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Né in cielo né in terra
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E-book214 pagine3 ore

Né in cielo né in terra

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Info su questo ebook

Un ghostwriter sogna di incontrare i suoi amici di gioventù passati a miglior vita i quali cercano di resistere alla speculazione edilizia che vuole cacciarli dal palazzo diroccato di Trastevere dove si sono rifugiati. Per resistere decidono di scrivere un libro con le loro storie, destinato ad avere grande successo secondo loro, e lui nel sogno si ritrova a dare una mano nella stesura. I loro racconti, le loro avventure comiche sono tutti centrati sul fatto che da vivi erano stati cacciati dalle case del rione nelle quali le loro famiglie abitavano da generazioni e sulle conseguenze di quello sradicamento, di quella diaspora.Le loro vicende sono un viaggio nell’anima della città di Roma, in ciò che la fa sembrare immobile, indistruttibile e la definisce come eterna. Una Roma vista da dentro, o da sotto forse, o da un qualsiasi punto di vista insolito, dato che spesso a raccontarla non sono i romani.«Mettiamo che era un pomeriggio di fine settembre, qualche anno fa, un sabato nuvoloso e sciroccoso davanti al bar di S. Calisto. Ma che il sole tramontava alle 18 e 59, chissà come ma me lo ricordo».Una sorta di remake letterario di "Fantasmi a Roma", il film del 1961 di Antonio Pietrangeli con Gassman, Mastroianni e De Filippo.
LinguaItaliano
Data di uscita11 set 2020
ISBN9788898848553
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    Né in cielo né in terra - Paolo Morelli

    quisiscrivemale

    NÉ IN CIELO NÉ IN TERRA

    Paolo Morelli

    Né in cielo né in terra

    di Paolo Morelli

    Collana quisiscrivemale

    © 2016 - Edizioni Exòrma

    Via Fabrizio Luscino 73 - Roma

    Tutti i diritti riservati

    www.exormaedizioni.com

    Progetto editoriale Orfeo Pagnani

    Impaginazione omgrafica, roma

    In copertina: elaborazione grafica di un’opera di Franz Ecke (Bar Consalvi)

    ISBN 978-88-98848-55-3

    Questo libro è dedicato a tutti coloro che hanno dovuto lasciare le case nelle quali le loro famiglie abitavano da generazioni perché ci venissero a stare i ricchi, e per primi quelli con cui ho diviso la giovinezza.

    «Città di morti, anzi di coloro che

    non possono morire, dei sopravvissuti».

    P.B. Shelley

    «Quando io morirò, tu portami il caffè,

    e vedrai che io resuscito come Lazzaro».

    E. De Filippo, Fantasmi a Roma

    UNA SERA D’INVERNO, AL BAR DI S. CALISTO

    Era una sera d’inverno, al bar di S. Calisto. Con Armando ci siamo incontrati dopo un sacco di tempo. Per lui e per me era un periodo duro e non c’entra solo l’età. Lui viveva ancora al rione, in una specie di ripostiglio senza luce né acqua, era appena uscito da un paio d’anni di mutismo volontario. Due bottiglie di vino rosso ci siamo scolati, nonostante questo, però, dopo la fretta dell’inizio le parole non uscivano più fuori. Seduti a un tavolino centrale, circondati dalla confusione, ognuno per sé ci siamo accorti che prima per la maggior parte le chiacchiere partivano da qualcun altro, dagli amici che ora non c’erano più, come forse è normale a questa età, forse a noi era successo un po’ presto ma comunque ora solo ce ne accorgevamo. Prima parlavamo tanto e di tutto, però partivamo da lì, dai commenti e dicerie su un amico o l’altro. Si vede che non è tempo ancora di ricordi.

    Ci siamo lasciati e sono tornato a casa. Subito mi sono buttato a dormire, e da lì è cominciato un sogno che è durato mesi, se così si può dire. Dormivo quasi tutto il tempo e ogni volta ricominciava sempre lo stesso sogno, certo con variazioni ma neanche troppe. Erano sempre sonni profondissimi, sprofondavo come in una di quelle giornate in cui si sente il bisogno di sentirsi stupidi. Non c’era situazione o alimentazione che variasse il programma, sempre la stessa storia più o meno, lunga e zeppa di cose, insomma un’ossessione, un delirio. Del resto ai sogni non si comanda, lì non è mica questione di volontà.

    Io prima non ero uno che si ricorda i sogni, ora per forza me lo ricordavo sempre di più. Da un certo punto in poi ho deciso di reagire, ho preso nota al risveglio e certe volte anche durante la notte, riempiendo taccuini su taccuini, solo per cercare di capire che mi stava succedendo.

    Ci ho messo mesi a dargli un senso, nel frattempo però mi rasserenavo. Man mano che lo scrivevo mi sono accorto che il sogno compariva di meno, più sfuocato e meno lineare, finché è sparito e ho ricominciato a sognare a caso, come capita a tutti.

    Quello che segue ne è il resoconto. Mi accorgo che devo aggiungere qualcosa che spieghi il mio periodo duro, poco dopo aver compiuto i cinquant’anni. Dopo una gioventù senza fine m’ero ritrovato spiantato e quasi anziano, e non sapevo fare niente. Non sapevo dove sbattere la testa. Poi mi è capitato di fare il ghostwriter, per anni ho scritto migliaia di pagine per artisti, professionisti, politici e scrittori addirittura, e alla fine non ce l’ho fatta più. All’inizio pensavo che fosse il mio lavoro ideale, quello che cercavo da sempre, ero contento di restare nell’ombra quando usciva il libro o l’articolo, pensavo d’aver trovato il mio posto. Invece da un giorno all’altro non ero più capace di niente. C’è stato un crollo nervoso, solo lì ho capito quanto ero stanco. Scrivere al posto di altri non è innocuo come si crede, può essere molto pericoloso, per me almeno è stato così. Io comunque lo sconsiglio, perché a lungo andare si può perdere il proprio posto, e forse anche per questo racconto il sogno, per mettere in guardia dai pericoli di quel mestiere.

    Raccontare i sogni è una cosa assurda, anche fuori moda forse. È come nei racconti di montagna, devi per forza inventare se vuoi riferire un briciolo delle fatiche, emozioni, gioie o tremende paure. Ultimamente ho letto un libro in cui uno scalatore molto famoso si attardava, faceva buio pesto e per tornare alla base senza sfracellarsi raccoglieva delle lucciole, se le metteva sulle mani e così andava avanti… In certe situazioni in testa succede un subbuglio, e quando ne sei fuori le parole servono a poco, per diritto dovrebbe essere concesso di inventare un po’ nelle situazioni estreme. Va un po’ meglio con i sogni ricorrenti, come è successo a me.

    È chiaro che i personaggi di questa storia hanno qualche rapporto con persone vive, morte o scampate per miracolo ad ambedue le condizioni. I fatti sono immaginari, i luoghi no, esistono quasi tutti e si possono visitare. Per quanto riguarda i reati o presunti tali, pochi e di scarsa rilevanza più che altro teppistica, sono anch’essi immaginari e comunque prescritti.

    NEI DUE METRI LIBERI DELLA STANZA, DICIAMO COSÌ

    Se ci pensi è un caso molto strano, unico al mondo direi, quello dei romani che sono i soli a non fare qualcosa a Roma da duemilacinquecento anni e più. Anche nell’antichità, vai a vedere se c’è un notabile, un politico, uno storico, un artista, un artigiano, architetto, scrittore, un idraulico che è nato qui, vengono tutti ma proprio tutti da fuori per fare qualcosa mentre loro, i romani, si sono abituati che vengono questi qui da fuori a fare qualcosa e gliela lasciano fare. È naturale che questo crei problemi negli approvvigionamenti, allora ci si arrangia, bisogna pur campare se uno ha quel destino di esser nato in un posto dove ci vengono tutti a fare qualcosa… E nemmeno ci pensano ad andare nei paesi da dove vengono questi qui e fare qualcosa a casa loro, ci hanno messo un mezzo millennio di giri in tutto il mondo conosciuto e sconosciuto per capire che non valeva la pena, si vede, forse è stato così, sta di fatto che da allora non si sono più mossi, fanno fatica pure per una vacanza, soprattutto con grande rispetto e riverenza verso quelli che vengono da tutte le parti per fare qualcosa. E quelli ci vengono, ci calano, non solo buzzurri da nord e burini da sud ma da ogni parte del globo terracqueo, fanno qualcosa e poi gli dicono dietro ai romani che non gli va di fare niente, che sono indolenti, mentre hanno solo preso atto che chissà come e perché questo è un posto dove ci si viene da fuori a fare qualcosa, e siccome già lo fanno e i posti sono tutti occupati che non ce n’è uno nemmeno in ultima fila, a noi romani non resta che guardare in giro attentamente, lasciare le cose prendere il loro corso, allenarsi a quello che è già scritto, si vede…

    Quello che si vede ad esempio, è che oltre quelli per fare qualcosa ci vengono pure gli incapaci, gli indolenti e i ladri da ogni parte d’Italia e del mondo e si fingono romani, dopo un po’ dicono di essere romani e in quanto tali emarginati e perseguitati da quelli venuti da fuori a fare qualcosa, e siccome questi ultimi devono farla loro qualcosa allora sono impossibilitati ad agire, mentre non sono capaci né qui né lo erano a casa loro, non gli va di fare niente, tanto che da là se ne sono andati o forse li hanno cacciati. Questi li riconosci perché sbraitano e si lamentano, ma al massimo possono ingannare quelli venuti da fuori per fare qualcosa che magari gli viene il senso di colpa e gli offrono qualche posto subalterno, ai romani però non li ingannano di sicuro, perché nessuno ha mai sentito un romano che si lamentasse di essere emarginato e non poter fare qualcosa, loro lo sanno cos’è un destino… Un destino è che nasci, invece che in un posto da dove si parte per venire qui se hai ambizioni e grandi idee da realizzare, invece nasci in un posto dove vengono da tutte le parti da millenni, occupano tutte le caselle disponibili e ne creano di nuove se necessario per fare quel qualcosa per cui sono portati, e se te ci provi a imbucarti si mettono a ridere, non ti prendono nemmeno in considerazione…

    Difatti ogni tanto lo vedi qualcuno di noi che ci prova, ma è tanto per rompere la monotonia, oltretutto senza le giuste motivazioni perché in fondo in fondo lo sa che non c’è trippa per gatti, come si dice, e con intorno poi la diffidenza dei suoi, ma che s’è messo in testa questo qui? E la cosa dura da molto più di duemila anni, pensa ai primi re che erano tutti etruschi o sabini…

    A me che lo stavo a guardare che declamava, tutto un apri bocca e dagli fiato mi pareva, e nient’altro. C’era poco da intervenire secondo me, intanto però lui continuava il discorso e la camminata nei due metri liberi della stanza, diciamo così.

    Si può dire che in duemila anni l’unica eccezione è stata Cinecittà subito dopo la seconda guerra mondiale, lì per la prima volta in assoluto i romani hanno trovato lavoro come comparse, vale a dire si sono realizzati come si dice. E c’è da dire che economi come sono ci campano ancora con quei soldi di Cinecittà, loro che sono comparse o al massimo figuranti speciali messi a vivere fra i monumenti da quel gran regista che è il Destino! Tremila romani per Cleopatra, trentamila addirittura sugli spalti nella corsa delle bighe di Ben Hur, solo come esempio, a fare il pubblico appunto, tutti eccitati dalla novità di lavorare o fare qualcosa che forse è più adatto come modo di dire, per giorni e giorni sotto il sole di agosto. Adesso che ho uno sprazzo di memoria, uno mi ha raccontato che era lì nella folla a urlare con un suo amico, un comunista della sezione ci ha tenuto a dire, a un certo punto si è sentito spingere di lato da qualcosa come un gommone, s’è voltato e ha visto il suo amico tutto rosso che si gonfiava come una zampogna dalla disidratazione, allora s’è girato per chiedere aiuto e ha visto migliaia di zampogne intorno a lui che si gonfiavano piano piano, tutti rossi e muti ma con calma si gonfiavano, mollemente come fa un piccoletto con la cingomma, così ha detto. Hanno dovuto interrompere la lavorazione, con migliaia di palloni gonfi nello stadio veniva un cartone animato! Da quel giorno è stato inventato il fatto di innaffiare con la pompa gli spalti, come adesso fanno negli stadi o ai concerti e prima facevano solo con le bestie dello zoo…

    Comparse…, continuava senza pause, o al massimo figuranti speciali, ecco il punto, noi qui sappiamo di non essere altro che comparse, non ce lo possiamo dimenticare mai se nasciamo qui… L’unica chance si potrebbe dire è provare a dimenticarselo, comportarsi e vestirsi e parlare come si fosse uno venuto da fuori per fare qualcosa, e c’è da dire che certi romani lo fanno, con grande fatica e tremendi contraccolpi ma lo fanno… Anzi! Già che ci siamo potremmo azzardare una definizione da mettere sui dizionari una volta per tutte! Dicesi romano vero chiunque, essendo nato a Roma, subisca angherie da parte di falsi romani e stranieri in maniera continuativa, e reagisca sostanzialmente avvertendone poco o niente, a volte pure accorgendosene poco, come se tanto livore gli sia quasi dovuto in virtù di una superiorità fatale…

    Come è successo un posto così e di nascere proprio qui? È questo il punto! Certo non se lo chiedono i romani, e nemmeno tanto quelli venuti da fuori, si vede che non rientra nel fare qualcosa il chiedersi perché è così, nemmeno i filosofi se lo chiedono, forse perché non è ammissibile un posto del genere ed è più facile pensare a una popolazione di scioperati. È vero che siccome allora c’era tanto spazio da scegliere per fondare la città, insieme a decine di altri parametri che hanno considerato come la luminosità, il clima eccetera avrebbero potuto considerare anche questo… Le malelingue venute da fuori per fare qualcosa in materia di spettegolamento e invidia dicono che infatti l’hanno considerato. Forse è lo scirocco, dicono certi altri, ma secondo me non basta a spiegare, perché col tempo uno si dovrebbe abituare, come i beduini che si abituano a vedere nella polvere…

    UN PASSO INDIETRO

    Almeno questa storia, mi dicevo nel frattempo, se non la racconto io non la racconta nessuno. Sarebbe la storia di uno con cui parlo da una vita, più o meno. Forse storia è un po’ troppo, ma comunque stanotte, come tutte le notti, se ne sta davanti allo schermo azzurrognolo del computer. Vuole scrivere ma non gli viene niente, allora si alza e divaga.

    Fino a pochi minuti fa oscillavano decine di telefonate a cui dare la colpa. Telefonate tutte sbagliate. Pronto Carlo, Emanuele, Filiberto, perfino Marion, come stai? Ma io non mi chiamo Marion!, risponde lui. Ti ho telefonato, carissima Marion, perché non riesco a dormire per tutte le cose che mi passano per la testa, e volevo sfogarmi, parlare un po’ con te. Ma io non mi chiamo Marion!, insiste lui.

    Però quelle telefonate nel frattempo gli occupano la testa. Ho dovuto aspettare che smettessero o almeno diminuissero per poterci parlare.

    Perché non lo stacchi il telefono?, ho provato a dirgli. Dopo è arrivata una telefonata da Singapore. Buongiorno caro, appena mi sono svegliata e subito ho pensato a te. Scusa se magari t’ho svegliato, ma non potevo fare a meno di sentire la tua voce. Qui piove sempre, là che tempo fa? Ho una nostalgia tale che mi sento friggere come una padella. Marco, sono ancora tutta calda del letto, vorrei che ci fossero le tue braccia a stringermi e la tua bocca a perlustrarmi dappertutto, da sotto in su e dall’alto in basso, senza smettere mai, mai, su e giù, giù e su…

    Stavolta non ha nemmeno protestato, s’è goduto la tirata da Singapore e solo dopo un sacco di tempo ha parlato. Ma io non mi chiamo Marco!, ha detto dopo una ventina di minuti, allora di là hanno riattaccato.

    Eppure il telefono non lo stacca, perché se no non se lo fila nessuno. Difatti s’è appena rimesso a sedere che risuona, e lui felice dentro ma incacchiato fuori si è alzato per andare a rispondere.

    Stavolta ha detto pronto ma non ha risposto nessuno. Certe volte si sentono solo dei rumori di fondo nelle telefonate, bottiglie stappate, bicchieri che tintinnano, motorini che sbuffano, automobili che sfrecciano, pialle che piallano, scambi tramviari, nemmeno l’ombra di una voce umana. Lui aspetta, dice pronto pronto cinque o sei volte e aspetta che qualcuno si faccia vivo. Chi la dura la vince, la faccia che fa.

    Stavolta si sentiva solo il rumore dell’acqua che scorre ininterrotta, non un tubo, forse un torrente.

    Appena rimesso giù ha risquillato. Stavolta è per lui davvero, ma potrebbe essere per un altro. Difatti è un sondaggio telefonico notturno. Vogliono sapere che desideri prova uno che non riesce a dormire. Che desideri vuoi che provi chi non riesce a dormire, ho pensato io ma non l’ho detto. Lui invece ci si è applicato, risponde a ogni domanda, non so. Non so non so, articola. Perché rispondi non so?, gli ho chiesto fra una domanda e l’altra. Non so, le due parole antiche della sapienza, ha risposto. Ne arrivano spesso di telefonate-sondaggio notturne, si vede che il campo commerciale dell’insonnia è ancora poco coperto.

    Sono telefonate lunghe, delle mezz’ore come minimo, pure se lui risponde a ritmo non so si vede che bisogna finire il questionario. In genere ne approfitto per fare un giro per casa, diciamo così.

    Sono un bel po’ di anni che ci parlo. Per un periodo però ci siamo persi, e mi chiedevo che fine aveva fatto.

    Poi l’ho reincontrato una mattina, molto presto, in libreria. In quel periodo, non sapendo con chi parlare, mi rifugiavo in libreria. Nelle librerie ci sono pagine su pagine di scrittori falliti e anche di investigatori. È raro trovare un idraulico fallito, ma di scrittori e investigatori falliti ce n’è a chili e io

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