi spiace, maggiore. Ha la mia parola, sarà punito. È un ufficiale giovane con poca esperienza di come funzionano le operazioni sul campo. È giovane. La sparatoria? A volte succedono degli incidenti. No, naturalmente, lei non aveva intenzione di ucciderlo. Un tragico incidente. Non avrebbe dovuto mettersi a correre. Per favore, torniamo alla base; i miei possono risolvere tutto, così poi potremo possiamo preparare insieme il rapporto.»

    Bajek era consapevole che il russo tornava infuriato verso le vetture che lo avrebbero fatto sparire dalla scena. Il resto della squadra si stava riunendo e chiamava l’ambulanza per far portare via il cadavere, facendo disperdere quei membri del pubblico che erano abbastanza audaci, o abbastanza stupidi, da continuare a dimostrare un certo interesse.

    Bajek crollò contro il muro del recinto dell’orso nero. Jan, il capo squadra, si avvicinò sovrastandolo con le mani sui fianchi. «Sai in che casino ti sei messo? Considerati fortunato se non vieni cacciato a pedate dal servizio per questa storia!»

    «Quello stupido russo ha perso i nervi. Ha rovinato l’operazione» ringhiò Bajek, ancora dominato dall’ira, ma cedendo pian piano con la progressiva consapevolezza di quanto aveva appena fatto.

    «E allora? È lui che si gioca la pelle, o almeno lo era fino a quando non ti sei immischiato a base di pugni. Hai messo il servizio in imbarazzo e ti sei fatto nemico un maggiore del KGB. Complimenti.»

    «Pensavo si presumesse che quelli del KGB fossero dei professionisti e che noi fossimo solo i cugini poveri di campagna. Se questo è quanto di meglio sanno fare, che Dio li aiuti» protestò Bajek.

    Jan scosse il capo, in apparenza rassegnato sul da farsi. «Noi siamo i cugini poveri. Siamo realisti, non possiamo operare senza l’aiuto dei russi. Sono i nostri padroni. L’affare era che noi avremmo avuto gli agenti locali di questa rete e i russi avrebbero avuto l’agente occidentale. Dovrò scortarti di ritorno alla base, Tomasz. Il direttore vorrà leggerti il rapporto di insubordinazione prima di decidere in che baratro buttarti.»

    Bajek vacillò sui due piedi. Jan gli afferrò delicatamente il braccio e prese a portarlo via. «Comunque, cos’è che ha detto?» gli chiese.

    «Eh?» Bajek si lanciò un’occhiatina alle spalle, verso il luogo in cui giaceva il cadavere della spia occidentale. Uno del gruppo aveva steso una coperta sul corpo, cercando di celarlo fino a quando non fosse arrivato il veicolo per rimuoverlo. Gli animali dello zoo avevano cominciato a reagire, forse per l’odore del sangue del morto che si diffondeva nell’aria, rinvigorendone gli istinti primari. Bajek si fermò un attimo, immerso nei propri pensieri.

    «Be’,» lo spronò Jan «cos’ha detto? Sei sordo? Potrebbe essere importante.»

    «Non ha detto niente, niente di niente, probabilmente stava solo cercando di respirare.»

    Fu solo più tardi, quando sedeva alla sua scrivania e sudava mentre gli agenti del Servizio decidevano la sua sorte, che Bajek si permise di ricordare cos’aveva ripetuto quell’uomo una volta dietro l’altra. Aveva ripetuto una sola parola, in inglese, nei suoi ultimi momenti di agonia. In quel momento Bajek non era stato sicuro di cosa stesse cercando di dire. Così, una volta tornato al quartier generale, prese la logora copia dell’ufficio del dizionario inglese-polacco e ne scorse le pagine finché trovò la parola che quell’uomo non aveva smesso di ripetere.

    In polacco la parola era tata. In inglese, col suo ultimo soffio di vita aveva ripetuto e ripetuto e ripetuto: «Papà… papà… papà…».

    LE REGOLE DEL GIOCO

    LIBRO SECONDO

    CAPITOLO

    UNO

    LUSSEMBURGO – NOVEMBRE 1964

    Il reclutamento del primo sicario europeo, che poi sarebbe diventato il responsabile delle operazioni sul campo, ebbe luogo in una glaciale serata in Lussemburgo, in una villetta privata chiamata St. Hubert nella graziosa cittadina di Clervaux. Era una casa da fiaba in un borgo da fiaba.

    L’Uomo dal Lussemburgo, com’era conosciuto colloquialmente il sicario, catalano di nascita, nell’ambiente mercenario internazionale, fu salutato sulla soglia della villetta da Max Dobos, il factotum ungaro-americano, persona di contatto ed emissario. L’ungherese era lì anche per assicurarsi che il Catalano e l’Americano non venissero disturbati e che il loro incontro rimanesse sub rosa.

    «Ti sta aspettando. È in città dall’ora di pranzo. Devo perquisirti, è la prassi» disse Dobos.

    Un controllo e una perquisizione, non male, ma per nulla ai livelli degli standard del Catalano. Poi questi si spogliò del cappotto e ascese a passo veloce una scala tortuosa che conduceva ad un pianerottolo al primo piano e ad una pesante porta di legno, chiusa. Un colpetto alla porta e dall’interno risuonò un sommesso Avanti!.

    La porta si aprì su di una stanza scarsamente adornata, con un tavolo di quercia, vari divani dall’aspetto comodo e, in mezzo, due poltrone da lettura tappezzare in cuoio, l’una di fronte all’altra. Le ampie finestre erano dotate di tendine per evitare qualsiasi sorveglianza dall’esterno, ma il Catalano sapeva comunque che la vista della valle là fuori sarebbe stata mozzafiato.

    «Permettimi di presentarti Herr Knight» disse Max Dobos al Catalano, presiedendo la formale stretta di mano. Parlavano in inglese, la lingua franca che li accomunava, e una volta concluse le formalità l’americano si mostrò desideroso di occuparsi della situazione.

    «Max, se vuoi fare il favore di lasciarci da soli e assicurarti che non ci disturbi nessuno… Grazie.»

    L’ungherese di mezz’età assentì bruscamente e se ne andò in fretta. Uno scatto della porta e il suono distante di Dobos che zampettava giù per le scale garantirono che i due erano rimasti da soli. Col terzo incomodo via dai dintorni, l’Americano e il Catalano si valutarono l’un l’altro come solo sanno fare gli uomini con una certa esperienza e fiducia in se stessi: con rispetto professionale e un po’ di diffidenza.

    L’Americano era noto solo come signor Knight, senza nome, e come in tutti gli aspetti del suo mestiere aveva fatto il suo dovere alla perfezione, progettando tutto fin nei minimi dettagli. In tutto era un uomo medio: di media statura, di mezz’età, capelli sale e pepe, completo elegante di livello medio. Trasudava ordinarietà, tranne che dagli occhi. I suoi occhi avevano una freddezza dura che poteva, all’occasione, passare da un luccichio glaciale a una rabbia ardente. Erano gli occhi di un fanatico.

    Per l’Americano, il Catalano era alto e distinto, coi capelli neri come l’inchiostro e impomatati che presentavano come dei cornetti di grigio a rigargli le tempie. Era ben vestito, di bella presenza. Eppure l’Americano non si lasciò ingannare per un solo secondo: quell’europeo era pericoloso, un sicario esperto. La sua fama lo precedeva.

    «Possiamo sederci e metterci comodi?» suggerì l’Americano, desideroso di controllare il ritmo dell’incontro, come sono sempre inclini a fare i coordinatori con i loro possibili agenti futuri.

    E così si sedettero faccia a faccia nel salotto, con le mani comodamente adagiate in grembo e la sola valigetta dell’Americano ad interporsi tra di loro.

    In un qualche altro punto della villa, all’insaputa del sicario e della spia, un registratore iniziò a girare, registrando di nascosto ogni singola parola…

    «Hai fatto dei lavori eccezionali per noi in passato. Ho studiato il tuo dossier. Molto capace, molto professionale, specialmente quell’operazione nella Repubblica Dominicana per eliminare Trujillo.»

    Il Catalano si limitò a sorridere con autoironia e alzò le spalle. «Ero contento di essere al vostro servizio. La vostra organizzazione è stata molto generosa… finché è durata.» La voce del Catalano era densa e profonda.

    «Lo so, lo so, credimi. I responsabili delle operazioni a quei tempi avevano le spalle al muro, specialmente dopo l’omicidio del presidente Kennedy. Un sacco di senatori e personaggi pubblici avevano deciso di voler tagliare le ali all’Agenzia. Abbiamo dovuto fare un passo indietro e interrompere i contatti con chiunque fosse stato coinvolto in ciò che avrebbero definito a dir poco come delle attività controverse. Ci dispiace. Ma guardiamo avanti.»

    Il Catalano annuì dimostrando comprensione. «È così che funziona il nostro mestiere. Siamo alla mercé di quelli che stanno sopra di noi. Ma ovviamente le cose sono cambiate, altrimenti non si sarebbe fatto il viaggio da Langley per contattarmi.»

    Il signor Knight si inclinò in avanti, come per riportare l’ospite all’ovile. «Perfino i politici sono pragmatici di questi tempi. Stiamo combattendo una guerra fredda, che ci piaccia o no, e per condurre le operazioni contro i sovietici ci servono soldati. Uomini capaci, come te, uomini che non abbiano paura di sporcarsi le mani. Nessun jolly, al contrario: agenti professionali che sappiano come condurre un’operazione.»

    «Molto gentile.»

    «No, non sono gentile, tutt’altro. Ma sono onesto e mi piace dire le cose come stanno. L’epurazione dopo l’omicidio del presidente è stato un contrattempo, nient’altro. Adesso abbiamo un lavoro serio da fare e mi piacerebbe che lavorassi per noi. Cosa ne pensi?»

    Il Catalano respirò profondamente e osservò le gocce di pioggia che gli si asciugavano sulle scarpe di cuoio. «Ho altri interessi di lavoro, al momento, che occupano buona parte del mio tempo. Se dovessi lavorare di nuovo coi vostri, mi servirebbe un bell’incentivo.»

    In realtà non vedeva l’ora di lavorare di nuovo con gli americani. Dopo il pensionamento forzato si era confinato alla sua attività legale, la gestione di un negozio d’arte e antiquariato nel centro del Lussemburgo. Dopo aver lavorato in giro per il mondo aveva pensato di aver bisogno di un rifugio: un posticino discreto, tranquillo e colto. Per lui il Lussemburgo calzava a pennello. Oltre alla sua vita da piccolo uomo d’affari, aveva preso parte anche ad alcune attività non proprio legali, vale a dire il finanziamento di diverse operazioni di contrabbando d’eroina a scala ridotta, da una parte all’altra del Mediterraneo, che nonostante gli procurasse dei buoni ricavi non era riuscito a dargli quella scarica d’adrenalina dei suoi precedenti lavori per gli americani.

    Il signor Knight inchiodò gli occhi ai suoi, con lo sguardo fisso. «Caro mio, se aderisci all’operazione ti posso garantire che le risorse a tua disposizione e la remunerazione supereranno qualsiasi cosa ti abbiamo offerto in precedenza; su questo hai la mia parola. C’è un nuovo direttore all’Agenzia e vuole spazzare via tutta la merda che i sovietici ci hanno sparato addosso mentre noi eravamo distratti con le cazziate. In questo frangente ti sto solo chiedendo se saresti interessato in linea di massima. Se è così, allora procederemo coi dettagli del progetto, altrimenti, be’… altrimenti ci daremo una stretta di mano, tu te ne vai per la tua strada, io per la mia, e non avrai più contatti né lavorerai mai più per l’Agenzia.»

    Il Catalano sostenne lo sguardo dell’Americano per un breve istante, soppesando le possibilità. Prendere l’impegno o rifiutare; entrambe le opzioni avevano pro e contro, e considerandoli bene tutti, la cosa non si riduceva a una questione di soldi, che comunque erano sempre benvenuti. Si trattava piuttosto del desiderio di far parte attivamente del gran gioco cui aveva partecipato per gran parte della sua vita da adulto.

    Così la decisione fu chiara: continuare ad essere uno spacciatore da quattro soldi ai margini della malavita europea o accettare la sfida ed essere una pedina di peso nella guerra fredda? Era sempre utile avere degli alleati potenti come gli americani, specialmente se i suoi affari e investimenti tutt’altro che legali si guastavano. Sorrise con triste rassegnazione e accettazione. In realtà non aveva mai avuto nessun dubbio.

    «Signor Knight, dimmi di più di quest’operazione. Mi incuriosisce. Come posso essere utile?»

    L’Americano servì un bicchiere di grappa per ciascuno, un piacere che aveva acquisito in Germania dopo la guerra. Era una bella opportunità di frenare il Catalano. Lascialo in sospeso, togligli l’equilibrio e stabilisci tu il ritmo, pensò il signor Knight.

    Ma l’intervallo nella conversazione doveva avere il giusto tempo. Troppo entusiasmo con i dettagli e il Catalano se la sarebbe potuta filare, troppa pausa e non lo avrebbe preso sul serio. Knight sapeva per esperienza propria, dall’aver trattato con altri agenti in passato, che il trucco consisteva nel non andare mai troppo direttamente al grano. Il buon senso dettava piuttosto di cominciare da lontano e andare via via restringendo l’obiettivo; di lì l’invito alla grappa e il preambolo che seguì.

    «In seguito alla morte di Kennedy, il sistema dell’intelligence sovietico e i loro servizi satellitari hanno cominciato a testare i limiti di quanto avrebbero potuto farla franca con delle operazioni contro un qualsiasi numero di servizi segreti occidentali. Erano già riusciti a penetrare nell’intelligence della Francia, la Gran Bretagna e la Germania, ma la CIA si è rivelata un osso più duro da rodere. Così hanno deciso di approfittare della nostra impossibilità di condurre operazioni clandestine e hanno scelto di fare sul serio, eliminando vari nostri agenti in Europa e in Asia. Quando i politici hanno chiuso i battenti alla nostra funzionalità delle Azioni Esecutive, hanno cacciato anche il capo delle operazioni. Senza di lui, le sue risorse e le sue capacità di programmazione, di fatto siamo rimasti disarmati. Un po’ come una pistola senza pallottole.»

    Il Catalano annuì con comprensione. Aveva visto più di una volta l’ufficiale in capo delle operazioni della funzionalità delle azioni segrete della CIA, perlopiù in Italia. Un ubriaco sovrappeso un po’ decaduto, ma pur sempre un uomo di grande esperienza e un eccellente agente di copertura, nonostante tutto. Entrambi brindarono in silenzio alla salute dell’ufficiale della CIA, assente, e mandarono giù la grappa.

    Il signor Knight continuò a sorseggiare il suo bicchiere. «Cavolo… è buona. Comunque, l’Agenzia ha sopportato questa situazione finché l’ha potuta sopportare, poi ha cominciato a reagire. Oh, non contro i russi, diavolo, quella sarebbe stata la parte facile. No, contro i maledetti politici, i comitati di sorveglianza e quei bastardi che di come si gestisce un’operazione clandestina sanno tanto quanto di astrofisica! Il discorso che abbiamo fatto loro è stato chiaro. Alcuni molto in alto nell’Agenzia hanno formato un quorum e hanno avvicinato alcuni congressisti favorevoli, alcuni dei quali ci avevano aiutato durante la guerra e sapevano da dove venivamo. Persone per bene, amanti della libertà e della democrazia.»

    Knight si versò un altro bicchierino di grappa e lo ingoiò. «Guarda, sappiamo che ci siamo fatti un po’ prendere la mano nel reclutare e organizzare ogni tipo di risorse in alcune parti del mondo davvero disgustose. I nostri gliel’hanno detto: "L’abbiamo

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1