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Heat 2. 1988 - 2000
Heat 2. 1988 - 2000
Heat 2. 1988 - 2000
E-book650 pagine8 ore

Heat 2. 1988 - 2000

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Info su questo ebook

Michael Mann – scrittore e regista di L’ultimo dei Mohicani, Insider - Dietro la verità, Alt, Miami Vice e Collateral, ha lavorato con Meg Gardiner, vincitrice del Premio Edgar, per scrivere il suo primo romanzo, un esplosivo ritorno all’universo narrativo e ai personaggi del suo celebre film, Heat- La sfida.

«Heat 2 dà vita a una delle più brillanti rappresentazioni che io abbia mai letto dei criminali e dei poliziotti che danno loro la caccia.  Questo primo romanzo di Michael Mann (e Meg Gardiner) è una storia che si può leggere da sola anche se approfondisce l’iconico film, collocando tutti i personaggi chiave in una nuova storia che si svolge prima e dopo Heat – La sfida.»  Don Winslow 

È trascorso un giorno dalla fine di Heat - La sfida. Chris Shiherlis (Val Kilmer), ferito e febbricitante, si è nascosto a Koreatown e sta cercando disperatamente di fuggire da Los Angeles. A dargli la caccia è il detective Vincent Hanna (Al Pacino). Qualche ora prima Hanna ha ucciso il suo complice Neil Mc-Cauley (Robert De Niro) in uno scontro a fuoco sulla pista dell’aeroporto, e ora è deciso a eliminare anche lui, ultimo sopravvissuto della banda, prima che si volatilizzi.

Nel 1988, sette anni prima, McCauley, Shiherlis e la loro banda di rapinatori professionisti hanno messo a segno una serie di colpi nella West Coast, al confine con il Messico e poi a Chicago. Audaci e motivati, si sono arricchiti e vivono intensamente. E proprio a Chicago il detective della Omicidi Vincent Hanna – un uomo che non è mai venuto a patti con il proprio passato – sta seguendo la sua vocazione: inseguire criminali armati e pericolosi fi no nei luoghi più oscuri e selvaggi, e dare la caccia a una banda di scassinatori ultraviolenti.

Nel frattempo, le conseguenze delle rapine di McCauley e l’inseguimento di Hanna mettono in moto una serie di eventi inaspettati che si dipanano in una narrazione parallela attraverso gli anni che seguono Heat. Heat 2 proietta i personaggi vividi e credibili del film in mondi completamente nuovi, dal sancta sanctorum di un cartello della droga in Sudamerica, fino alle organizzazioni criminali transnazionali del Sudest asiatico, coinvolgendo il lettore nelle loro vite mentre affrontano nuovi avversari in circostanze estreme e letali.

Avvincente, emozionante e tragico, è un romanzo che per spessore, ambientazione e contenuti ha la stessa ricchezza dell’epico film da cui ha preso l’avvio. 


Michael Mann. Regista, sceneggiatore e produttore, è una delle figure più innovative e influenti nel panorama cinematografico americano. Ha ricevuto quattro nomination al Premio Oscar, vinto due Emmy Awards, e ha scritto, diretto e prodotto molti film per il grande e il piccolo schermo e diverse serie tv celebrati dalla critica per i quali ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti. Vive a Los Angeles. 

Meg Gardiner. È autrice pluripremiata di sedici romanzi acclamati dalla critica. I suoi thriller sono dei bestseller in tutto il mondo e sono stati tradotti in più di venti lingue. Ex avvocato, ha vinto tre volte il celebre quiz-show americano Jeopardy! ed è stata eletta due volte presidentessa di Mistery Writers of America. Vive a Austin, in Texas.

LinguaItaliano
Data di uscita27 set 2022
ISBN9788830542099
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    Anteprima del libro

    Heat 2. 1988 - 2000 - Michael Mann

    PARTE PRIMA

    LOS ANGELES, 1995

    La realtà mangia carne cruda

    e non esita

    Ha il potere di arresto del sole

    Cammina solo con le proprie scarpe

    Spoon Jackson

    1

    La notte lampeggia tra le stecche delle veneziane, neon intermittenti rosa e blu dalla bottega coreana all’angolo. I fari delle auto di passaggio proiettano ombre sul soffitto. Da un negozio di musica al pianterreno sale un pulsare di note, che rimbomba come un battito cardiaco attraverso la spalla e il collo di Chris Shiherlis.

    Alzati.

    Non ce la fa.

    Alzati, cazzo. Adesso.

    Apre gli occhi.

    Non è morto. I morti non pulsano al ritmo del K-pop coreano che sale dal pavimento. I morti non sanguinano.

    Non è a casa. Casa sua è una fattoria nascosta nell’anonimato della San Fernando Valley. Si trova su una rete con sopra un materasso, in un angolo. Non è una cella. È un appartamento al primo piano a Koreatown.

    Gli occhi si chiudono di nuovo, sotto la spinta sedativa dell’ossicodone. Poi si risveglia.

    Come mai sono qui?

    Il K-pop risuona come una scarica di mitra nel canyon tra palazzi di vetro neri. Le sirene echeggiano attraverso il centro città. Ricorda il peso dondolante della borsa di denaro a tracolla. Breedan morto al volante. Un’imboscata. Brevi raffiche di tre colpi, senza esitazioni. L’assalto della polizia. Una potenza di fuoco superiore per un numero schiacciante di civili.

    Civili? Te lo do io schiacciante, stronzo! Reagire all’imboscata. Crivellare le lamiere bianche e nere delle auto di pattuglia, il rumore porta le pulsazioni alla testa, esplode fuori dal cranio.

    La musica rimbomba, forte e straniera. Usala.

    «Concentrati, guarda» borbotta.

    Ombre e luce rosa dalla strada proiettano strisce sulle pareti sporche. Letto, lenzuola economiche, lui in boxer. I vestiti piegati su una sedia da giardino in plastica. Un televisore spento su un tavolino. Mozziconi di sigaretta spenti su un piattino sbreccato; lattine di birra schiacciate nel cestino. Voci fuori.

    La ferita gli fa un male da urlare. I frammenti d’osso non hanno lacerato l’arteria succlavia, altrimenti sarebbe morto. L’aveva sentito dire al veterinario, il dottor Bob. L’aveva detto a Neil, mentre lui lo teneva fermo.

    Chris scalcia per emergere in superficie.

    Alzati, cazzo!

    Cerca di tirarsi su a sedere, ma i muscoli urlanti di collo e spalla lo ricacciano indietro.

    Com’è arrivato lì? Dopo Venice aveva guidato fino da Nate. Quando un semaforo rosso era diventato verde, i clacson l’avevano svegliato di colpo. Ricorda di essere passato a zig-zag su Sepulveda Pass per tornare a Encino. Non si era fidato a prendere la 405.

    Venice. Quel gesto da croupier di blackjack. La mano che planava nell’aria. Ormai non ci sono più carte da distribuire. Lei aveva chiamato e lasciato un messaggio. Nate aveva obiettato, ma poi era andato via, a Venice. Chris era sceso dall’auto e l’aveva vista sul balcone. Lo stava aspettando.

    I suoi occhi, il sorriso ammiccante, come quando si erano conosciuti. Poi quello sguardo di avvertimento.

    La porta della stanza si apre. Entra Nate.

    È alto, indossa una giacca sportiva a due bottoni e un cravattino texano. Capelli stopposi tirati indietro con il gel, baffi anni Settanta, pendenti sul viso chiazzato. Occhi piccoli e rapidi. Lo squadrano da capo a piedi, valutandolo.

    … ora è?

    Nate chiude le veneziane. «Cosa?»

    Da quanto sono qui?

    Parole. Le sente nella testa. Hanno un senso. Ma escono?

    Nate si china sopra di lui. «Sta’ fermo.»

    Trascina la sedia da giardino accanto al letto, si siede e con attenzione solleva il cerotto sulla garza che copre la ferita.

    Il piccolo proiettile di 5,56 millimetri ad alta velocità lo aveva penetrato come un missile Sidewinder, portando a termine il proprio compito: un’ampia cavitazione nella massa corporea, osso ridotto in schegge. Chris ricorda di essere caduto sull’asfalto a pancia in su, la lucidità dell’adrenalina, la visione sbilenca delle auto della polizia che loro avevano fatto a pezzi. Non posso muovermi. Neil lo aveva tirato su.

    Nate solleva la garza. I punti sono neri, la pelle rossa e calda.

    La luce sul soffitto proietta silhouette. Nate fa un grugnito soddisfatto, annuisce e rimette a posto garza e cerotto. Si appoggia sui gomiti. Lo guarda negli occhi.

    «Sei qui con me, o a Disneyland?» Ha la voce bassa e roca.

    Chris annuisce.

    «Bisogna portarti via di qui. In fretta.»

    Nate si occupa di spostare cose. Mercanzia. Persone. Bottino. Qualunque cosa.

    «Charlene» borbotta Chris.

    «Hai un paio d’ore. Poi basta.»

    Suo figlio, sua moglie. Charlene non c’è…

    «Neil?» chiede.

    Lo sguardo di Nate si fa freddo, inespressivo. La reazione controllata di un veterano delle brutte notizie.

    «Se resti qui sei fregato» dice, semplicemente. «Non devi pensare ad altro.»

    «Ma Neil…»

    «Riprenditi, torno subito.» Nate esita, scuote la testa in modo millimetrico, poi va alla porta.

    Chris lo vede illuminato a strisce rosa e blu dal neon di fronte. Cerca di far uscire la voce, al di sopra del pulsare della musica K-pop che arriva dal pavimento. Non puoi scuotere la testa e andartene.

    La porta si chiude.

    2

    Vincent Hanna cammina su e giù dietro la vetrata e scruta la stanza. Fuori, le onde si infrangono sulla sabbia. L’oceano è color cobalto. I bordi delle nuvole basse sono illuminati d’oro, come mostrine intrecciate su un’alta uniforme. L’alba. Le sei del mattino. La casa è vuota. Neil McCauley viveva qui. Non tornerà.

    Hanna è venuto perché vuole che quel posto gli dica qualcosa. Vuole che McCauley gli parli di nuovo. Non sono passate ancora sei ore, da quando ha sparato i tre colpi che l’hanno abbattuto. Gli ha tenuto la mano durante il parossismo che l’ha portato alla morte. Tra loro si capivano, come se fossero le uniche due persone sul pianeta. Soli, isolati nel loro essere; ma soltanto loro sapevano come funziona realmente tutto.

    Nel palmo sinistro gli è restata la memoria tattile.

    Attraversa la casa, si guarda intorno. Il tempo che gli resta sta evaporando. Vuole qualcosa: informazioni, dati. Il pavimento in legno echeggia sotto i suoi passi. Il fragore delle onde risuona fuori dalle finestre. Il parapetto di vetro sul balcone è macchiato di merda di gabbiano.

    McCauley non viveva lì, in quello spazio bianco. Ci dormiva, mangiava, beveva il whisky single malt della bottiglia che resta sul piano di lavoro. Ma non ci abitava.

    Era una stazione di sosta.

    «Niente legami. Tagliare la corda in trenta secondi netti in caso di problemi dietro l’angolo.» Glielo aveva detto lui stesso.

    Allora chi era la ragazza nella Camaro?

    Fuori, il sole che sorge apre il cielo sopra l’oceano scuro. Hanna volta le spalle alle finestre.

    Tutto è scomparso. La parte di McCauley di un bottino a otto cifre. Cerrito. Trejo. Breedan.

    Eccetto l’ultimo uomo, Chris Shiherlis. Lui è ancora libero. Dove?

    Il sergente Jamal Drucker entra in soggiorno, passando dal retro della casa. Si muove come una lama al carbonio, silenzioso, affilato, la faccia marrone grave nella poca luce. «Lì dietro non c’è niente, Vincent.»

    «Frammenti, pezzetti, minuzie?»

    I suoi pensieri prendono la tangente. Qualcuno della famiglia di Michael Bosko ora sarà all’obitorio. Quella è la cosa che teme. E anche la veglia funebre. Lo sguardo indifferente di Shiherlis mentre premeva il grilletto. Nessuna esitazione. La raffica di tre colpi che ha ucciso Bosko. Dov’è Shiherlis? Le possibilità di prenderlo si stanno esaurendo di ora in ora, come un tachimetro che corre alla rovescia. Con la solita indifferenza del tempo, che gli sta togliendo ogni possibilità.

    Drucker ha l’aria stanca, ma la sua voce profonda è concentrata. «Tre camicie bianche identiche nell’armadio. Libri. Metallurgia meccanica, Camus, Marco Aurelio. Non chiedermi perché.»

    Come mai Hanna non è sorpreso? «Niente cose da donne? Rossetto, mascara, biancheria intima, Tampax, guanti di gomma rosa o turchese sotto il lavandino? Cosa c’è in frigo? Yogurt? Lamponi? Twinkies congelati? Qualcosa a parte cene precotte?»

    «Una bottiglia di vodka.»

    Ma McCauley aveva una donna. In piedi accanto alla Camaro, con un’espressione affranta sotto folti capelli castani. La si vede anche nei video di sicurezza a bassa risoluzione dell’hotel, quando le cadono le braccia mentre McCauley le volta le spalle e scappa, inseguito da Hanna. Le targhe della Camaro erano false. Era il passaggio per la fuga di McCauley, senza dubbio. Chi è la donna?

    Hanna guarda Drucker. «Doveva fuggire con lui.»

    «Chi?»

    «La ragazza della Camaro.»

    «Ormai sarà sparita.»

    «Dalla faccia, non mi sembrava una delinquente. Dove andrebbe, senza di lui? Forse sa chi forniva i mezzi di trasporto a Neil. Chiunque sia, è la persona di cui si sta servendo Shiherlis. Non sta facendo il check-in all’aeroporto. Shiherlis non si è fatto vedere perché sa che teniamo Charlene sotto controllo. Sa che Charlene non andrà da nessuna parte. Questo significa che è in fuga. Da solo. E si rivolgerà alla persona che forniva i mezzi di trasporto a McCauley.»

    Si volta, si guarda intorno.

    «C’è qualcosa in questo posto finto, sterile, con i vetri sporchi di merda di gabbiano, che possa dirci chi è questa persona?»

    Esamina il soggiorno, ora illuminato di blu dalla luce dell’alba. Ascolta il proprio battito cardiaco, pesante. Cerca di assorbire informazioni. Ma quella casa proietta solo riflessi.

    Cosa può dirmi tutto questo?

    Nulla. Perché sono ancora qui?

    Si sforza di sentire la presenza di Neil, di stare dove stava lui, di vedere ciò che vedeva lui. Una certa malinconia lo afferra, sul parquet. Una vita scomparsa, in modo irreversibile. Un uomo che aveva conosciuto.

    Quando erano seduti uno di fronte all’altro, al Kate Mantilini, ciascuno sapeva quello che pensava l’altro riguardo agli effetti personali… eppure Hanna non aveva scoperto niente su quell’uomo che ora potesse avere un valore logistico.

    Drucker si sposta in cucina. Elettrodomestici lucenti, atmosfera antisettica. Piano di lavoro immacolato. Una penna accanto a una copia del giorno prima del Los Angeles Times. Apre il giornale, cerca appunti scarabocchiati, numeri di telefono, nomi, iniziali, un numero di volo. Sotto il quotidiano c’è un libro patinato.

    «Vincent» dice. «Fratture da stress nel titanio

    Hanna si avvicina.

    Drucker gli passa il libro. «Un grande elenco di letture… tutta roba fredda, clinica.»

    Sul retro c’è il cartellino del prezzo. «Hennessey and Ingalls. Conosci questa libreria?»

    «Sì, è a Santa Monica. È specializzata in arte e architettura.»

    Hanna sfoglia le pagine pesanti. Dentro c’è uno scontrino. Drucker sta già componendo il numero.

    «Fa’ venire al telefono il gestore. Neil è stato lì e ha comprato questo libro tre settimane fa. Chi c’era con lui? Da chi è stato servito? Chi c’era alla cassa?»

    Drucker esce all’esterno. Hanna resta a guardare l’oceano.

    La sera prima, gli aerei ruggivano in cielo. Lui sentiva le pulsazioni accelerate di Neil McCauley nel palmo sinistro. Ora sente solo le onde. La mano destra tocca il vetro.

    Neil, e forse anche Chris, erano stati lì, in quel punto preciso. Dove sono io ora. E hanno guardato fuori da questo vetro. Cerca di immedesimarsi nel pensiero di Neil. Solo nella vastità, eccetto per questo corpo, questo organismo, che percepisce tutto, finché non percepisce più nulla. Questo penserebbe Neil.

    Hanna gli aveva tenuto la mano mentre il suo corpo era scosso dagli spasmi dovuti all’emorragia arteriosa. Se fosse potuto tornare indietro, avrebbe fatto esattamente la stessa cosa. Ma questo non cambia nulla rispetto al presente. Sono entrambi momenti reali.

    Volta le spalle al mare.

    Bussa con le nocche al vetro prima di andare via. Il rumore risuona nella poca luce come una ruota di preghiera.

    3

    Nate è appoggiato al guscio in plastica del telefono pubblico, la cornetta all’orecchio, e guarda i pedoni e il traffico del mattino presto. «Debe ir hoy. Absolutamente.» Lo dice nello spagnolo losangelino parlato dai bianchi.

    Oggi Shiherlis se ne deve andare. Aspettare ancora non è possibile.

    Si trova davanti a una drogheria di Koreatown, ha in mano una borsa di plastica piena di medicine, Gatorade, un rasoio usa e getta e altre cose.

    «Metà subito. La mitad antes. Mitad después. Il resto quando arriva.» Ascolta. Osserva in giro. I passanti lo guardano, un bianco alto, scombinato, rockabilly, con un cravattino stretto che sembra uscito dagli anni Cinquanta.

    «El carro, la macchina, è a casa mia. In garage. Al Blue Room. Sì. Azul.» Annuisce. «A qué hora?» Guarda l’orologio. «Si farà trovare pronto.»

    Riattacca, controlla la strada, fa un passo indietro in modo che il cholo che si avvicina da sinistra non possa attraversare alle sue spalle. Abitudini prese in carcere. Attraversa la strada a zig-zag, entra nel portone stretto e sale le scale fino allo studio sopra il negozio di musica e il lavasecco, dove ha nascosto Shiherlis.

    Dentro, Chris sente i passi. Si siede sul bordo del letto, rintronato.

    Deve alzarsi. La macchina di carne. Quello non sono io. Io sono quello dentro la macchina. Alzati, corpo. Muoviti.

    Nate entra. Chris si dà una spinta per alzarsi in piedi.

    Qualcosa gli si contorce nello stomaco, il nervo vago, la nausea, la stanza gira.

    Alzati, bastardo!

    Il giorno è una lastra d’acciaio caldo fuori dalla finestra. L’effetto dell’ossicodone sta svanendo. Il dolore affila i denti. Ha bisogno di pensare con chiarezza, anche se significa una pugnalata a ogni respiro.

    Nate getta sul letto una busta di plastica frusciante. «Vai via oggi, fratello. Devi essere in grado di muoverti.»

    Chris ha la bocca secca e un mal di testa pulsante. Disidratazione e perdita di sangue. Apre una bottiglia da tre quarti di Gatorade e ne beve la metà. Nate prende dalla busta pacchetti di garze sterili, unguento antibiotico, un flacone di pastiglie.

    «Antibiotico a largo spettro. Spero tu non sia allergico.» Prende una bottiglia di acqua ossigenata e ovatta in fiocchi. «Togliti la camicia. Ti cambio la medicazione.»

    Chris esegue e si siede pesantemente sul bordo del letto. Il rumore del traffico fuori e la luce nella stanza sembrano salire e scendere, una sensazione pulsante. La lingua non funziona bene.

    «Charlene» dice.

    Nate tira accanto al letto la sedia da giardino malandata, si siede e gli toglie garze e cerotti dalla spalla. L’aria sulla pelle scoperta di Chris sembra stranamente viva. Si china in avanti.

    «Charlene?»

    «Ti avevo sentito anche prima.»

    «Devo andare da lei…»

    «Sul serio? E come sai dov’è?»

    «Ha chiamato e me l’ha detto.»

    Nate gli rivolge un’occhiata fredda. «Cosa ti ha detto?»

    Nessuna risposta.

    «Niente da fare. Quel poliziotto a cui hai sparato è morto. Era della squadra di Vincent Hanna. Più altri tre. Ogni occhio in divisa sta cercando te.»

    «Devo portarli via.» Chris ha un tono più deciso.

    Nate drizza la schiena, smette di lavorare alla ferita. «Allora io ti mollo immediatamente. Se ci provi, riuscirai solo a finire sottoterra.»

    Chris si alza, ondeggiando. Grande idea. Il dolore lo colpisce come un gong.

    Nate aspetta che si sia calmato. «L’unico modo di portarli via è andare via prima tu. Poi organizzi per loro.»

    Chris respira. «Come sono arrivati a Charlene?»

    «E che ne so?» Nate gli dà un’occhiata che significa Sta’ zitto. «Avevo avvertito Neil, ma non mi ha ascoltato. Ora tu stammi a sentire, quando ti parlo!»

    Come? Come è potuto andare tutto a puttane?

    La mente di Chris non riesce a concentrarsi. Vede solo il gesto da croupier di blackjack di Charlene.

    Poliziotti dappertutto. Lei ha corso un rischio per mandare un segnale. Come hanno scoperto dove si era rintanata?

    «Come va la spalla?» chiede Nate.

    «Mi metterò a giocare a tennis.» Chris stringe i denti contro il dolore. Si sforza di pensare.

    Poi scopre quello che sa ma non voleva sapere.

    Nate se ne accorge. «Proprio così» commenta.

    Neil è morto. La banda non c’è più. E Charlene l’ha tradito con la polizia.

    Non c’è altra spiegazione. Di chi era quella casa a Venice? E la polizia li stava aspettando…

    Anche braccati da Hanna e dalla DRO, hanno fatto il colpo lo stesso. Andava tutto bene. Finché è andato tutto male.

    L’hanno arrestata? Lei l’ha fregato e poi ha cambiato idea? Gli viene un crampo allo stomaco. Si piega in due.

    «Cosa è successo?» dice, più che altro a se stesso.

    Ora riesce a parlare meglio. Nate continua a ignorarlo. Lava i punti sul petto con l’acqua ossigenata. Prende un paio di forbici da infermiere, taglia pezzi di cerotto e prepara la nuova garza.

    «Non so tutto» risponde alla fine.

    Chris tenta di rallentare il respiro. Nate applica un gel antibiotico, posa una garza sterile sopra il lavoro del veterinario, lo incerotta.

    Chris non vuole guardarlo. Vuole prenderlo a pugni. Vuole aprire un buco nel muro a calci, e vuole strapparsi la spalla.

    «Ti muovi troppo lentamente, devi recuperare in fretta. Qualcuno verrà a prenderti, capito? Sei rallentato perché coltivi strane idee. Loro possono tagliare la corda e saranno pagati lo stesso, perciò non gliene frega un cazzo. Appena possibile organizzerò una telefonata.»

    Nate si volta. Chris gli stringe un braccio. «Cosa è successo?»

    Quella freddezza nei suoi occhi. È il suo modo di rapportarsi con la morte degli amici.

    «L’avevo avvertito. Se l’era cavata. Ma sulla strada per l’aeroporto ha fatto una deviazione per ammazzare quel cazzo di Waingro ed è finito in una trappola. Quel poliziotto, Hanna, gli ha sparato all’aeroporto.»

    «E Waingro l’ha beccato?»

    «Sì.»

    4

    La libreria Hennessey and Ingalls è vuota. La direttrice è scossa. Sono le otto del mattino. Wilshire Boulevard, giù dalla Third Street Promenade. Il quartiere si sta appena svegliando, la via pedonale è lavata e lucente. Anche il pavimento in legno chiaro della libreria e gli scaffali sono splendenti. La donna apre un video di sorveglianza del giorno della vendita. Hanna ha portato il libro acquistato da McCauley e lo scontrino. Lei va avanti veloce tra le riprese. Hanna è in piedi alle sue spalle, le braccia incrociate, mastica una gomma, dondola da un lato e dall’altro, gli occhi sullo schermo. La direttrice si muove a scatti. Non è abituata ad avere a che fare con la polizia. Dietro di lui, Drucker cammina su e giù.

    Quando l’orologio sullo schermo si avvicina all’ora stampata sullo scontrino, Hanna si fa attento.

    Ecco McCauley.

    Completo grigio, camicia bianca. Il Signor Anonimo, che si muove con precisione, curiosando nella sezione ingegneristica. Sceglie il libro che ora Hanna tiene in mano. È composto, concentrato, attento. Sfoglia le pagine avanti e indietro. L’angolazione della telecamera consente di vedere microfotografie elettroniche di vari tipi di acciaio.

    Una donna passa alle spalle di McCauley. Getta un’occhiata al lui e al libro e prosegue. McCauley non le presta nessuna attenzione.

    «Stop» dice Hanna. «Indietro.»

    La direttrice ferma il video e torna indietro.

    Hanna indica lo schermo. «Chi è quella?»

    Lei alza gli occhi, la fronte aggrottata. «Eady. Lavora qui. Lavorava.»

    «Dov’è?»

    «Si è licenziata due giorni fa.»

    Hanna avverte una scarica elettrica. Dice una sola parola. «Bingo.»

    Zigomi alti e occhi grandi. Onde di capelli castani che sembrano usciti da un dipinto preraffaellita. Passo atletico, vestiti morbidi. Qualcosa nel suo atteggiamento richiama un daino che si avvicina a una strada trafficata.

    La donna in piedi accanto alla Camaro.

    Drucker si fa dare il nome completo di Eady, indirizzo, codice previdenziale e patente di guida, ringrazia la direttrice e allo stesso tempo chiama la DRO perché blocchi Eady e si dirige verso la porta. Hanna è già corso fuori.

    5

    La casa è annidata sul fianco di una collina sopra Sunset Plaza, una villetta minuscola con una vista enorme sulla distesa del bacino idrico. Cielo blu, sole splendente. Ha le linee pulite di una tela ancora da dipingere. Una Honda Civic malandata è parcheggiata nel vialetto. Non ci sono altri veicoli. Nulla si muove sulla strada, le veneziane sono tutte abbassate. Hanna si avvicina con tre detective e quattro agenti in divisa. Lui e Drucker, accompagnati da due agenti, vanno alla porta d’ingresso. Casals e gli altri fanno il giro sul retro. Hanna sente formicolare le dita. È pieno di incertezza, valuta le diverse possibilità, l’urgenza. Bussa alla porta, ma si tengono di lato. Lui impugna la sua Combat Commander calibro .45 e Drucker ha un fucile a pompa calibro .12.

    Nessuna risposta. Bussa di nuovo.

    «La forziamo?» L’agente alle sue spalle regge un ariete compatto.

    Poi la serratura gira e la porta si apre. Nell’ingresso in penombra appare la donna che Hanna aveva superato di corsa fuori dall’Airport Marquee Hotel.

    Le afferra un polso, la trascina fuori e la mette contro il muro. Un’agente la perquisisce rapidamente.

    Da dentro la casa Casals urla: «Libero!».

    Hanna mostra il distintivo. «Abbiamo un mandato di perquisizione.»

    Lei fissa prima lui, poi Drucker. «Sono in arresto?»

    «Sì, ma la sua sorte dipende da quello che farà nei prossimi cinque minuti.»

    Batte le palpebre. Il viso è pallido, gli occhi rossi, i capelli scomposti. Indossa pantaloni da ginnastica e una T-shirt di una band musicale. Hanna la prende per un braccio e la conduce dentro. Passano accanto a una cucina moderna ed entrano in soggiorno, dove è stato ricavato uno studio grafico. Fuori dalle vetrate a parete, su un balcone che domina la città, altri agenti guardano all’interno, come avvoltoi vestiti di nero. Drucker apre la portafinestra e li lascia entrare.

    «Libero fuori» riferisce uno di loro.

    Shiherlis non è lì. Non è una sorpresa. Hanna sente il ticchettare dei secondi. Indica a Eady uno sgabello vicino al televisore.

    Drucker risponde alla radio e spinge più a fondo l’auricolare nel canale uditivo. Ascolta, chiude, e prende da parte Hanna.

    Si spostano per non farsi sentire da Eady. Drucker sussurra: «Tutto pulito. Niente precedenti. Nemmeno una multa per divieto di sosta». Hanna torna a voltarsi verso la donna.

    Lei è in piedi, con le braccia lungo i fianchi e i pugni stretti, come spaesata. Sembra non sapere cosa fare del proprio corpo, finché Hanna le indica di sedersi. Allontana con un gesto l’agente con le manette.

    «Sa cosa voglio?»

    Lei scuote la testa.

    «Voglio tutto quello che sa su Neil McCauley e la sua banda. Non menta, non taccia nulla. Se non vuole finire in carcere con un’accusa di complicità, parli con me.»

    Lei trasalisce. «Non sapevo chi era. Non so nulla di nessuna banda.»

    Hanna dà una manata sul televisore. «Questo funziona, no? La KNBC si prende benissimo. Ha visto le riprese della rapina in banca in centro.»

    «Lui mi aveva detto di essere un rappresentante.»

    «E gli ha creduto? Cosa le ha detto che vendeva?»

    «Mi ha detto che viaggiava molto e vendeva metallo.»

    Quadra con quello che gli aveva detto McCauley, ma Hanna non si tradisce. Si fa più vicino alla ragazza. «Forza, forza, forza! Aveva visto la sua foto sui notiziari, ma è salita lo stesso in macchina con lui per andare all’Airport Marquee Hotel, dove intorno a lei è esploso il caos: morti ammazzati, autopompe dei vigili del fuoco, poliziotti, pazzi che correvano qua e là, elicotteri, tutto l’ambaradan. E lei pensava ancora che vendesse pensili da cucina in metallo o cose del genere?»

    Per un attimo Eady sembra come intrappolata in un edificio in fiamme con le pareti che le crollano intorno.

    «Non lo sapevo fino a ieri sera. E dovevo fare come diceva lui.» Sembra cercare le parole giuste per spiegare. Non le trova. «Poi, verso la fine, mi ha detto tutto. E sì, sono andata con lui lo stesso.»

    Lei era la persona che McCauley voleva al suo fianco nella sua corsa verso la libertà. Aveva abbandonato il suo mondo per andare con lui.

    Era rimasta in piedi accanto alla Camaro, guardando McCauley che faceva retromarcia e fuggiva. Il modo in cui l’aveva guardato. Immobile. Confusa. Hanna ora capisce. Aveva perso una persona cara. Hanna comprende il suo lutto. Il breve sguardo che aveva gettato su una vita diversa, su una passione selvaggia e urgente con quell’uomo intenso, è finito.

    Ora sa che è stata coinvolta ma è innocente. Tecnicamente, il procuratore distrettuale potrebbe tentare di inquadrarla come complice. Ma non lo è.

    «Senta, Eady, io posso proteggerla» dice. «Ma lei deve dirmi tutto. Adesso. Con chi altri Neil aveva contatti?»

    Lei si ricompone. «Michael. Ha menzionato un amico di nome Michael. Uno di quelli che sono morti in centro.»

    «Cerrito?» suggerisce Drucker.

    Lei annuisce. «Ha detto…» Le manca la voce. «Ha detto: Quando piove, ti bagni. Michael conosceva i rischi

    Deglutisce. Hanna capisce che sta pensando: Li conoscevo anch’io.

    I detective incombono intorno a lei, riempiono la stanza di un’energia inquietante. Punitiva. Nulla che Eady abbia mai incontrato prima. Perquisiscono tutto in modo invadente, come se avessero il diritto inalienabile di portare il caos. È come se tutto ciò che toccano diventasse automaticamente… non più suo. Potrà rimettere a posto ogni cosa, ma nulla sarà più lo stesso. I suoi effetti personali non sono più suoi. Sono spogliati di significato. Non sono più ricordi, solo oggetti inanimati. I pastelli sistemati con cura. I rotoli di carta giapponese, preziosa per l’eccellente qualità e manifattura, ora sono soltanto cose, mentre le dita grosse di un detective li sfogliano.

    Hanna la riporta al qui e ora. «Eady, mi guardi. Resti con me.»

    Vagamente confusa, lei lo guarda come se lo vedesse per la prima volta.

    Lui se ne accorge. Ogni telegiornale apre con la notizia che McCauley è stato ucciso in uno scontro a fuoco all’aeroporto. Da un poliziotto.

    Eady lotta per non fare quell’ultimo passo, anche se Hanna è proprio di fronte a lei. Poi ha un sussulto, come una scossa elettrica.

    «Di chi altri parlava McCauley?» chiede Hanna. «Shiherlis? Chris?»

    «No.» Il suo sguardo è più concentrato. «Io l’ho già vista. Fuori dall’hotel.»

    «Trejo? Breedan? Le loro mogli, fidanzate, figli?»

    «No. Era sempre solo.» Scuote la testa. «È stato lei a sparargli, vero?»

    «E lei è andata con lui, pur sapendo chi era.»

    Le sta proprio davanti al viso. Lei ondeggia, i suoi occhi si fanno scuri e lucenti. Con voce quasi inaudibile, ripete: «Se piove, ti bagni».

    Hanna non si muove, ma abbassa anche lui il tono. «Con chi altri aveva contatti?»

    Lei si passa le dita tra i capelli. Scrolla le spalle. «Sulla strada per l’aeroporto ha fatto una fermata. Si è incontrato con un uomo all’uscita posteriore di un bar.»

    L’attenzione di Hanna si fa acuta come la punta di uno spillo. «Che uomo? In quale bar?»

    «North Hollywood, dalle parti di Burbank Boulevard. Non so l’indirizzo preciso. Mattoni e lamiera ondulata, edera sui muri. Si chiama Blue qualcosa.»

    Casals si attacca alla radio.

    «Descriva quell’uomo» dice Hanna.

    «Sui cinquanta, capelli biondi stopposi, baffi. Vestiti in poliestere. Un aspetto da anni Settanta.»

    Hanna sente accelerare le pulsazioni. Annuisce ai suoi uomini.

    Casals ha già identificato il bar e ha assegnato a due unità il compito di sorvegliarlo da due isolati di distanza.

    Hanna scrive qualcosa sul retro del suo biglietto da visita e lo consegna a Eady. «Un’agente ora l’ammanetterà per condurla in centro. Dobbiamo schedarla. Ha un avvocato?»

    Non ce l’ha. La sua capacità di comprendere ciò che sta succedendo si sta dissolvendo in una pozza nera. Hanna se ne accorge.

    «Chiami questo numero. È un avvocato. Le procurerà un garante che verserà la cauzione. Se chiunque altro vuole parlare con lei, ha diritto alla presenza di un avvocato. Ha capito?»

    Lei annuisce e lo guarda dritto negli occhi. Hanna capisce come mai Neil voleva portarla con sé verso la libertà.

    «Se ricorda qualcos’altro che possa aiutarmi, mi chiami. Non pensi, non ci rifletta, chiami.» Prima di uscire aggiunge: «Sì, ho dovuto sparargli».

    I loro occhi s’incrociano di nuovo, per un lungo momento.

    Poi lo sguardo di Eady cambia. Ora comunica: C’è altro? Non c’è nient’altro. È tutto finito.

    6

    Il sole picchia forte quando Hanna e una squadra d’assalto SWAT fanno irruzione al Blue Room. Il bar si trova in un quartiere buio, su una strada commerciale passata di moda.

    Il mandato di perquisizione è arrivato alle 13.00. Hanna, i suoi detective, gli agenti in divisa e la squadra SWAT si sono avvicinati dalla strada dietro il bar. Hanno bloccato con auto di pattuglia entrambe le uscite del vicolo. Hanno eliminato una telecamera di sicurezza.

    Se Shiherlis si trova lì, sarà armato fino ai denti. Chi altri può esserci, in quel posto?

    Hanna, in giubbotto antiproiettile, con un fucile a pompa semiautomatico Benelli calibro .12, è al centro della mischia, con la squadra d’assalto, corpi fianco a fianco, piedi ben allineati. Fa un cenno d’assenso al caposquadra, che tiene un fucile automatico a tracolla sul petto, puntato verso l’alto. L’uomo alza una mano e conta con le dita. Ingresso silenzioso. Raggiunge lo zero, punta la mano verso la porta come un’accetta e corre.

    La porta non è chiusa a chiave. Sono dentro. In un attimo prendono il controllo del posto. Un lungo bancone con dietro uno specchio corre lungo la parete sinistra, le bottiglie brillano nella luce soffusa. I primi bevitori della giornata sono in piedi al banco o seduti a tavoli traballanti. Dal jukebox escono le note di Gangsta’s Paradise. Il barman si volta.

    Hanna grida: «Fermo! Fammi vedere le mani!».

    Un uomo della SWAT grida ai clienti: «In piedi conto il muro, mani dietro la testa!».

    Una seconda squadra sale le scale.

    Il barman fa un passo indietro e alza le mani sopra la testa. Un cliente cerca di fuggire. Quando apre la porta d’ingresso, Drucker lo blocca con un braccio teso, poi entra seguito da Casals con un Remington 870.

    Hanna punta il cliente alto al bancone, le mani bene in vista, una tazza di caffè davanti. È quello descritto da Eady. Maturo, quasi certamente un ex allievo della SoCal University, capelli biondi stopposi, occhi freddi che osservano Hanna attraverso lo specchio.

    «Mani sul bancone» ordina Hanna.

    L’uomo ubbidisce. Profuma di Brut e poliestere lavato a secco. Il suo sguardo nello specchio è sotto zero. Viene perquisito. Un uomo della SWAT getta sul bancone chiavi e portafoglio.

    Hanna apre il portafoglio. Gli stessi occhi azzurro ghiaccio lo fissano dalla foto sulla patente.

    Legge il nome. «Nathan. Dobbiamo parlare di un comune amico.»

    Nate si volta, espressione neutra. «Ci conosciamo?»

    «Come cazzo posso sapere se tu mi conosci? Ma io conosco te. E conosco un tizio che conosci anche tu. Neil McCauley.»

    Nate fa un’espressione perplessa. «Chi?»

    «Il tuo amico.»

    «Non mi squilla nessun campanello in testa.»

    «Che tipo di campanello? Come quando suona alla porta la rappresentante della Avon? Quel campanello? Una telecamera di sorveglianza ha inquadrato te e McCauley insieme davanti all’ingresso posteriore. Quante probabilità ci sono che sia una coincidenza?»

    Dal piano di sopra, un agente grida: «Libero!».

    Chris Shiherlis non è lì.

    «Le probabilità sono zero» risponde Nate.

    Hanna sente montare una rabbia nera e bruciante. Ma sorride, un sorriso da falce della morte. «Bene. Perché riguardare i video e cancellare le prove è ciò che chiamiamo consapevolezza di essere colpevoli.» Si guarda intorno, vedendo tutto. «Altri ti hanno visto incontrarti con lui.»

    Interviene Drucker. «Perché mentire? Se vuoi mentire, fallo su qualcosa che non possiamo provare. Mentire riguardo a Neil è tempo perso. Perché vuoi farlo?»

    Nate guarda con sdegno il suo bar occupato dalla polizia. «Finora, mi sfugge cosa state cercando.»

    «Ti sfugge?» Hanna scrolla le spalle. «Shiherlis, Christopher. Immagino che tu sia il mediatore barra faccendiere. In questo momento, il minimo che puoi aspettarti è una condanna per complicità dopo il fatto, riguardo a una rapina a un furgone blindato con tre omicidi e una rapina in banca in cui sono rimasti uccisi un sergente del LAPD, uno dei miei partner e tre agenti in divisa. L’omicidio di Roger Van Zant e in aggiunta al summenzionato… massacro… l’omicidio di uno stronzo di nome Waingro. Da parte del tuo amico Neil, il quale mi ha detto di persona che non sarebbe mai tornato indietro. E infatti non tornerà.»

    I freddi occhi azzurri di Nate, contornati da una rete rosata di capillari rotti, passano su Hanna quasi senza vederlo. «Divisione Rapine e Omicidi. La DRO. Vada a fare la sua esibizione altrove.»

    Hanna resta tranquillo come acqua stagnante. «Shiherlis in fuga forse mi sfuggirà o forse no. Per te, ho tutto il tempo.»

    Nate distoglie lo sguardo, scettico, poi torna a fissarlo. «Se mi accusa di qualcosa, mi arresti. Altrimenti, la sua presenza incide negativamente sui miei affari.»

    «Sì, sì…» Hanna all’improvviso si volta, guarda dietro le proprie spalle. I poliziotti stanno perquisendo l’ufficio sul retro. Possono volerci ore. Con un cenno, chiama da parte Drucker.

    «È una perdita di tempo» dice, sottovoce. «Parlare con lui è come parlare con un cane investito sulla strada la settimana scorsa.»

    «Cosa facciamo?» chiede Drucker.

    «Con lui? Portalo dentro. È un ex carcerato della vecchia scuola? Mettigli accanto qualcuno giovane per stancarlo. Quanto a Chris Shiherlis…» Ci pensa su. «Casals ha colpito Shiherlis sopra il giubbotto antiproiettile. Alla clavicola. La ferita è troppo grave perché corra il rischio di prendere un aereo di linea. E forse il faccendiere qui accanto non ha avuto abbastanza tempo per trovare un aereo privato, compilare il piano di volo, darsi un’apparenza legittima. Shiherlis è in fuga, ma via terra.»

    «È stato diramato un avviso a tutte le agenzie della California» dice Drucker. «Foto della patente e foto segnaletica.»

    Hanna riflette. «Non avrà più lo stesso aspetto.» Guarda nel vicolo attraverso la porta sul retro, tamburella con le dita su una coscia. «Si sarà tagliato la coda da surfista. Avrà i capelli corti e forse tinti di nero. Chiedi al nostro disegnatore di tracciare un identikit e dirama un nuovo avviso.»

    «Se è a corto di tempo» commenta Drucker, «sarà diretto in Messico.»

    «Ma non attraverserà il deserto con lo zaino in spalla. Userà un punto di confine. Invia il nuovo avviso con l’identikit alla dogana, alla pattuglia di confine, all’Ufficio Immigrazione del Messico, e ai Judiciales di Baja California, Sonora, Chihuahua, Coahuila, Nuevo Léon e Tamaulipas. Voglio tutti i punti di frontiera da San Diego a Brownsville tappezzati con il suo identikit.»

    Un agente della SWAT entra dalla porta sul retro. «Tenente?»

    Hanna si volta.

    L’uomo indica dietro di sé con uno scatto del pollice. «C’è un garage indipendente, là fuori. Vuole venire a vedere?»

    Hanna lo segue nel vicolo e poi dietro l’angolo. La porta basculante del garage è aperta. Hanna si ferma e guarda dentro.

    Una macchia recente di olio per motori, non ancora assorbito dal cemento. Qualcuno è andato via da non molto.

    7

    La strada scorre lentamente dal finestrino, mentre l’auto attraversa il deserto verso est. La radio è a tutto volume. Annunciatori e musica mariachi trasmessa dalle stazioni di Tecate lentamente diventano solo rumore statico. Il pomeriggio è una mescolanza di sole bianco e dolore. L’interstatale 8. Chris la conosce. Non conosce la donna al volante.

    Los Angeles è alle sue spalle. Di lui resta solo una macchia d’olio sul pavimento del garage di Nate.

    Il dolore è tornato. Qui, sulla strada, Chris è vulnerabile. Non può inebetirsi con il Percocet. Apre gli occhi e sopporta un altro secondo di agonia quando i muscoli del collo e della schiena ancorati alla clavicola tirano le ossa fratturate e risistemate. I punti sono grandi e rozzi. Ottimo lavoro, dottor Bob. Se un amico ti porta dal veterinario, avrai un intervento chirurgico da veterinario.

    Un’ondata d’indifferenza lo investe come acqua fredda. Nella sua visione del mondo c’è ancora Neil. Poi ricorda come stanno le cose. A Koreatown, quando Nate lo aveva fissato con il suo sguardo freddo e glielo aveva detto, dalla sua mente si era alzato un sibilo come un razzo di segnalazione.

    Nate si era seduto, chinandosi verso di lui. «Qualcuno verrà a prenderti. La prossima persona che entra in questa stanza è il tuo biglietto per sparire. Avrà anche i tuoi documenti. Non preoccuparti, passeranno ogni controllo.»

    «Dove?» Aveva risposto lui, ancora intontito. «Dove devo andare?»

    «A sud.» Nate gli aveva spiegato l’itinerario.

    Chris si sentiva girare la testa. «La mia parte del bottino…»

    «Sarà al sicuro. Aprirò un conto attraverso un fondo fiduciario in Delaware. Potrai accedervi tramite telefono, fax o computer. Ma nel posto dove andrai, non ritirare quei soldi se non in caso di emergenza. Non devi farti notare.»

    «Devo farne arrivare una parte a Charlene e Dominick.»

    Charlene. Che l’aveva attirato in una trappola. Perché?

    Aveva provato un brivido di calore nero. L’avevano minacciata di portarle via Dominick? Quei bastardi.

    Nate aveva fatto una faccia pensosa. «Me ne occupo io, ma posso darle solo contanti. Niente che possa lasciare una traccia. E non subito.» Si era alzato in piedi. «Ora devo andare.»

    Chris si era alzato in piedi a fatica e gli aveva stretto la mano. «Grazie.»

    «Non c’è di che.» Nate aveva sollevato il mento. Un gesto d’addio. «Jumpin’ Jack Flash, tieni un profilo basso.»

    Il qualcuno che era venuto a prenderlo ora è al volante. Indossa jeans, Reebok, orecchini ad anello di dieci centimetri e sull’avambraccio sfoggia un tatuaggio del nipotino. Non avrà neanche quarant’anni. Ha l’aria di poter sollevare una Chrysler a mani nude.

    La osserva guidare. Guida da ore.

    «Come ti chiami?»

    Lei gli lancia un’occhiata, forse sorpresa di sentirlo parlare in modo coerente.

    «Non importa.»

    «Il mio nome lo conosci.»

    «Jeffrey Christian Bergman, di Calgary, Alberta, Canada.»

    Ha un accento di East Los Angeles. Nella casa sicura gli ha preso la Beretta e si è fatta consegnare il portafoglio. Chris ha ubbidito a malincuore. Gli ha cambiato la medicazione sulla ferita e gli ha dato una bella camicia, una giacca sportiva, degli occhiali scuri per coprire l’occhio appannato dagli analgesici. Lo ha fatto salire sul sedile del passeggero della Chevy ed è partita, mentre lui passava dallo stupore indotto dai farmaci a un dolore lancinante.

    «Tutto ciò che devi sapere è che la mia famiglia lavora con Nate da molto tempo, e io faccio quello per cui sono pagata» dice. «Se non ti fidi di me, ti faccio scendere e puoi fare l’autostop.»

    Chris tenta di alzare le mani, per placarla. Il braccio sinistro gli manda una fitta e vede tutto bianco. Ansima e si appoggia contro il finestrino.

    «Continua a guidare» dice.

    Lei indica il comparto portaoggetti. «Lì c’è una busta con il tuo passaporto canadese, un portafoglio nuovo con patente di guida, carte di credito, foto di famiglia. Dollari canadesi e americani e un po’ di pesos.»

    Lui prende la busta e s’infila in tasca passaporto e portafoglio.

    Sospira e si volta verso di lei. «Ciao, come va? Io sono Jeffrey Bergman del cazzo.»

    Lei sporge le labbra, forse un accenno di sorriso. «Piacere, Frida Kahlo del cazzo.»

    Ora è pomeriggio inoltrato. Si ferma a una stazione di benzina. «Nate mi ha detto di fare rapporto ogni tanto. Non ci sono problemi, aspetta qui.»

    Scende e si dirige verso un telefono pubblico. Chris decide di andare in bagno. Gli gira la testa e fa fatica a camminare dritto. Si lava le mani con l’acqua tiepida. Nello specchio sporco ha una faccia da vampiro: pallido, labbra quasi blu, occhi troppo rossi. Riprenditi. Quando esce, Frida sta riattaccando il telefono. Ha il viso calmo ma lo sguardo nervoso.

    «Cosa c’è?» chiede lui.

    «La polizia ha fatto irruzione al bar di Nate. Lui non ha detto una parola, ma non ne hanno bisogno. Non sono stupidi.»

    «Che altro? So che c’è dell’altro.»

    «Stanno per diramare un nuovo avviso con un tuo identikit.» Gli lancia un’occhiata. «Che somiglia alla faccia che hai ora. Lo manderanno ai due lati del confine. Dobbiamo muoverci.»

    Accelera attraverso i campi piatti come una tavola, supera parcheggi di camper, piccoli minimarket, cespugli e sabbia. Il confine è a pochi chilometri sulla loro destra. L’autostrada è stata riasfaltata ed è costeggiata da più villette a schiera di quante ce n’erano nell’88.

    «Mexicali» dice Chris.

    «Il confine lì è più facile da attraversare» replica Frida. «Ci sei già stato?»

    «Lascia stare.»

    «Credi che ci sia un problema? Per questo non vuoi restarci? Non preoccuparti, non ci fermiamo.»

    «Allora perché attraversiamo lì?»

    «C’è una pista di atterraggio un’ora più a sud. Sta’ tranquillo.»

    Chris chiude gli occhi e volta la testa. Ma il ricordo filtra nella sua mente. Un motel fatiscente, in stile cinese. Il bottino. Quella scarica di adrenalina. E poi… e poi… Gli sembra di sentire l’odore di legno di mesquite, polvere da sparo e sangue. Le cose si muovono in fretta. Si può vincere o perdere con uno schioccare di dita.

    Se lui dovesse mai perdere Charlene, annienterebbe l’uomo che gliel’avesse portata via. Lo vaporizzerebbe come una bomba H.

    Il sole si riflette sul cofano. E gli attraversa il cranio come un fulmine.

    «Neil ce l’aveva quasi fatta» aveva detto Nate.

    E aveva aggiunto: «Hanna è un bastardo. E adesso è in giro per la città, ha mobilitato tutti gli uomini di cui può disporre. Ha un solo pensiero: te. Tu hai ucciso il suo partner».

    Ora Chris è solo. Lontano da casa. C’è solo un modo di cambiare la situazione: continuare a correre. È l’ultima possibilità. Non va sprecata.

    A meno di due chilometri da El Centro, Frida Kahlo lascia l’interstatale e accosta. Il pomeriggio si allunga, le ombre cadono sui campi.

    Mette l’auto in folle. «Togliti gli occhiali da sole. Fammi vedere gli occhi.»

    Chris esegue e la fissa. «Soddisfatta?»

    «Sì. Mettiti tu al volante per attraversare il confine.»

    «Perché?»

    Scende. «Di’ che sono tua zia, se te lo chiedono. O la bambinaia, se ti fa sentire meglio.»

    Chris non si innervosisce per il tono tagliente. Si mette al volante. Si asciuga il sudore dal viso con la manica, poi parte con prudenza. Ha le pulsazioni accelerate, che rimbombano attraverso la ferita alla spalla come martellate.

    Otto chilometri a sud dell’interstatale 8, a Calexico, si avvicinano al punto di controllo del confine. Davanti a loro ci sono quattro auto. È un lavoretto facile. A nessuno importa se lasci gli Stati Uniti. A meno che tu non sia un trafficante di droga o un criminale.

    O che non sia ricercato a Los Angeles per aver ucciso un poliziotto.

    Chris rallenta e si mette in fila. L’aria sta rinfrescando. Presto sarà il tramonto. In cima alla fila un agente mastica gomma, apatico. Ma c’è un gabbiotto illuminato, con una guardia dentro. Volantini e poster alle pareti.

    Il masticagomma osserva le auto avvicinarsi. Postura da poliziotto, dita agganciate sotto il cinturone, occhiali a specchio. Chiede a tutti di abbassare il finestrino. Fa segno di passare a un’auto e chiama quella dopo. Chiede i documenti.

    Chris tocca la tasca della giacca.

    «La patente va bene» dice Frida.

    Lui tiene una mano sopra il portafoglio.

    «Jeffrey?» dice lei. «Chris?»

    Chris osserva il poliziotto.

    Che gente. Il loro lavoro? Minacciare sua moglie. E suo figlio. Sono disposti a rovinare la vita del suo meraviglioso ragazzo pur di catturarlo.

    Frida gli copre una mano con la sua. Si volta di scatto. Lei gli mette una mano in tasca e cerca il portafoglio. Chris tenta di fermarla, ma lei lo trova. Tra le false foto di famiglia c’è quella che ha preso nella casa sicura di Koreatown: Dominick in braccio a Charlene, Chris accanto a loro, ridendo. Un momento d’oro.

    Frida si mette la foto in una tasca dei jeans e gli restituisce il portafoglio. Non dice nulla. Chris ha voglia di spalancare la portiera con un calcio e gettarla fuori. Invece stringe forte il volante.

    Le due auto davanti a loro passano. Il poliziotto con gli

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