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Passaggi. Avventure di un autostoppista
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E-book220 pagine3 ore

Passaggi. Avventure di un autostoppista

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Info su questo ebook

Cosa fare se a sedici anni vostro padre vi molla nei pressi di Grenoble, soli e lontani da casa? Paolo Pergola non ha avuto dubbi: ha alzato il pollice e ha aspettato che qualcuno si fermasse. Da allora – e sono passati molti anni – non ha mai smesso di fare l’autostop. Per girare il mondo, certo, o semplicemente per tornare a casa. Con la libertà di chi viaggia con pochi soldi e senza vincoli. Pergola ci racconta le sue avventure. I frammenti degli incontri e dei discorsi si compongono in una sorta di vademecum ideale dell’autostoppista. Cosa fare di fronte a cinesi sorridenti che gratis non ti caricano proprio, ma sorridono comunque? E come sopravvivere ad autisti folli in cerca di una birra e della donna della loro vita? Incontri, persone, ma anche luoghi e distanze: la mitica Shangri-La, nell’Oriente rarefatto di praterie, yak e focolari, le piogge perenni della Bretagna, i sentieri scoscesi del Grand Canyon, l’Islanda fatta di pesci, acqua calda e cavalli.
LinguaItaliano
Data di uscita11 set 2020
ISBN9788898848140
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    Passaggi. Avventure di un autostoppista - Paolo Pergola

    IL LIBRO

    Cosa fare se a sedici anni vostro padre vi molla nei pressi di Grenoble, soli e lontani da casa? Paolo Pergola non ha avuto dubbi: ha alzato il pollice e ha aspettato che qualcuno si fermasse. Da allora – e sono passati molti anni – non ha mai smesso di fare l’autostop. Per girare il mondo, certo, o semplicemente per tornare a casa. Con la libertà di chi viaggia con pochi soldi e senza vincoli. Pergola ci racconta le sue avventure. I frammenti degli incontri e dei discorsi si compongono in una sorta di vademecum ideale dell’autostoppista. Cosa fare di fronte a cinesi sorridenti che gratis non ti caricano proprio, ma sorridono comunque? E come sopravvivere ad autisti folli in cerca di una birra e della donna della loro vita? Incontri, persone, ma anche luoghi e distanze: la mitica Shangri-La, nell’Oriente rarefatto di praterie, yak e focolari, le piogge perenni della Bretagna, i sentieri scoscesi del Grand Canyon, l’Islanda fatta di pesci, acqua calda e cavalli.

    «In questo lungo e quasi formativo racconto on the road Pergola ci avvia, con una scrittura piacevole e sempre in movimento, all’arte del passaggio, perché qualunque sia il motivo del viaggiare (fuga da qualcosa, conoscenza di sé e degli altri, reportage, avventura, passatempo, ecc.), lo spostarsi da un luogo a un altro, ancor più se in autostop, è una vera e propria arte con la quale si finisce per imparare, come diceva Manganelli, che ogni viaggio comincia con un vagheggiamento e si conclude con un invece» (Paolo Albani).

    L’AUTORE

    Paolo Pergola è biologo. È nato a Torino, ha vissuto all’estero per quattordici anni. Quando non è in viaggio, vive su un’isola del Mediterraneo. In anni recenti ha collaborato a diverse riviste letterarie e i suoi testi sono stati pubblicati su «L’accalappiacani», «Tèchne», «Atelier». È membro dell’OpLePo (Opificio di letteratura potenziale).

    Scritti Traversi

    Passaggi

    Avventure di un autostoppista

    di Paolo Pergola

    © 2012 – Edizioni Exòrma

    Via Fabrizio Luscino 73 - Roma

    Tutti i diritti riservati

    www.exormaedizioni.com

    Progetto editoriale Orfeo Pagnani

    Fotografie Paolo Pergola

    Collana Scritti Traversi

    ISBN 978-88-98848-14-0

    Passaggi

    Avventure di un autostoppista

    di Paolo Pergola

    Autostop vicino a Rethymno, Creta.

    IO HO LA SOGLIA ALTA. Che so, posso iniziare alle otto del mattino e rimanere in attesa fino alle quattro del pomeriggio, col pollice a mezz’aria, senza gettare la spugna. Poi dipende. C’è sempre un treno, un autobus, un altro giorno. Ma devo dire che le volte che ho abbandonato si contano sulle dita di una mano. In questo libro si parla dei passaggi, a volte di un passaggio singolo, a volte di una serie di passaggi, o di un intero viaggio fatto di passaggi. Si parte e si arriva. In mezzo ci sono i passaggi. Ma forse ci sono principalmente i passaggi, che iniziano con la partenza e finiscono con l’arrivo. Nei passaggi si percorrono pezzi di mondo con persone mai viste prima, spesso mai rincontrate dopo, ma con cui si condivide il tempo del passaggio.

    E ci sono anche le attese, tra un passaggio e l’altro. Si possono imparare a memoria la disposizione dei sassolini di ghiaia sul ciglio della strada, la geometria del guardrail, i giochi di confine tra l’erba e l’asfalto. Angoli del mondo non abituati a essere osservati. Fare l’autostop è un po’ come fare un campionamento casuale dei luoghi e della gente. Certo, non è proprio casuale, non tutti i luoghi sono adatti per cercare un passaggio, e non tutte le persone sono disposte a dartelo. Però mi piace pensare che sia un po’ così. Ho conosciuto contadini che volevano aiutarmi, anziane signore un po’ sole, rappresentanti che mi facevano vedere il loro armamentario, famigliole in gita coi bambini che volevano giocare, signori benestanti a cui faceva piacere la compagnia d’un giovane autostoppista, business-man che avevano mangiato troppo e volevano rimanere svegli.

    I passaggi sono arte e scienza. La costruzione di un passaggio è basata su situazioni e caratteristiche specifiche. C’è la situazione psicofisica del passeggero, cioè io. C’è la fattibilità del passaggio, che è una combinazione del tempo (ora del giorno, tempo atmosferico) e del luogo (strada di campagna o di città, autostrada). Poi c’è l’attitudine dei guidatori. Questa in parte è determinata dai fattori di cui sopra. Ma in parte è come quando si va a pesca, ci sono delle giornate che i pesci abboccano che è una bellezza, altre che non c’è verso. È una cosa che si sente, è nelle facce dei guidatori che magari non ti guardano ma si capisce che ci hanno pensato, proprio come a pesca quando sai che è un bel posto per pescare. E comunque anche tenendo conto di tutti questi cofattori, non è sempre prevedibile quanto tempo si debba aspettare per un passaggio. A volte in un posto del cazzo, con guidatori con l’attitudine bassa e io con la situazione psicofisica a zero, m’hanno preso su dopo due minuti. A volte invece in un posto bellissimo, con guidatori promettenti e io col morale a mille, ho aspettato delle mezze giornate.

    Insomma, non è che se l’attitudine è bassa, il morale è basso e la fattibilità è bassa vuol dire che tutto andrà male. Che poi veramente male non mi è mai andato nulla. Alla fine il mio bel passaggio l’ho sempre avuto, e se non l’ho avuto c’è sempre stato qualcuno che mi ha dato una mano. A fare l’autostop ho imparato che fidarsi della gente è più semplice. Chi ti vuole dare una mano te la dà. È così che ho conosciuto gente di tutti i tipi e di tutte le età. Gente che non avrei mai incontrato se non avessi chiesto un passaggio. Questo libro è dedicato a loro. Ma lasciamo stare tutte queste considerazioni, tutti questi prolegomeni, tutte queste perdite di tempo, che rischiamo di perderci il primo passaggio.

    GRENOBLE

    C’è stato un primo passaggio e me lo ricordo bene. Era d’aprile, avevo sedici anni e mio padre doveva andare in Francia un paio di giorni, per lavoro. La scuola era chiusa, non ricordo perché, non credo di averla saltata, ci saranno state le elezioni o qualcosa del genere. Mio padre doveva andare a Grenoble, cioè a circa dieci ore di macchina da dove abitavamo allora, in Alto Adige.

    Gli chiedo se mi darebbe un passaggio, mi dice di sì (ma non è questo il mio primo passaggio, un passaggio dal proprio padre non conta come autostop). Comunque, forte del mio passaggio vado dalla ragazza che abita accanto, Sonia. Suo cugino Gianfranco, che avevo conosciuto a una festa, abitava a Grenoble. Gianfranco era più grande di noi, avrà avuto già vent’anni, era un ragazzo calmissimo, si muoveva al rallentatore, parlava al rallentatore, era tutto rallentato, mi piaceva proprio. Dico a Sonia che vado a Grenoble. – Ma allora vai a trovare Gianfranco? – Ci vado, ci vado! – Vacci, dai. – Ci vado, ci vado, ce l’ha un telefono? – Ma sì, certo – e mi dà un bigliettino col numero di telefono di Gianfranco. Se lo vedi, mi dice, dagli anche quest’agendina, che ha dimenticato qui! Prendo l’agendina, come un pacco prezioso da consegnare, come la mia assicurazione del viaggio.

    Fatto. Avevo organizzato il mio primo viaggio. Prendo Il lupo della steppa, che avevo appena iniziato a leggere, e lo metto nello zainetto insieme a un paio di maglie e magliette. Il giorno dopo siamo partiti, bisognava passare da Milano a prendere un collega di mio padre, Invernizzi. Questo Invernizzi rideva ogni volta che mio padre apriva bocca, anche se non era una battuta, e poi mi chiamava Paolone con le o aperte. Proseguiamo per Grenoble, immaginatevi una macchina con davanti due business-man e dietro io, un liceale coi capelli già abbastanza lunghi, in mano lo Steppenwolf che però non riuscivo a leggere per via delle curve. Questo comunque non è ancora il passaggio che volevo descrivere, quello viene dopo.

    I due business-man decidono di prendere la nazionale tutta curve tra i monti, per risparmiare, risparmiare cosa non capisco, visto che sono pagati dalla ditta. A più riprese ci provo, a leggere lo Steppenwolf, ma mi sale sempre su un conato di vomito. Lo Steppenwolf non l’ho mai finito. Da allora ci ho provato altre volte, ma anche se sono seduto comodamente sul divano di casa, solo a tenerlo in mano mi viene da vomitare. Tra conati di vomito intervallati da frasi rubate allo Steppenwolf, finalmente arriviamo verso Grenoble a notte tarda. Ho una gran fame, non ci siamo mica fermati a mangiare, non mangio da dodici ore, non so come fanno i business-man a non mangiare per dodici ore. Mio padre mi rassicura, vedrai, mi dice, ci daranno sicuramente qualcosa all’albergo.

    Sicuramente all’albergo, arrivati a mezzanotte, ci danno un piattino di formaggi francesi puzzolenti, tipo mini formette alla francese, insomma l’ideale per uno che ha passato dodici ore in macchina tra conati di vomito e Steppenwolf. Andiamo a dormire, io dormo di brutto anche se mio padre russa come un business-man rimpinzato di formaggi francesi. Il giorno dopo riesco a fare una colazione decente nonostante mio padre, che mi mette un po’ di fretta, e sono pronto per Grenoble. Viene fuori che l’hotel non è proprio a Grenoble, dice mio padre. Io, col buio, mezzo addormentato, con lo stomaco rivoltato, non ci avevo fatto caso. Siamo a una decina di chilometri fuori Grenoble, ma vedrai, mi dice, ci sarà un autobus che ti porta a Grenoble.

    A me il futuro semplice non mi rassicura per niente. Mio padre continua, io devo andare dall’altra parte di Grenoble, mi dice, ti lascio alla fermata del bus, ci sarà un fermata del bus da qualche parte. Monto in macchina con mio padre e Invernizzi davanti, che dice, vedrai Paolone, che la troviamo la fermata dell’autobus. Mio padre fa un paio di giri sulle circonvallazioni vicino all’hotel, ma fermate niente.

    Qui devo fare una piccola digressione sul senso dell’orientamento di mio padre, che poi ha passato a me. Cioè sulla totale mancanza di senso dell’orientamento di mio padre, che poi ha passato a me. Andare a trovare gli amici di mio padre, ma anche i parenti, insomma famiglie che vedevamo almeno tre-quattro volte l’anno, finiva sempre con improperi contro gli amici che erano andati a abitare in culo al mondo, e con le strade che magicamente cambiavano d’aspetto, e con la gente che dava indicazioni del cazzo e così via. Con queste premesse, mio padre, che inizia a spazientirsi visto che hanno un appuntamento e sono in ritardo, mi molla a uno svincolo, e col braccio indica una direzione, Grenoble dev’essere da quella parte, mi dice. Poi mi tira un foglietto dal finestrino, questo è il mio numero di telefono, chiedi di me all’usinefsis, ciao, divertiti!

    Qui inizia la storia del passaggio vero e proprio. Vedo la macchina di mio padre che si allontana inesorabilmente, mentre guardo il numero sul foglietto e mi rintrona nella testa la parola usinefsis. Il francese non lo sapevo ancora, però usinefsis mi sembrava proprio arabo. Solo molti anni dopo, mentre passeggiavo per il mercato arabo a Marsiglia, dove ho vissuto tre anni e ho imparato il francese, mi è tornata in mente di colpo e magicamente si è sbrogliata nel suo significato segreto, ousine ef-sis, ufficio F6.

    Con in testa questa parola araba, solo, in mezzo a strani svincoli autostradali, senza sapere la lingua, con le macchine che sfrecciano, e col dilemma della direzione da prendere (a rigor di logica la direzione opposta rispetto a quella indicata da mio padre, ma c’è sempre l’eccezione che conferma la regola, penso), insomma, in questa situazione piuttosto precaria, mi viene in mente di fare l’autostop. E per la prima volta assaporo anche uno strano senso di libertà. È l’eccitazione dell’autostop, dell’imprevedibile, la bellezza di non sapere chi ci prenderà, a volte neanche dove si andrà, nord sud, certo, una direzione geografica generica, come il braccio teso di mio padre verso l’ignoto, e poi spesso il dove lo decide chi ci dà il passaggio.

    Sapevo ben poco sull’autostop, l’avevo visto fare a dei miei amici, una volta avevo anche preso un passaggio con due ragazzi che, però, erano loro a fare l’autostop, io mi ero solo aggregato. Quindi quello non valeva come primo passaggio. Non avevo ancora sviluppato tutti i principi base dell’autostop, i cofattori spazio-temporali, insomma, lo facevo un po’ a caso, non sapevo né la direzione, né dove mi dovevo mettere, e che faccia dovevo fare.

    All’inizio, timidamente, metto fuori il dito proprio lì dove mi ha lasciato mio padre. C’è un piccolo spiazzo davanti al quale le macchine e i camion sfrecciano senza indugi. Io sto lì. Col mio dito, e tutto il mio baricentro, all’interno della piazzola, nessuno può vedermi. Immagino che se qualcuno è in cerca di autostoppisti forse mi potrebbe vedere. Rimango così almeno un’ora.

    Alla fine, mi dico che non può funzionare, è ovvio che non avrebbe mai funzionato. Allora m’incammino lungo lo svincolo, con le macchine che mi fanno pelo & contropelo. Non so bene dove andare, seguo la direzione indicata da mio padre, il suo braccio verso l’ignoto. Arrivo a un rondò dove le macchine rallentano un pochino. Ci sono dei cartelli che indicano Grenoble 12 km, Marseille 300 km, Paris 560 km ecc. Grenoble è nella direzione da cui vengo. Invece, la mia direzione originaria, quella che ho preso seguendo le indicazioni paterne, mi porterebbe dritto dritto a Parigi. Vedi i vantaggi dell’autostop, l’imprevisto, il thrilling? Cerchi un passaggino per Grenoble e ti puoi ritrovare a Parigi, rive gauche!

    Mi metto dove le macchine, fatto il giro del rondò, si lanciano con tutta la forza centrifuga verso Grenoble 12 km. Spero in un rallentamento, un’indecisione dell’autista davanti a tutte queste indicazioni, come farebbe mio padre, che un rondò così normalmente se lo gira un paio di volte mentre ci dice, leggere!, leggere!, e poi inforca la direzione sbagliata sbraitando contro di noi che non abbiamo letto bene. Invece gli autisti di qui neanche le guardano, le indicazioni, sanno il fatto loro, prendono il rondò come fosse un’onda del mare, per farci il surf fino a Grenoble, e via. Me la vedo brutta. Il mio dito è meno timido adesso, mi sporgo un po’, gli autisti mi vedono per forza.

    Mi vedono, ma non mi guardano. Rimango così per un paio d’ore. Poi, mentre sono lì che cerco lo sguardo degli autisti che non mi guardano, sento come una presenza in lontananza, come un qualcosa che è cambiato nello sfondo del paesaggio. C’è una Centoventisei beige, ferma sul lato della strada, a una cinquantina di metri, nella direzione di Grenoble. Sta lì ferma, nella mia visione periferica. Finalmente me ne accorgo, mi giro e vedo che dall’interno mi fanno dei segni col braccio, come di avvicinarmi. Segni che un autostoppista scafato avrebbe percepito anche solo con lo spostamento d’aria, ma che io fatico a interpretare.

    Mi viene in mente che potrebbero avere bisogno d’aiuto, mi sono quasi scordato che ci sono anch’io lì, che faccio l’autostop. Mi avvicino e dico, help?, per sapere se hanno bisogno di aiuto. Nella Centoventisei ci sono due ragazze, mi dicono qualcosa in francese che non capisco e poi indicano il sedile di dietro, anche questo non lo capisco, guardo dietro ma non c’è niente, dietro. Infatti dietro ci devo andare io, secondo loro, visto che facevo l’autostop, anche se lì per lì me lo sono dimenticato. Finalmente torno in me, e gli chiedo, Grenoble?, e loro, oui oui. Ecco una parola che conosco. Monto nel sedile di dietro. Il mio primo passaggio.

    Guida Valérie, una francesina piccola come la sua Centoventisei. Sul sedile di fianco c’è Solange, più grande, carina, ma che non parla molto. Parla solo Valérie, un po’ in inglese, un po’ in francese. Io un po’ capisco, un po’ no. Valérie è una maestrina. Eh, penso che se me lo chiedeva l’avrei indovinato, ce la vedo a tenere per mano i bambini all’uscita della scuola, con le stesse mani con cui tiene delicatamente il volante.

    Valérie vuole sapere dove vado cosa faccio e perché. Dove vado lo so, cosa faccio un po’ meno, e perché mica tanto. Comunque vado a Grenoble a trovare Gianfranco, e ci vado perché è un amico, e gli amici si vanno a trovare. Anche se in realtà l’ho visto una volta sola e ci ho parlato sì e no dieci minuti alla festa del compleanno di Sonia. La mia scusa è l’agendina che aveva dimenticato, gli porto l’agendina, sarà contento. Poi Valérie mi chiede se mi va bene place Victor Hugo. Suona bene, place Victor Hugo. Uno scrittore facile da ricordare. Io ho con me il numero di telefono

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