il principe tutto cuore
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Anteprima del libro
il principe tutto cuore - Giuseppe Muzi
Introduzione
Qualsiasi sia stato il motivo per cui hai deciso di iniziare a leggere questo libro, dimenticalo. Non importa cosa ti abbia spinto ad acquistarlo o semplicemente ad aprirlo. Vorrei che tu lo dimenticassi e vorrei, anche, che facessi una cosa per me.
Ci sono settantamila autori emergenti in Italia. La percentuale diminuisce se teniamo conto di chi sceglie di pubblicare una seconda volta. Quanti scrittori sognano di avere un grande successo e poter continuare a scrivere? Un numero molto più basso di quello a cui hai pensato. Quindi, leggere questo libro per poter stabilire se vorrai comprare un seguito, non è ciò a cui ambisco.
Non ho un talento nello stile, tanto meno nel ritmo, per cui leggere di getto o per curiosità, per cultura, non servirà a molto. Questo libro non è stato pensato per essere affrontato in questo modo. Puoi anche lasciarlo tra gli scaffali della tua libreria e dimenticartene, se lo ritieni opportuno. Non mi offendo. Ti chiedo però, solo un favore, dato che hai investito dei soldi; segui alla lettera le mie semplici istruzioni: prendi come riferimento la quarta di copertina, potrebbe essere l’unica cosa che leggerai oggi. Se farlo non ti smuove nulla, lascia perdere, riponi il libro.
Sistemalo dove non possa darti fastidio, in un posto talmente scomodo dove non passeresti neanche con un panno per togliere la polvere. Ma allo stesso tempo, di facile accesso con lo sguardo. Tutti, in casa, abbiamo un posto così.
Poi, prendi un impegno serio, ogni volta che ti cadrà l’occhio su questo testo, andrai a leggere la quarta di copertina. Sono poche righe, lo puoi fare. Ti garantisco che è tutto ciò di cui hai bisogno per avere la certezza di non aver fatto una spesa inutile.
Per raggiungere il mio scopo ho bisogno che tu possa pensare di poter essere diverso, che tu sia pronto. Tutto questo può avvenire solo dentro noi stessi in momenti precisi della nostra vita. Quando queste parole riusciranno a oltrepassare le tue barriere, sarà quello il momento giusto per iniziare la lettura, per poter permettere a me di entrate dentro te con la mia storia e, a te, di leggermi dentro. Questo romanzo è efficace solo se si è davvero pronti a mettersi in gioco, se lo si legge tutto, fino in fondo, anche quando ci sta annoiando, sono sicuro che la vostra tenacia verrà ripagata. Sono pochissime pagine, leggetelo fino all’ultima, assaporatele, una alla volta, comprendetene il messaggio e fatelo vostro.
Io ci sono, e tu?
Buona lettura!
Capitolo 1
La morte
Corro, ho il vento contro, la pioggia mi batte sul capo, sono completamente distaccato dalla realtà; il mio corpo si muove inconsapevole, penso solo a correre, devo raggiungere il treno il più velocemente possibile, devo andare da lei. La mia mente è offuscata, non sono lucido, mentre il fisico si divincola tra la folla di persone che attendono l’arrivo del treno, mi ripeto: torna in te, torna in te. Poi, con la coda dell’occhio, scorgo una scritta: biglietteria. La freccia indica di andare a destra, all’improvviso cambio direzione e corro nel lato opposto.
Vedo una fila, non propriamente indiana, di persone.
«Ci mancava anche questa», biascico tra me e me, mentre mi metto in coda. Le mie mani tremano.
Ero a lavoro, stavo facendo il mio turno pomeridiano quando ho sentito squillare il telefono. Guardai lo schermo ed era mia madre. Non era solita chiamare durante un turno.
«É successo qualcosa?», rispondo titubante.
«Nonna», esordisce, poi continua «Ci hanno detto che le resta ancora poco da vivere».
Il buio totale, non ricordo più nulla, come se la mia mente si fosse spenta del tutto, fino a ora che sono qui, fermo, a fare la fila alla biglietteria cercando di capire quale sia il prossimo passo da compiere. Mille chilometri mi separano da lei, devo calmarmi, provare a essere lucido, capire come raggiungerla il prima possibile.
«Un biglietto per il primo treno in partenza Roma, per favore» chiedo con voce soffocata. La signorina nel cubicolo guarda il computer. Un senso di angoscia mi pervade, ho come un nodo alla gola. Ho paura di restare bloccato qui, gli attimi di attesa per sapere se c’è un treno mi sembrano infiniti. Cerco di distrarmi infilando la mano nella tasca stretta dei jeans, in cerca di spicci. Come a voler essere positivo, come se sapessi già che c’è un treno, come se dovessi già pagare.
«Prima di domani mattina c’è solo il notturno, tempo di percorrenza: circa dieci ore», penso che potrebbe essere una buona soluzione, da Roma prenderò un bus diretto al mio paese, sarà un viaggio lungo e stressante, ma non ho alternative.
«Lo prendo, grazie».
«Binario dodici, tra dieci minuti», dice la giovane donna passandomi il biglietto. La guardo quasi commosso, come se mi avesse appena fatto il regalo più bello del mondo. Poi inizio a correre.
Arrivo al binario, salgo sul treno in tempo. Sono le 20.00, mi informo per quando è previsto l’arrivo: senza ritardi dovremmo arrivare per le 6.00 del mattino.
Mi siedo sul primo posto disponibile dal lato finestrino, mi guardo intorno. Ci sono persone con delle valigette da lavoro in mano, altre con il pc poggiato sulle gambe. Hanno tutti un’aria stanca e distrutta, alcune leggono, altre ascoltano musica con le cuffie all’orecchio mezzi appisolati sul sedile, poi ci sono gli adolescenti che parlano ad alta voce vantandosi dell’ultima conquista fatta. Il treno sta partendo e io non ci credo ancora, sono finalmente sulla strada di casa. Accenno un mezzo sorriso, poi penso che mi aspetti una lunga notte di viaggio, senza mangiare, senza dormire, senza neanche uno zainetto. Dal lavoro sono scappato alla stazione evitando di passare da casa e perdere ulteriore tempo, portandomi dietro solo la speranza di poter avere la possibilità di salutare un’ultima volta la Donna più importante della mia vita.
Ad ogni stazione, lo sferragliare delle carrozze sui binari spacca l’assordante silenzio, mentre pian piano il treno si svuota dei pendolari. Amo viaggiare, mi aiuta a riflettere, ora però non riesco a godermi niente, neanche quella meravigliosa pianura padana, che spenta dalla notte, si intravede appena. Le luci delle industrie si intervallano a quelle dei centri abitati e sfilano via dall’occhio malinconico.
Riesco solo a pensare che una volta arrivato a Roma dovrò prendere un altro autobus, la mia mente non trova pace dall’ossessione di arrivare in tempo, provo anche a pregare un po', con la speranza che possa aiutarmi a mantenere la calma in quella inquietante attesa, ma nulla riesce ad alleviare l’ansia.
Prendo lo smartphone e guardo l’ora, sono le 6.36, prossima fermata Roma, tutto sommato, anche se mi sono fatto quasi il doppio delle ore di viaggio, trentasei minuti di ritardo non sono poi così male.
«Cavolo, è la Stazione Termini», l’autobus che mi dovrà portare a casa partirà tra venti minuti dalla Stazione Tiburtina, come ho potuto essere così sciocco? Non sono certo di potercela fare; potrei correre, l’avevo fatto un sacco di volte, ma non ho la percezione della mia stanchezza, non mi fido, così, appena il treno si ferma scendo con l’obiettivo di prendere la metro, ma non ho tempo per fermarmi a fare il biglietto, quindi scavalco il tornello, mi inserisco nel primo treno in partenza, direzione Rebibbia. La fermata di mio interesse dovrebbe essere la terza. Guardo lo smartphone, mancano dieci minuti, vorrei che il tempo rallentasse un po’. Mi lancio in una corsa sfrenata, esco dalla stazione dei treni e arrivo al terminal degli autobus, conosco per fortuna lo stallo, il 12. L’autista sta chiudendo le porte ed è pronto per partire, busso sulla porta a vetro e lui si ferma.
«Può gentilmente aspettare un minuto? Devo fare il biglietto», dico senza fiato e con il cuore in gola.
L’autista prima scuote la testa, poi sbuffa.
«Dai, sbrigati!».
Scendo dall’autobus che mi lascia sulla strada Provinciale che porta in città, guardo l’ora: sono le 9.00 in punto, penso alle ultime due ore, tranne i venti minuti passati a fare corsa campestre tra una stazione e l’altra di Roma, sono dodici ore esatte che sono in viaggio.
Devo percorrere circa cinquecento metri a piedi prima di raggiungere una cavità, all’interno sorge casa dei miei genitori, attraverso una stradina non asfaltata, che dritta arriva direttamente davanti al grosso palazzo color arancio, che riesco appena a intravedere.
Il cielo è cupo, e si prepara a un temporale, le nuvole stanno per scontrarsi l’una contro l’altra. Improvvisamente una goccia ponderosa cade sul mio capo, è minacciosa, a distanza di pochi secondi eccone un'altra. Il tintinnio della pioggia che si scaglia sui parabrezza delle auto parcheggiate, l’odore umido di tempesta, mi portano ad accelerare il passo. C’è un forte vento di tramontana che gela il tessuto bagnato sul corpo, le scarpe finiscono immerse nel terreno argilloso, divenuto fango. Che fastidio! Quando ero piccolo mi fu lieto quel pantano, ci rotolavo dentro fino a che non mi entrava persino nelle orecchie.
Gli ultimi passi verso il portone di casa sono i più brutti, ho il cuore in gola, l’ansia mi assale e mi tremano le gambe, penso di svenire da lì a poco. Suono al citofono e mi apre mio padre, salgo i tre gradini che mi separano da Lei.
La prima cosa che vedo sono la miriade di persone. Sulla destra ci sono tutte le vicine di casa, quelle che mi hanno cresciuto, una a fianco all’altra e sembrano turbate. Sulla sinistra c’è la cugina di mia nonna, si chiama Carmelina, avevano discusso anni prima, ricordo che nonna ha sempre tentato di fare pace, ma lei non ha mai voluto, e ora eccola lì, la signora Carmelina che si fa il suo bel pianto per l’occasione.
Scruto tutti, percorro il corridoio pervaso ancora da quella strana sensazione di angoscia, le vecchie signore provano ad avvicinarsi ma io non voglio fermarmi a dialogare, quindi accelero il passo con decisione.
Entro nella sua piccola cameretta, come sempre ordinata. Malgrado il momento non sento nessun odore ambiguo, c’è un silenzio tombale interrotto solo dal ticchettio dell’orologio e dal respiro affannoso della nonna; c’è ancora una mia fotografia da piccolo di fronte al suo letto, non aveva mai voluto che gli venisse spostata, diceva che mi avrebbe dato ogni mattina e ogni sera il buongiorno e la buonanotte, dal momento che non poteva più farlo di persona, dopo che me ne andai di casa.
Sul fianco destro del letto ci sono mia madre e mia zia, in lacrime si stringono forte la mano guardandosi intensamente negli occhi, stanno per perdere un pezzo del loro cuore, sul lato opposto del letto una sbarra, di quelle che in genere si mette ai bambini per evitare