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Mille Passi e Mille Giorni
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Mille Passi e Mille Giorni
E-book330 pagine5 ore

Mille Passi e Mille Giorni

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Info su questo ebook

Due anni e mezzo nella vita di un sognatore che intraprende un viaggio alla ricerca di se stesso e delle sue passioni piú vere. L'autore ci apre la porta ai suoi pensieri piú intimi e reconditi, in un racconto che inizia con un volo verso un´avventura che lo obbligherá a fare i conti con il suo passato per poter indirizzare il suo futuro.
Un romanzo sulla vita scritto con il cuore e senza "parole addolcite", in cui le emozioni e le paure piú vere del protagonista diventano l'anima del racconto.
LinguaItaliano
Data di uscita7 mar 2022
ISBN9791221307313
Mille Passi e Mille Giorni

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    Anteprima del libro

    Mille Passi e Mille Giorni - Daniele Montagner

    Daniele Montagner

    Mille passi e mille giorni

    Mille passi e mille giorni

        INDICE

    INTRODUZIONE

    1 EVASIONE

    2 LE PRIME AVVISAGLIE

    3 L’INIZIO DELLA FINE

    4 IL CROLLO INTERIORE

    5 15 ANNI FA…

    6 L’INFERNO DENTRO

    7 GLI ANNI DEL BUIO

    8 RITORNO AL PRESENTE

    9 A CACCIA DI ME

    10 SARA’ LEI?

    11 UN NUOVO IO

    CONCLUSIONE

    Non solo non conosco la risposta; non so nemmeno quale sia la domanda.

    Metallica- My World

    Introduzione

    Gli uomini hanno paura di realizzare il sogno più grande perché pensano di non meritarlo, o di non riuscire a raggiungerlo.

    Paulo Coelho

    Ricordo quella mattina come se fosse passato solo un giorno. Era il quindici Gennaio 2007 ed erano quasi le sette del mattino. Mi trovavo all’aeroporto di Milano, assolutamente inconscio di tutto ciò che sarebbe successo nei due anni che sono trascorsi da quel giorno.

    Sedevo in una di quelle poltroncine che stanno agli sportelli d’imbarco, ascoltando musica e tenendo fra le mani un quadernetto verde con le pagine tutte bianche. Avevo dentro di me una grandissima voglia di riempirle tutte, anche se non sapevo cosa ci avrei scritto. Quindi iniziai a scrivere e basta; decisi che lo avrei riempito della vita che avrei vissuto, delle esperienze che avrei fatto e dei sogni che avrei avuto, augurandomi che l’inchiostro che avrebbe segnato quei fogli descrivesse un futuro che avevo chiaro in mente, anche se non riuscivo ancora a focalizzarne bene i contorni. Non sapevo cosa cercavo, ma sapevo fin troppo bene che dovevo mettermi in moto e…cercare, vivere.

    L’idea di trasformare tutto ciò in un libro è venuta solo in seguito, infatti, originariamente questo manoscritto doveva essere un semplice diario di viaggio, qualcosa che ricordasse a me stesso, quando lo avrei riletto, le emozioni e le sensazioni che ho vissuto in questa fascia della mia vita. Poi però, un po’ per ambizione e un po’ per fare un qualcosa di nuovo, mi è balenata nella mente l’idea di mettere tutto su carta stampata. Ho deciso di trascrivere il diario esattamente come l’originale, senza in alcun modo cambiarne i contenuti, né il modo in cui sono espressi. Ho apportato solo alcune correzioni grammaticali e degli approfondimenti che al momento della prima stesura non mi erano venuti alla mente.

    Alcuni tratti potranno sembrare molto volgari, ma erano le cose che pensavo e provavo, e se avessi voluto in qualche modo cambiare le parole usate in origine, ne sarebbe risultato un prodotto forse più letterario, ma sicuramente meno vero. Sarebbero state alterate le emozioni reali. In fondo, per quanto certe espressioni possano essere poco regali, fanno parte del linguaggio comune e contribuiscono ad accentuare certi concetti che altrimenti risulterebbero più blandi.

    Le sole cose che non corrispondono assolutamente alla realtà, ovviamente, sono i nomi delle varie persone che sono citate e che ho incontrato durante il cammino. I nomi che compaio in queste pagine sono tutti inventati, tutti tranne il mio e quello di un’altra persona; un nome che compare una sola volta. Ho deciso di alterarne le identità per ovvi motivi, anche se è molto probabile che questo diario-libro esisterà solo nella mia biblioteca.

    La musica ha giocato un ruolo fondamentale in questo viaggio, e continua a essere l’ornamento indispensabile di ogni mio passo, infatti molte volte ho riportato alcune parti o alcuni versi di certe canzoni che in determinati momenti della mia vita hanno avuto un significato particolare; parole che sentivo come se fossero state mie.

    Ho poi deciso di dividere il diario in vari capitoli, cercando di fare in modo che fossero parti a sé stanti, e ho poi dato un titoletto a ognuno di essi, accompagnandolo a una citazione, a volte letteraria, a volte tratta da una canzone; in certi altri casi, quando non ne è specificato l’autore, si tratta di pensieri personali, miei.

    Non credo di avere molto altro da aggiungere. Paradossalmente, questa introduzione è scritta quando tutto il resto del diario è già completo, o quasi. Forse fanno così anche gli scrittori veri: prima scrivono il libro e poi stendono un piccolo trafiletto introduttivo, boh.

    Oggi non lavoro, e domani neppure. Siccome nel periodo Natalizio si è lavorato tanto ed io ho accumulato alcune ore di straordinari, il titolare del ristorante in cui lavoro mi ha dato tre giorni liberi. Ieri, oggi e domani…ed eccoci finalmente: domani. Il Domani. Il nuovo che arriva e si trascina dietro quell’immensa voglia di essere vissuto, quella voglia di esserci e di scoprire.

    Sono quasi le ore ventuno e mi accingo a terminare questa introduzione al racconto di due anni della mia vita, due anni di sorrisi e rimpianti, felicità e tristezze, sogni e ambizioni, sconfitte e delusioni - ma mai rassegnazioni-, profumi e sensazioni, vittorie e nuovi sorrisi.

    Spero di continuare così ancora per un po’, sognando e vivendo appieno ogni giorno, me lo auguro davvero.

    Domani. Domani sarà un giorno particolare. Scandito da un avvenimento particolare. Credo che mi sveglierò presto e andrò a fare un po’ di snowboard, in attesa che si faccia sera, quando mi recherò alla stazione ferroviaria del paese. Una persona molto particolare sta venendo qui per me.

    21 Gennaio 2009, Seefeld In Tirol, Austria.

    1

    Evasione

    Si ha più bisogno di un punto di partenza o di una meta di arrivo?

    Running Wild a palla. Come il solito. Solo che stavolta non è lo stereo della macchina a mandarmeli dritti al cervello, bensì il suono più ovattato del lettore cd portatile.

    Terminal due, Malpensa. L’imbarco inizierà tra circa venti minuti. Allo sportello d’ingresso mi hanno pure rotto le palle per via di un gel e uno shampoo che avevo nello zaino, proibendomi di portarli con me nel bagaglio a mano. Poco male. Li ho lasciati a Christian, l’amico che mi ha accompagnato fin qui in aeroporto.

    Non ho la più pallida idea circa questo viaggio. Non so se sia giusto o sbagliato partire, ma è come se avessi la certezza che devo farlo.

    Ora manderò un messaggio a un ex collega di lavoro per salutare lui e i compagni con cui lavoravo.

    E poi chiamerò Giovanna, che è l’unica cosa, o meglio persona, che mi dispiace lasciare.

    Sarebbe perfetta, o almeno così credo, ma io non sento di voler stare al fianco di una persona adesso. Devo prima fare ciò che devo, anche se non ho la minima idea di cosa sia.

    Fine imbarco. L’aereo si appresta a decollare. Rulla sulla pista. Si ferma. Le turbine si riscaldano. Parte il solito filmato che spiega le norme di sicurezza. Fuori è buio mentre il volatile di ferro si accinge a raggiungere le piste. Ne vedo un altro dal finestrino e penso che stia per decollare anche quello. Una voce al microfono dice agli assistenti di volo di prepararsi al decollo. Dovremmo essere sulla pista giusta.

    L’accelerazione mi schiaccia sul seggiolino. Si stacca da terra. Siamo già sopra le nuvole. Vedo l’alba.

    ‘Vai bello!’ penso. ‘Portami fuori dai coglioni.’

    Giorno due. Ieri sono sbarcato all’aeroporto sud di Tenerife e ho aspettato per un’ora che arrivasse Francesco.

    Mi ha portato un po’ in giro con la macchina che ha noleggiato e sono riuscito anche a fare subito una delle carte che servono per lavorare e vivere qui.

    La serata è stata tranquilla fino alle dieci, ora in cui sono crollato perché ero distrutto. Il viaggio, la stanchezza e la mezza sbronza che avevo la sera prima di partire mi hanno demolito.

    Oggi sveglia alle otto e subito doccia fredda perché il riscaldamento non funziona manco per il cazzo.

    Nel tempo di due ore riesco a ottenere anche le altre due carte che mi occorrevano. Molto bene. Ora si va a caccia di lavoro. Ma prima, visto che mi trovo a Las Americas, faccio un giretto rilassante guardandomi un po’ intorno.

    Stereo quasi a palla e finestrini abbassati. Fa un caldo boia e nella Peugeot 106 che abbiamo a noleggio non c’è il climatizzatore.

    Il pomeriggio lo trascorro vagabondando tra un ristorante e una pizzeria, tra una carpenteria e un’officina meccanica. Tra Los Cristianos e Valle De San Lorenzo, dove abbiamo l’appartamento. Tra Guaza e Cabo Blanco. Chiedo a chiunque incontro se mi può dare un lavoro, o se conosce qualcuno che cerca operai, pizzaioli, qualsiasi cosa. Voglio un lavoro.

    Francesco torna a casa alle otto di sera, dopo la sua giornata di lavoro. Subito mi dice che l’indomani mi devo presentare in uno dei posti in cui avevo sollecitato un impiego.

    Non avendo ancora un mio numero di telefono spagnolo, avevo lasciato quello di Francesco al tipo che mi aveva chiesto un recapito. Ora non resta che andare e provare. Speriamo bene.

    Giorno tre. Il lavoro non sembra essere andato male, ma la professione del falegname non è un’attività che mi attrae molto. Comunque per ora è così e va pure molto bene, visto che mi hanno detto di tornare domani per il secondo giorno. Ciò non toglie la possibilità di continuare a cercare un lavoro come pizzaiolo o aiuto cuoco. Magari nel weekend. Nel frattempo spero di continuare bene e che mi sia proposta una buona retribuzione. Uno dei miei obiettivi è di riuscire a mettere da parte dei soldi; magari non molto, ma un tantino ogni mese.

    Ora Morfeo chiama e non riesco a resistere al sonno. Sono stato in piedi tutto il giorno su scarpe scomode e ora ho le gambe a pezzi.

    Urgono scarpe nuove al più presto.

    Giorno sei. Il lavoro non è male ma io, da perfetto viaggiatore, mi sto già stancando di star qua. O meglio, diciamo che voglio vedere molti altri posti.

    Beh, per ora sono qui e farò bene a impegnarmi per starci alla grande. Ho ottenuto uno stipendio che si aggira intorno ai mille euro al mese. Cosa che mi permetterebbe di pagare tranquillamente l’affitto e le varie spese, riuscendo comunque a risparmiare una parte del denaro. Ovviamente facendo i dovuti calcoli.

    Il divertimento non deve mancare. Vivo per vivere. Non per lavorare e basta. Semmai lavoro per vivere.

    Le scartoffie e i vari permessi che mi servivano sono stati debitamente compilati. Il lavoro ce l’ho. Mi sono impegnato per trovarlo e mantenerlo. Ora mi rilasso un po’.

    Oggi pomeriggio sono andato in spiaggia per la prima volta. Non mi era mai capitato di stare in costume a gennaio. È stata una bella sensazione. Una nuova sensazione. Sono stato sotto il sole in compagnia di Francesco e Xavier, un argentino che ho conosciuto ieri. È quasi totalmente fuori di testa, nel senso buono del termine. Quindi è il tipo ideale con cui far festa.

    Oggi è sabato e stasera si esce. Me lo sono meritato.

    Il Banana Garden è una specie di balera in vecchio stile, con il banco di legno attorniato da sedie su cui campeggiano alcune vecchie signore e qualche alcolizzato con lo sguardo perso nel nulla. Al centro c’è la pista da ballo, e il dj fa girare sui dischi una merda che non gradisco per niente. Noi stiamo in piedi con le nostre birre in mano a chiacchierare un po’. Io cerco di capire quello che mi succede attorno mentre Francesco ormai dialoga tranquillamente in spagnolo con gli amici del posto.

    Appoggiata a una ringhiera di legno che affianca il bancone, scorgo una signora che avrà a occhio e croce una cinquantina d’anni. La faccia le sta cadendo a pezzi ed è visibilmente ubriaca.

    A onor del vero ero stato avvisato prima di entrare, circa ciò che succedeva in quel posto, ma non ci credevo o non ci volevo credere. O forse volevo vederlo con i miei occhi.

    Inizio a pensare che mi abbiano affermato la verità quando la vecchia mi afferra un braccio e mi blocca mentre passo davanti a lei per andare al bagno. Mi tira verso di se e sputacchiando saliva mi farfuglia in un orecchio qualcosa che non riesco proprio a capire. Le faccio un cenno con il capo, abbozzo un sorriso e tento di divincolarmi per andarmene. Lei però stringe la morsa e di nuovo brontola parole per me indecifrabili. La puzza del suo alito alcolico entra nelle mie narici ed è in quel momento che ripenso a ciò che mi era stato detto. Mi vuole scopare. Pagherà per questo. Mi offrirà dei soldi, mi chiederà di accompagnarla a casa e infine vorrà che le salti addosso.

    Mi dimeno finché lei allenta la presa e mi sposto di qualche metro raggiungendo i miei amici che stanno ridendo divertiti dalla scena alla quale hanno assistito. Dico loro che avevano ragione. Che in quel posto ci sono solo vecchie bacucche che cercano un cazzo a noleggio per qualche ora. Poco dopo però il mio pensiero va agli occhi di quella signora, troppo spenti e logori. Quasi avesse bisogno di dire o fare qualcosa, e vedendosi impedita si buttasse via con alcool e ragazzotti. Cerca un uomo che la sbatta o un orecchio che la ascolti? Boh. In ogni caso è ubriaca marcia e mi fa schifo vederla.

    Si ride ancora un po’, si beve un’altra birra e poi si cambia locale. Il resto della serata è un completo scassamento di maroni.

    Ormai sono già passate due settimane da quando ho iniziato a lavorare e mi sto facendo un’idea abbastanza precisa circa il posto in cui sono capitato.

    Non è molto distante da casa. Ci si arriva camminando in dieci minuti, quindi vado a piedi, ma in quanto a condizioni igienico-sanitarie e norme di sicurezza, ne deve passare ancora molta di acqua sotto i ponti prima che quella topaia possa essere promossa immondezzaio.

    Nel bagno è situato un lavandino. Fin qui non c’è niente di strano, ogni bagno è dotato di lavandino. Però quello è particolare: è incrostato, marcio e marrone. Non è marrone perché la ceramica di cui è composto sia di quel colore. È così perché ci sono milioni di batteri che lo popolano. Questa è stata la prima cosa che ho notato e per qualche giorno ne sono addirittura rimasto allibito, ma è solo una parte del casino.

    Il disordine sembra essere l’unico Dio adorato lì dentro. Ci sono tavole accatastate ovunque, travi e assi di legno dimorano in ogni dove. Almeno un centimetro di polvere mista a segatura sono depositate sui banchi, sul pavimento e su ogni genere di superficie. Al piano di sotto c’è una specie di magazzino in cui sono riposti i prodotti terminati e quelli da verniciare.

    E, stando a quanto ho capito, è proprio in quel posto che io devo svolgere la mia mansione. Verniciare porte, finestre e quant’altro.

    Ovviamente non esiste alcun sistema di aspirazione perciò si sta tutto il tempo immersi nel fumo della vernice, dei solventi e degli essiccanti. Roba che fa cagare anche solo ad annusarla. Questo però a noi non interessa. Sì perché abbiamo la maschera della salvezza! Che gigantesca stronzata!

    Si tratta di una volgare maschera con filtri protettivi che sarà vecchia di almeno un lustro. Bah.

    La scorsa settimana, non ricordo che giorno, stavo ripulendo la pistola a spruzzo. Saranno state le cinque e mezzo di sera.

    Il grande tappo che chiude il contenitore del colore che sta montato sulla pistola era svitato. Lo avevo tolto per pulire l’interno del recipiente con una spugnetta e del solvente che si usa in questi casi. Arriva quindi il momento di svitare la ghiera che sta sulla punta della pistola.

    Sono in piedi. La maschera pseudo-protettiva mi copre bocca e naso. Con la mano destra afferro la pistola sulla sua impugnatura, mentre con la sinistra intanto cerco di allentare la vite.

    Quella cazzo di ghiera non si svita e il recipiente del colore è per metà pieno di solvente. Il tappo è ancora sul banco. Stringo la presa e ci metto più forza.

    La ghiera cede di scatto e in un istante l’inerzia della forza che adoperavo mi catapulta tutto il liquido in faccia. Ho giusto mezzo secondo di tempo prima del contatto, e uso quell’istante per chiudere gli occhi premendo le palpebre il più possibile.

    Lo sento. Mi sta bruciando le sopracciglia. La sensazione che provo è come se avessi del ghiaccio in faccia, ma so che se apro gli occhi mi bruceranno per mille anni.

    Il solvente cola all’interno della maschera passando ai lati del naso. Il respiro seguente è un miscuglio di aria e veleno.

    Mi muovo di scatto gettando a terra la pistola e mi strappo la maschera dal viso. Mentre giro su me stesso, inspiro una profonda boccata d’aria e cerco il fazzoletto nella tasca dei jeans.

    Immediatamente lo porto al viso e inizio a tamponare gli occhi con la stoffa cercando di asciugarli il più possibile.

    Li riapro lentamente salendo lungo la rampa che porta al piano superiore dove c’è il lavandino zozzo e schifoso che però ora diventerà il mio migliore amico. Mi bagno abbondantemente il viso e poi torno al piano di sotto. Attraversando l’officina, guardo gli altri operai. Nessuno sembra essersi accorto di nulla.

    Sono nuovamente al piano inferiore e raccolgo la pistola ripensando a quella volta in cui, da bambino, avevo ingoiato circa mezzo bicchiere di benzina cercando di estrarla da una macchina, a casa di un amico. Volevamo fare uno stupido gioco a invece ero quasi morto. E lui pure, perché aveva dei problemi al cuore ed era già stato operato varie volte. La paura gli aveva quasi causato un collasso.

    Ecco…la pistola è pulita. La ripongo al suo posto e in quello stesso istante penso che non voglio rimanere qui a lungo.

    La sicurezza non esiste. Tutti i macchinari sono privi di protezioni anti infortunistiche e se s’inciampa sulla segatura, si finisce fottuti.

    A parte questo, che è sostanzialmente tutto, non si sta male.

    Veniamo ora agli altri operai.

    Rafaél viene dall’Ecuador e vive qui da cinque anni. Lui di anni ne ha trentacinque e ha pure una moglie e un figlio.

    Secondo me fa una vita di merda perché si alza dal letto alle sei e mezzo del mattino per poter così prendere l’autobus che lo porta a lavoro, posto in cui rimane fino alle sei di sera quando prende un altro autobus per arrivare a casa verso le otto. A volte anche più tardi. Nella pausa per il pranzo, lui non torna a casa perché c’è solo un’ora di tempo. Si chiude nell’officina tirando su quello scarsissimo portone di lamiera e poi si siede su una catasta di assi di legno, dove consuma un pasto che si porta da casa.

    Lo so perché ho iniziato anch’io a trascorrere la pausa pranzo in officina con lui. Si porta il cucchiaio alla bocca mentre con lo sguardo fissa il vuoto.

    Mi chiedo a cosa pensi.

    Metto tra i denti un altro pezzo del mio panino nel silenzio quasi funereo che avvolge quell’ora.

    Anch’io cado nei miei pensieri.

    La sua donna lavora. Non so cosa faccia suo figlio e nemmeno quanti anni abbia. Mi chiedo se sia contento della vita che fa e poi mi viene un dubbio: forse non gli piace che io stia lì durante la sua ora. Forse quando stava lì da solo con i suoi pensieri, belli o brutti che fossero, era più contento.

    I suoi occhi sono sinceri. Si vede che è un uomo umile che porta a casa il pane e ciò è lodevole.

    Poi c’è Pablo. Un ragazzo spagnolo che vive a Tenerife da un anno e mezzo. La sua regione di provenienza è la Galizia. Lui è ancora più umile di Rafaél perché si accontenta di una sola briciola in più del niente.

    Io sono fermamente convinto che chi si dimostra troppo buono viene trattato da fesso. E credo che nel suo caso sia così.

    Pablo ha comprato una casa qui a Tenerife, però non hanno ancora iniziato a costruirla quindi dovrà passare almeno un altro anno e mezzo vivendo nella pensione dove alloggia ora.

    Un giorno mi ha parlato del posto in cui vive.

    Ha una stanza da letto in cui ci sono anche un televisore e un frigorifero. Mangia pasti freddi tutti i giorni e il bagno è in comune con le altre camere.

    Al lavoro è quello che sgobba più di tutti. Gli fanno toccare i lavori più pesanti perché ha trentuno anni ed è quindi giovane e forte. Inoltre non si lamenta mai.

    È pagato alla giornata anche quando lavora dieci ore. Si sbatte certi sabati e anche certe domeniche. Sempre per gli stessi soldi.

    Penso che abbia paura di perdere il posto di lavoro proprio ora che inizia a sistemarsi.

    Vive solo. Non ha alcuna ragazza e a quanto ne so qui c’è solo sua sorella che è sposata.

    Il titolare della ditta lo tiene per le palle. O almeno così sembra.

    Lo fa lavorare tanto senza riconoscergli le ore straordinarie e poi si pulisce la coscienza pensando che tanto se non dice niente, vuol dire che gli va bene così.

    Nessun rispetto per gli umili. Se si è umili, si viene schiacciati.

    Questa cosa fa venire la rabbia perché il titolare ne ha abbastanza di soldi, e nonostante ciò sfrutta una persona che un animo d’oro.

    Le persone così andrebbero prese a calci nei coglioni finché non iniziano a lacrimare spermatozoi. E poi ancora.

    Infine c’è il responsabile che si chiama pure lui Pablo. Anche lui è spagnolo, ma la sua regione è l’Andalusia.

    Diciamo che, tra tutte, la sua è la personalità che preferisco.

    Ha quarantadue anni, la testa leggermente calva e gli occhi azzurrissimi. Sta tutto il giorno a imprecare contro tutto e tutti.

    Non gli piace la gente del posto, odia le leggi del governo ed è per questo che passa le ore insultando banche, istituzioni e ciccione del paese.

    Però ha un modo di dire e di fare troppo divertente. Non si riesce a star senza ridere quando parla. Inoltre possiede un telefono cellulare che, a ogni chiamata, diffonde nell’aria un simpaticissimo motivetto. Roba tipo le canzoni che escono alla radio apposta per diventare il tormentone estivo. Quelle note che si sentono poi in ogni pub, bar o discoteca e che si finisce per canticchiare senza neppure rendersene conto. Quella roba che ti fa sentire in vacanza e che ti appiccica un sorriso in faccia, anche se hai le palle in gola per qualche motivo. E poi è uno che ha viaggiato. Parla tre lingue, ed io non riesco a non essere affascinato da ciò è nuovo e mi può far conoscere o indicare orizzonti che nemmeno immagino.

    Del titolare non mi va di parlare.

    Sono le undici e mezzo di sera. Running Wild a palla sugli auricolari del lettore cd portatile mentre sono disteso sul letto a scrivere che sono contento di ciò che sto facendo, e mi auguro di continuare a girare ed esplorare ancora per un po’.

    Oggi ho sentito Giovanna al telefono.

    Se i momenti e il tempo fossero diversi….la canzone che mi vibra ora nel cervello è Victory, che è anche il titolo dell’album.

    Forse è lei che cerco. Se gli istanti combaciassero, se si cercassero le medesime cose.

    Forse sono solo un vagabondo. Magari non è cosa per me.

    L’assolo della canzone mi rimbomba nella testa.

    Darkness falls and light will rise

    Force of justice finally strikes

    Victory

    Vittoria. Non so come, né in cosa, ma so che è quello che voglio. Vincere. Vittoria. Ora dormo perché domani dovrò andare a ’fanculo a lavoro.

    Mentre cammino per recarmi al lavoro, o quando sono sulla via di ritorno, mi piace ficcarmi gli auricolari negli orecchi e inondarmi le cervella di una pomposa sostanza musicale denominata Heavy-Metal. Se devo essere sincero, ascolto molto volentieri pure John Mellencamp e altri artisti o gruppi musicali meno cazzuti; però quando voglio energia, ci sono solo due pastiglie che possono darmi l’adrenalina che cerco: Metallica e Running Wild.

    Il fatto è che ormai i Metallica li ho ascoltati fino alla nausea quindi, eccetto qualche disco, non mi trasmettono più tutto quell’entusiasmo di un tempo. Se però si tratta di un concerto dal vivo, allora divento incontenibile.

    Rimangono dunque i Running Wild, di cui è composto l’ottanta per cento di ciò che ascolto in questo periodo.

    Mi piace mettere un passo davanti all’altro facendolo coincidere con ogni colpo di grancassa. L’impresa è ardua, perché il batterista di questo gruppo tiene perennemente le cassa in sedicesimi e la canzone più lenta che hanno non scende sotto i centoquaranta battiti al minuto. Facendo due conti si dovrebbero posare otto passi al secondo. Nel migliore dei casi.

    Mi piacciono perché la loro musica ha una personalità molto vicina alla mia. I loro riffs di chitarra sono aggressivi e taglienti. Velocissimi ma estremamente caldi. Il suono distorto grida una rabbia profonda e, allo stesso tempo, una continua ricerca.

    E poi a livello tecnico fanno mangiare la merda a molti altri gruppi. Le loro canzoni non sono sicuramente di difficile composizione ed esecuzione come quelle dei Dream Theater, però dal vivo sono precisi come un proiettile sparato da ottocento metri che ti entra in una pupilla.

    Oggi invece tocca ad Alice Cooper scandire il tempo della mia giornata mentre cammino a passo sostenuto verso casa.

    Per gli appassionati di questo genere musicale, Alice è uno dei padri fondatori del credo Heavy-Metal, e io rimango a bocca aperta ad ascoltare la sua voce così…non credo di avere un aggettivo adatto per descrivere ciò che mi trasmette.

    Fa venir voglia di andare avanti a testa alta. Dà energia, vigore. Quasi onnipotenza.

    Macino metri sotto le suole delle scarpe mentre la gente mi rivolge occhiate più o meno distratte quando mi vede canticchiare qualcosa tra le labbra. Il sole mi illumina e mi riscalda il viso. È un pallido sole serale che si appresta a essere accolto dal tramonto che lo attende all’orizzonte, là oltre gli oceani.

    La strada davanti a me brulica di automobili e di persone che però nella mia mente non esistono. Ci sono solo io. Io e i miei passi.

    Fisso il sole. Muovo un piede in avanti. Ne dovrò muovere molti altri nella vita.

    La canzone che il lettore sta riproducendo arriva al ritornello.

    Little by little we cross the line.

    Little by little the ties that bind.

    Alzo di nuovo gli occhi e fisso il cammino che devo percorrere.

    Io, i miei passi e una colonna sonora sulla quale costruire una vita. In questo istante non voglio altro.

    Questa settimana è stata un po’ uno schifo per due motivi. Uno è che il lavoro mi sta già stufando, l’altro è che ci sono stati un paio di giorni pieni di paranoie. Quei giorni in cui ti chiedi se sia stato giusto partire, o se non fosse stato meglio rimanere a casa, immersi in tutte quelle comodità delle quali non si può usufruire qui: l’automobile, la sicurezza domestica, gli amici eccetera.

    Per quanto concerne il tema professionale, credo che mi dovrò muovere al più presto per cercare un nuovo lavoro; meglio se come pizzaiolo, aiuto cuoco o anche lavapiatti. Non credo sia il caso di azzardarsi a fare il cameriere perché non conosco ancora bene la lingua, anche se tutti mi dicono che sto imparando molto in fretta e, se si considera che sto qui da poco più di un mese, parlo già abbastanza bene.

    Per l’esattezza oggi è il giorno trentacinque, ma mi sono stancato di annotare sempre il giorno in cui scrivo sul diario.

    Scrivo ogni tanto, quando accade qualcosa di nuovo o che meriti di essere menzionato, come quello che è successo circa due ore fa.

    Un finale di merda in una giornata che non è stata poi così male. È domenica e sono stato quasi tutto il giorno in spiaggia con Francesco, Xavier, Manuel e Ricardo.

    Manuel è un ragazzo spagnolo di ventitré anni che vive a pochi passi da casa nostra. È un compagno di lavoro di Francesco ed io l’ho conosciuto il giorno seguente al mio arrivo sull’isola. Quella sera Cesco ed io eravamo ospiti a casa sua e abbiamo tracannato birra fino alle due del mattino. Il giorno seguente, anzi, solo cinque ore più tardi, io

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