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Poema di letteratura popolare amena
Poema di letteratura popolare amena
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E-book586 pagine7 ore

Poema di letteratura popolare amena

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Nelle pagine di questo libro, il lettore viene invitato a fare un viaggio che va oltre la mera evocazione dell’opera di Giambattista Basile, esplorando un universo narrativo dove la fiaba letteraria si fonde con la poesia e la filosofia. Con i suoi settanta racconti Torellini dipinge un affresco vivido e realistico della vita meridionale popolato da personaggi emblematici come la venditrice della fortuna, l’azzeccagarbugli, il cacciatore e la massaia. I racconti di Torellini non sono solo storie: sono finestre aperte su un mondo ricco di tradizioni, umorismo e saggezza popolare, che riflettono la quotidianità e l’essenza solare della cultura del Sud, offrendo uno sguardo intimo su un tessuto sociale vibrante e profondamente umano.
LinguaItaliano
EditoreIkonos srl
Data di uscita9 apr 2024
ISBN9791223026366
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    Anteprima del libro

    Poema di letteratura popolare amena - Pasquale Torellini

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    PASQUALE TORELLINI

    POEMA DI LETTERATURA

    POPOLARE AMENA

    Ridentem Dicere Verum: Quid Vetat?

    Ridere per dire la verità: cosa è vietato?

    In copertina:

    il Palazzo ducale di Parete (CE),

    che fu un tempo di proprietà dei principi Caracciolo di Napoli, oggi restaurato,

    rivela una chiosa paradigmatica che testimoniano le origini paretane

    del grande novelliere Giambattista Basile.

    Proprietà letteraria riservata

    © Pasquale Torellini

    © Ikonos Editore (relativamente all’opera editoriale) - editoria.ikonos.tv

    È vietata la riproduzione del testo e delle immagini, anche parziale, contenute in questa pubblicazione senza la preventiva autorizzazione.

    I edizione marzo 2024

    Tutti i diritti riservati

    PROEMIO

    La gente del contado, dopo una defaticante settimana lavorativa, si concedeva una pausa di riflessione per valutare il modo in cui la natura e le attività svolte incidevano sullo sviluppo della propria esistenza individuale e collettiva. L’analisi sul rapporto tra l’uomo e il suo ambiente ci riporta al naturalismo, corrente letteraria sorta in Francia che avrebbe poi assunto in Italia il nome di realismo o verismo.

    Ogni teoria che faceva proprio il concetto di natura come immediatezza, come realtà e norma di tutto, si definiva naturalismo. Tutti i più grandi narratori hanno esordito decantando gli aspetti essenziali della loro vita. In merito lo scrittore Michel Eyquem de Montaigne sosteneva che c’è più da imparare dalla vita e dall’esperienza che dai libri, soprattutto per chi scrive. Pertanto consigliava di scrivere libri che somigliassero alla propria vita più che alla propria biblioteca: era un invito a coniugare memoria e realtà. Ne fa testo il suo primo romanzo autobiografico dal titolo: Les grisettes de Provence Le sartine della Provenza", in cui lo scrittore, attratto dalla sirena della nostalgia, rimembra i migliori anni e gli amici della sua vita all’interno di una sensibilità romantica e affettiva, in cui l’amicizia e l’amore vengono intesi quali fuochi sacri, che hanno bisogno d’essere alimentati giorno dopo giorno con azioni concrete e non con calore fittizio.

    Alle origini della letteratura dell’età realistica vi sono in Francia le opere di Balzac De Honoré, di Stendhal pseudonimo di Henrhy Beyle, di Gustave Flobert, Emil Zola e Guy de Maupassant. La pienezza del realismo e il suo irrigidimento naturalistico si trova nelle opere di Emile Zola e di Guy de Maupassant, considerati i veri e propri capiscuola. Zola tenne a precisare che la materia e la trama del racconto si trovano sempre pronte presso quella grande e inesauribile fornitrice che è la vita quotidiana, si che basta ritagliare una fetta della vita, una tranche de vie per avere a disposizione quanto occorre al lavoro narrativo.

    Il realismo ebbe il pregio di sviluppare il racconto provinciale ispirandosi ai costumi, agli usi, alle consuetudini, alle miserie, ai pregi spirituali della gente, e valse ad avvicinare le diverse culture regionali e locali favorendo così l’unità spirituale degli Italiani. Sulla stessa lunghezza d’onda si sintonizzavano i vecchi saggi, i quali amavano trascorrere la loro esistenza narrando fatti da loro realmente vissuti, privilegiando quelli che strappavano un sorriso agli amici. Ridevano a dire il vero (ridentem dicere verum: qui vetat?) attenendosi scrupolosamente al nocciolo realistico delle vicende narrate: passare per bugiardo nel periodo di massima affermazione dei valori classici della Civiltà contadina, significava perdere dignità e prestigio. Erano tempi in cui la parola data era oro colato: con una semplice stratta di mano si legittimavano transazioni economiche anche di notevole valore. Per grandi linee la Civiltà Classica Contadina aveva come stella polare le Venti Regole Morali del filosofo greco Talete, che credo sia utile ricordarle:

    La malleveria (assumere garanzia per gli altri) porta sfortuna.

    Ricordati degli amici presenti e assenti.

    Non abbellire il tuo aspetto, ma sii bello in ciò che fai.

    Non arricchirti in modo disonesto. il tuo discorso non ti renda odioso a coloro che ti sono vicini fiduciosamente.

    Non esitare a lusingare i genitori.

    Del padre non accogliere ciò che non vale nulla.

    Quali benefici recherai ai genitori, tali tu stesso riceverai in vecchiaia dai figli.

    Difficile è conoscere se stesso.

    La cosa più piacevole è ottenere quello che si desidera.

    Cosa molesta è l’inazione.

    Cosa dannosa è l’intemperanza.

    Cosa gravosa è la mancanza di educazione.

    Imparare e apprendi ciò che è meglio.

    Non essere inattivo, seppure arricchisci.

    Nascondi i mali in casa.

    Sii invidiato piuttosto che commiserato.

    Usa della musica.

    Non credere a tutti.

    Cominci ad abbellire te stesso.

    Dotati di sbrigliata fantasia, ironia, umorismo e perché no anche di satira, i nostri antenati solevano occupare il tempo a riflettere sul loro agire, sulle cose viste realizzare o portate a termine con le loro stesse mani. Il teatro stabile dei loro incontri era l’agorà, dove più vivace e schietta era l’esaltazione del narrare, del descrivere fatti veri arricchendoli di un sano umorismo.

    I grandi scrittori umanisti sostengono che l’umorismo e l’ironia rappresentano il toccasana per sciogliere le tensioni tra le persone e risolvere situazioni difficili. Tra gli antesignani di tale corrente letteraria ricordiamo il poeta fiorentino Luigi Pulci, autore del Morgante ch’è uno dei poemi più singolari della letteratura italiana dal tono gioioso, e lo scrittore Teofilo Folengo, autore della famosa opera impregnata d’ilarità dal titolo Orlandino.

    Strana coincidenza, la sera del giorno 19 febbraio 2016, mentre ero intento a comporre il presente lavoro letterario intriso di gaiezza, appresi dai telegiornali la triste notizia della dipartita di Umberto Eco, semiologo, filosofo e scrittore, autore di uno dei libri più letti al mondo Il Nome della Rosa. L’illustre intellettuale nel corso delle sue interviste non mancava mai di rammentare che L’umorismo uccide la paura e Il riso è la medicina adatta per salvarsi dalla disperazione. Nel periodo invernale il posto ideale per godersi l’affetto familiare era stare seduti accanto al focolare, dove l’individui avevano modo di percepire la loro posizione privilegiata (lògos universale = conoscere se stessi per essere uomo) che assumevano nel mondo della natura e della famiglia.

    Il focolare domestico, oltre ad essere una fonte di calore, costituiva una fucina di cultura e di buoni propositi. Seduti accanto al baluginare delle fiamme del focolare domestico, i nonni solevano raccontare i fatti salienti della loro vita sognando miti e leggende: e la realtà senza sogni non mostra il lato nascosto delle cose, quello che le fa vere oltre alla stessa apparenza. Gli illuministi francesi asserivano che ciò che è naturale è più genuino di ciò che è il risultato dei processi di acculturazione. Il nostro ragionamento si muove nell’ambito della stimolazione dei sensi e della capacità riflessiva dell’uomo, impegnato nella ricerca della verità insita nel rapporto uomo/natura. Il primo uomo al mondo a riflettere sull’uomo e incitarlo ad abbandonare la via dell’opinione e seguire quella della verità, fu il filosofo ontologico Parmenide.

    L’illustre pensatore asseriva che l’essere e il pensare coincidono, nel senso che del nulla non c’è pensiero, e ciò di cui c’è pensiero è necessariamente essere. Tra i pochi scritti rinvenuti del filosofo, c’è l’aforisma. L’essere esiste e non può non esistere, il non essere non esiste e non può esistere. Preposizione questa che può apparire a tutta prima una frase banale, invece riassume un processo di pensiero che aveva raggiunto un’altezza speculativa mai toccata prima, di un inesorabile rigore logico, a cui lo stesso Platone guardò con ammirazione, definendo Parmenide: Padre venerando e terribile. Da quel momento storico, la mente umana ha sempre più intensificato la propria attenzione sulla centralità universale dell’unica creatura al mondo dotata di raziocinio, memoria, senso e riflessione critica. Tale profonda riflessione può definirsi la prima espressione di narcisismo auto contemplativo dell’uomo.

    Ancora oggi l’uomo esprime la sua innata volontà di esaltare sé stesso. Non a caso la gioventù moderna ama frequentare locali come le discoteche e i ritrovi da competizione, dove appunto è consentito loro di mostrarsi in prima persona sotto lo sguardo attento di tutti.

    Le feste carnascialesche un tempo procuravano analogo effetto sui nostri antenati i quali amavano tuffarsi nella kermesse con l’entusiasmo di esibirsi in veste di protagonisti. Negli anni Cinquanta nel contado di Parete (Caserta) si svolgeva la tragedia di Zoza, personaggio estrapolato dalla prima novella introduttiva del Pentamerone di Giambattista Basile, noto anche col pseudonimo di Gian Alessio Abbattutis. In ogni ricorrenza festiva, adulti e ragazzi non sapevano da dove iniziare per esternare la loro voglia di vivere. Un vezzo di tutti era quello di salire sulla cassa armonica eretta per ospitare le bande musicali, dove tutti volevano provare l’emozione di sentirsi un personaggio dello spettacolo. La festa, si sa, ha il pregio di addolcire l’animo e spronare la fantasia della gente che, come un sortilegio, diventa più tollerante, più socievole e soprattutto diventa più loquace ed ilare in sintonia con l’atmosfera gioiosa e spensierata della festa. Nella terra napoletana, che fu del grande Giambattista Basile, non poteva dunque non attecchire il racconto popolare impregnato di sottile ironia e sagace umorismo.

    Profondo conoscitore dei comportamenti umani, il Basile nella sua opera magna Lo cunto de li cunti overo lo trattenimento de peccerille o Pentamerone e in particolare nelle nove egloghe intitolate alle Muse napoletane, parte da un’osservazione attenta e ben salda della realtà e riesce a penetrare nell’animo umano con meticolosa, geniale maestria tanto da fornire ai suoi scritti un valore universale. A nostro modesto avviso, il Basile può definirsi il precursore del realismo condito da una sapiente vena umoristica. Per il Basile, l’atteggiamento umoristico, utilizzato per approfondire tematiche complesse, diventa la condizione preliminare per lo studio dell’individuo e delle sue passioni, e rappresenta il prolegomeno ad una psicologia che conduce alla letteratura.

    Della medesima scuola di pensiero, nonostante le diversità d’epoche, faceva parte il maestro cantastorie, poeta Eugenio Pragliola. Il Mattino di Napoli, il giornale più diffuso del Meridione, gli dedicò un’intera pagina letteraria definendolo uno dei più grandi giullari del secolo scorso.

    Dalle vene profondamente poetiche del cantastorie, sgorgava un’analisi attenta e profonda dei sentimenti umani che lui soleva raccontare con sagace ironia. Don Eugenio aveva l’abilità di cogliere i cambiamenti in atto nella società e farne fonte ispiratrice dei suoi canti popolari: era il vate del cambiamento.

    Erano tempi in cui intorno a tali simpatici, arguti personaggi si radunavano a forma teatrale gruppi di persone per ascoltare le loro narrazioni accompagnate dalle note musicali di un mandolino. Soprattutto nella metà del Novecento, nelle piazze e nelle strade più trafficate dei centri urbani, c’era sempre un cantastorie il quale intratteneva la gente narrando vicende umane sempre allietate da note musicali.

    Nell’hinterland napoletano è rimasta ancora oggi la propensione a narrare fatti e aneddoti conditi d’umorismo, ironia e talvolta anche con sarcasmo. I cantastorie più noti che hanno calcato il palcoscenico del Teatro estemporaneo di Parete, rispondono ai nomi di Bernardo Sangiuliano, Nicola Pezone, Vincenzo Zoppo, Francesco Torellini, e Paolo Sangiuliano ormai passati a miglior vita, i quali sono i veri memorialista di tante storie vere, raccontate con briosa, arguta ironia ed umorismo.

    Sono essi i rappresentanti di un tratto di storia di vita paesana immersa nella Civiltà classica contadina. Con il presente lavoro letterario ho inteso narrare le tante storie popolari in veste di deuteragonista, esaltandone il senso umoristico in ossequio allo spirito giornalistico che mira a narrare fatti misti di letteratura e scienza in stile diaristico, rispettando rigorosamente l’obiettività e la storicità dei fatti narrati.

    Lo scrittore Cesare Pavese considerava i racconti (cioè la narrativa) non come descrizione, ma come giudizi fantastici della realtà. I racconti narrati in questo libro non sono invenzioni poetiche, ma verità storiche, che evocano personaggi, usi, costumi, tradizioni di un paese che, ancora scosso dagli eventi bellici, s’avviava ad assaporare la libertà con uno spirito ameno, nonostante lo strascico ancora vivo delle sofferenze.

    I racconti riportati nel libro vedono come protagonisti i vecchi saggi, i quali raccontano il loro vissuto avendo cura d’iniettare nella descrizione particolareggiata un filosofare ironico e umoristico, finalizzato appunto a strappare un sorriso alle persone ancora scosse dalle ferite aperte della guerra e della povertà. Essi sono ben consci che il riso è pienezza di vita, fa ritornare agli amori infantili, coglie le verità elementari dell’esistenza arricchendo il corpo e lo spirito: narrano le triste realtà con il sorriso sulle labbra. Il presente lavoro letterario è dedicato precipuamente alle classi subalterne, alla piccola borghesia e al proletariato, spesse emarginate dal dominio elitario della letteratura.

    Sui fatti narrati si potrebbe dire di tutto e il contrario di tutto, ma mai a considerare che essi non rappresentino una fonte di memoria e d’insegnamento per le generazioni future: Chi non ha memoria non ha storia, né un presente né un futuro.

    Nell’evocare i ricordi del passato non ho resistito al richiamo della nostalgia, che discende dal seno stesso della vita umana. Appellandomi a tale straordinario sentimento, ho tentato di recuperare il fascino dei tempi andati. Ho guardato indietro non nel senso di arretrare, come una prevalente corrente di pensiero ha cercato di sostenere fino a qualche anno fa, ma al precipuo scopo di evocare i principi morali ed etici dei nostri predecessori, i quali meritano rispetto e ammirazione. Credo che la nostalgia sia un sentimento forte, forse più dell’amore stesso, che contribuisca a rafforzare i valori della cultura umanistica. Sono consapevole che non si può ricostruire il mondo che è stato, tuttavia, grazie alla nostalgia si possono rivivere i sentimenti, le emozioni, gli umori, percepire gli odori e gustare finanche i sapori indimenticabili delle squisite pietanze preparate con cura e amore dalle nostre nonne.

    Solo così possiamo essere stimolati a rendere il futuro migliore.

    L’accostamento tra antico e moderno non provoca mai fratture, ma sottende piuttosto l’idea di non considerare il passato solo e soltanto come un’espressione museale, bensì come stimolo per la creatività contemporanea. In particolare la nostalgia va intesa come forza evocativa dei momenti più lieti della nostra esistenza; essa ci conduce alla sancta sanctorum dello spirito, in quella zona profonda definita dai Francesi le point vierge, il punto vergine, ove essa si conserva intatta.

    La nostalgia è una proiezione verso un deposito vitale nascosto, che esige e attende di essere sviluppato in avanti.

    Detto in termini più espliciti, ogni nostalgia s’impone al presente carica di passato, ma si apre alla profezia. Essa diventa, perciò, motivo di progetto per un futuro più umano, segnato appunto dalle cose belle vissute, fonte di tenerezza. Un futuro, quindi, più autenticamente bello rispetto al presente.

    Il messaggio profetico dostoevskijano della bellezza che salverà il mondo, dev’essere accolto come urgente motivo per scalare i diversi gradini per arrivarci, che sono la bellezza dei corpi e quella degli spiriti, nel loro dispiegarsi indefinito di attitudini estetiche, scientifiche, sociali, creative e simboliche, che portano alla conquista della virtù, la quale si identifica con la storia dell’etica e delle dottrine morali.

    Socrate pose il problema della virtù e della possibilità di apprenderla, cioè del suo carattere, pratico e gnoseologico: e lo risolse nel senso della netta dipendenza della virtù dal sapere, onde la conoscenza è momento intrinseco della stessa volontà. Una società che dimentica i Maestri di virtù del passato, è destinata a non avere né un presente né un futuro.

    Per essere moderni bisogna sempre rifarsi ai classici antichi.

    Scrivendo questo libro mi sono divertito un mondo e spero che lo siano altrettanto anche i fortunati lettori.

    L’autore

    Risonanze simboliche:

    tra poesia, filosofia e vita nel sud d'Italia

    Pasquale Torellini, in queste pagine, non vuole tanto evocare l’opera di Giambattista Basile, il grande letterato di epoca barocca, che per primo portò la fiaba letteraria a genere raffinato. Rispetto al suo grande predecessore, egli intende proporre qualcosa di diverso, insieme legato al racconto e alla lingua popolare, ma anche aperto a una visione generale dell’esistenza. Poesia e filosofia, insomma. Non si tratta del solo raccontare, peraltro avvincente e pieno di arguzia, in una trama di personaggi insieme concreti e tipizzati, quasi maschere della quotidianità meridionale.

    Nel corso di questi settanta racconti, mentre si favoleggia della venditrice della fortuna e dell’azzeccagarbugli, del cacciatore e del fattore, del buontempone e della massaia…, si offre insieme l’affresco realistico di un’intera popolazione meridionale, delle sue manie e dei suoi scherzi, della sua ordinarietà serena che, particolarmente a tavola o negli incontri tra amici, manifesta al meglio la propria natura solare e rinvia al senso complessivo di una cultura e di un modo di stare al mondo. In questo senso, ogni parola scritta diviene davanti al lettore come un simbolo.

    Grazie alla sua potenzialità, ogni simbolo è in grado di riunificare mondi e sensi distanti; è capace di far cose con le parole (proprietà performativa del simbolo"; è capace di elevare e trasformare il soggetto nel suo contesto vitale (proprietà perlocutiva del simbolo).

    Simbolo è, insomma, veicolo linguistico e iconico verso un mondo altro che, in esso e per esso, si fa presente e accade mediante la medesima parola simbolica (potenzialità ontologica e metafisica del simbolo). Perciò, di fronte alla fusione, mai confusione, tra poesia e pensiero, di fronte ad una scrittura simbolica, come cerca di proporsi quella di Torellini, non è mai sufficiente una ragione argomentativa, deduttiva o induttiva, che sia. Al simbolo, infatti, piuttosto che una ragione che spezza e divide (ragione diabolica piuttosto che simbolica); piuttosto che l’immaginario ed il fantastico, piuttosto che l’onirico ed il razionale argomentato, sa meglio accedere un conoscere per natura complesso e caotico. Si tratta dello immaginale, ovvero di quel tipo particolare del conoscere umano che è in grado di mettere pienamente in luce la funzione immaginativa della parola, del linguaggio, dell’allusione e del rinvio, quindi pure di ogni mito e di ogni rito, di ogni vicenda e di ogni evento, di ogni aspetto di ognuno di questi settanta racconti.

    L’immaginale deve fungere, insomma, da vero mondo intermedio tra la sfera delle percezioni sensibili e quella della pura spiritualità superiore. Si comporta da soglia che dà completa ragione del simbolico, perché è confine sul quale si confrontano, si fondono e si distinguono, esperienze sensoriali, olfattive e tattili, oltre che visive e acustiche, insieme con elementi impercettibili, interminabili, forse perché risalenti sempre all’a-ragionevole e all’inconscio, agli archetipi popolari e al passato forse consegnato alle pietre oltre ai geni dei viventi, all’a-logico che non è mai illogico e irrazionale, pur dicendo in maniera altra il senso vero. Fotografia di un reale che fu e che, insieme, ambirebbe esserlo di nuovo almeno nell’immaginazione di chi oggi ne sente il racconto.

    Torellini dal canto suo, si dichiara convinto che quello che diverrà il verismo contemporaneo abbia il suo retroterra moderno nella rappresentazione della tragedia di Zoza, un personaggio estrapolato appunto dal Pentamerone del Basile, oppure nel tramandare - come si fa ancora oggi nella tradizione del popolo a Parete e nel giuglianese - da bocca a orecchio il grande cunto de li cunti. Passare la parola agli altri, novellare nostalgicamente del tempo passato, infatti, serve non solo a raggiungere i monti incantati della parola e delle culture, ma anche a penetrare nell’animo umano con meticolosa e geniale maestria, soprattutto serve a far viaggiare ognuno sulla biga alata della memoria e della suggestione, per raggiungere mondi altri, però concreti e non fatati. Ciò che dal poeta e dal narratore è percepito nelle atmosfere dell’anima, genera, prima nelle orecchie e poi nel cuore dell’ascoltatore, gli echi sensibili di un mondo altro, quelli che dettano ma provenendo da ieri e dal futuro, per esempio dalle voci delle esperienze umane di passione e di caos, di attrazione e di desiderio, di gioco e di sorriso, d’ironia e di pianto, di voglia di perdersi e quasi di annientarsi nell’altro e, insieme, di ritrovare pur sempre in sé nell’altra metà originaria.

    Sulla scia del Basile e dei giullari epigoni di Eugenio Pragliola, come i cantastorie, che sostavano nelle piazze della Campania Felix per cantar novelle al suon di mandolini e chitarre, i don Bernardo, don Nicola, don Vincenzo, don Francesco, don Paolo, ed ora Pasquale… del libro, fungono da altrettante voci che sollecitano la mente immaginale. Sono altrettanti memorialisti della civiltà contadina, la quale domanda di rivivere attraverso i racconti, sempre veri e sempre di nuovo inventati, trama di un unico libro che viene riscritto da vecchi e nuovi ioculares, da coloro che hanno già visto (o hanno creduto di vedere) coi propri occhi e insegnano ai più giovani a far vedere. E il tutto adesso cresce e si precisa, come appunto questa raccolta di Torellini, negli apporti orali recuperati leggendo sempre da capo la stesura precedente. In questo senso, davvero tutti i racconti riportati nel libro costituiscono un continuum narrativo, il cui denominatore comune è la filosofia popolare, ovvero le continue vibrazioni del cuore meridionale nel difficile periodo postbellico, allorché il terrore delle bombe e della distruzione si esorcizzava non soltanto riparandosi nei rifugi, nei luoghi ritenuti più sicuri, ma anche non disperandosi alla malasorte e reagendo iniettando un po’ di umorismo nella vita quotidiana domestica e cittadina. In tal modo, mentre si ascolta o si legge la favola, ci si accorge d’avvero che fabula de te narratur. Davvero, insomma, o mythos delòi, la favola insegna che…In ogni personaggio o evento c’è sempre un pezzo di noi, una tranches di vie che il narratore, quasi cameriere del nostro pasto intellettuale, ha tagliato come da una torta, per farcene assaporare un pezzo in grado di generare consapevolezza, d’insegnar qualcosa, di parlare ancora di noi e del nostro essere persone, del senso perduto del nostro favoleggiare, di quando gli dei abitavano in cucina.

    Da qui anche le apparenti digressioni del racconto di Torellini, che a volte prende le vie delle riflessioni filosofiche, come quando tesse elegantemente l’elogio della nostalgia, quel sentimento forte che fa rimpiangere, anzi desiderare più fortemente i valori della cultura umanistica, per viverne, se non proprio i fatti, almeno gli umori, le emozioni, gli odori e i sapori. Non si tratta di laudatio lacrimevole del tempo irrimediabilmente trascorso. La nostalgia di queste pagine pretende qualcosa di più. è difesa dell’eredità culturale, di cui occorre sempre da capo individuare i sintomi di crisi e di risveglio.

    Del resto, Maria Zambrano, una delle esponenti più espressive del pensiero femminile poetico e filosofico della Spagna del Novecento - allieva di Ortega y Gasset e di Zubiri, interprete considerevole del pensiero di Unamuno e della poesia di Machado, non ci sollecitava forse a vivere tra nostalgia e speranza? Ora, per farlo, non basta speculare e teorizzare, o elaborare un sapere che risponda agli interrogativi della ragione. Occorre anche favoleggiare e narrare per soddisfare le ragioni del cuore, quel pizzico di nostalgia che improvvisamente si mostra come senso del mondo.

    Certo, per accettare l’invito si tratta, in qualche modo, di risorgere dalle ceneri, di ritrovare tra le macerie delle due guerre mondiali e delle torri gemelle, della Shoà e dei Gulag, quel che resta delle grandi narrazioni, spiazzate impietosamente via da quella critica radicale rivolta sistematicamente alle grandi nozioni di ragione, di progresso, di umanità, di classe, di nazione, di scienza, operata dalla decostruzione antimetafisica della seconda metà del Novecento.

    Davvero non ci sarà più nulla di credibile, come ci hanno ripetuto alcuni grandi Maestri del pensiero? Davvero non esiste una speranza che ci possa salvare, neppure un Dio che decida di accadere nel nostro quadrante del mondo? Le pagine di Torellini sembrano dirci che non tutto è compromesso. Come già ricordava il Liside del filosofo ateniese Platone, il desiderio umano è sempre ricerca di qualcosa che manca a chi desidera, perché quel qualcosa gli è stato sottratto o portato via, ed è perciò causa o fondamento dell’attrazione verso l’oggetto un tempo posseduto, poi accidentalmente perduto, ma in prospettiva promesso al ritrovamento della nostalgia.

    Nella trasmissione del proprio patrimonio spirituale e culturale ogni generazione ha un compito di straordinaria importanza e delicatezza, che costituisce un vero e proprio esercizio di speranze. A chi, come Torellini contribuisce a questo ritrovamento va riconosciuto il merito primario della trasmissione dei valori fondamentali. Se il diffuso clima di sfiducia nei confronti dell’educazione rende ancor più necessaria e preziosa l’opera formativa, le pagine di questi racconti rappresentano una vera chiamata ad interagire. Ed ecco l’indovina girovaga, bellissima e mulatta, di Torellini torna di nuovo a girare per i paesi, per vendere i presagi della fortuna con l’ausilio di un canarino. Lei non ci sorprende più, però, per i tanti particolari azzeccati e perfettamente rispondenti alla realtà dei fatti, ma solo per le sue forme e la sua bellezza che rinviano a qualcosa di cui abbiamo perduto il sapore(ma non irrimediabilmente, sembra ribadire l’Autore). Se c’è ancora un vino di qualità, vino per la messa, e un vino scadente, un vino per i fessi, non ritornino soltanto gli odori e il gusto della falanghina, del montepulciano, del barbera e del trebbiano. Ritorni, piuttosto, il vin d’oro, quell’asprino dal tipico colore aureo paglierino e dall’esclusivo sapore acre-frizzantino, che i Romani apprezzavano nelle località di Cuma, Pozzuoli, Sorrento e in tante altre amene località delle coste campane. Ma noi, i nuovi don Ciccio, siamo chiamati ad un nuovo impegno, quello di scoprire dove effettivamente sia stato sistemato il caratello del prezioso liquido, per abbeverarci e abbeverarne le giovani generazioni. Certo, sembra dire Torellini, gli esponenti dell’ultima generazione non mostrano più la vivacità e l’humour di quei sessantottini di Parete che decisero di fondare il Circolo Rinnovatori e Progressisti. Ma il racconto ricorda come perfino l’avvocato Raffaele Tamburrino, patrocinante in Cassazione, un vero e proprio serbatoio naturale inesauribile, non è da solo sufficiente per invertire la tendenza e generare un nuovo tessuto sociale e politico. Se il microfono non si deve spegnere al momento giusto impedendo di parlare anche al più grande oratore, bisogna dare spazio alle piccole-grandi cose, a quelle apparentemente secondarie che fanno andare lungo i sentieri del non ancora detto e del non ancora realizzato. Quelle che danno sale al cibo e sapori alla vita.

    Pasquale Giustiniani

    Ordinario in scienze filosofiche e neotomismo

    nella Sezione San Tommaso d’Acquino della Pontificia Facoltà di teologia in Napoli.

    Tra realismo e ironia:

    la vita meridionale nei racconti di Torellini

    Nel presentare i racconti di Pasquale Torellini, non ebbi dubbi nel collocarne il genere nell’ambito della letteratura oggettiva, realistica, documentaria, quella che ha trovato in Ferdinando Russo un grande poeta e in Matilde Serao una efficace narratrice. Come costei anche il Torellini è partito da esperienze giornalistiche e il linguaggio discorsivo ne fa testo. Tra i vari processi linguistici il nostro Torellini ha scelto quello manzoniano e, più marcatamente, verghiano, che consiste nella capacità del narratore di abbassare il livello linguistico e adeguarlo alla gente che ritrae.

    La prosa di Pasquale Torellini non è dialettale, la materia sì. Nell’intento di ritrarre don Bernardo, don Nicola, don Ciccio, personaggi realmente esistiti i quali raccontano con brio dialettale le loro vicende umane trasfigurandole e dipingendole in modo fiabesco, Torellini è indotto a seguire le parole di questi efficaci narratori per poi tradurle in lingua, la quale se perdesse le inflessioni dialettali, perderebbe la sua efficace. Ecco allora la lingua del Torellini: non è letteraria se non a sprazzi perché non tratta di letteratura, ma è lingua documentaria, mista di espressioni e venature dialettali.

    Non tralasciamo il rilievo importante menzionato in una recensione di qualche anno addietro in cui sottolineavo la bonaria ironia del Torellini, che ama i suoi personaggi, o, almeno non li odia di certo. Chi ritenesse che l’Autore voglia mettere in ridicolo i propri personaggi, sbaglierebbe di grosso. I personaggi di un’opera sono amati dall’autore, sono visti come proprie creature, perché, anche se desunti dalla realtà, vengono trasfigurati dalla fantasia dell’Autore stesso.

    Ciò premesso, non si può in alcun modo negare al Torellini il diritto di assumere talvolta il tono e l’atteggiamento del letterato, il quale si abbandona a belle descrizioni paesistiche o che fa sfoggio di conoscenze della nostra letteratura oggettiva e non priva di assunti drammatici, documentari, realistici. Che il Narratore abbia pretese di letterato si evince subito dal Proemio, ove tesse una sintesi che comprende grandi e piccoli nomi, autori celebri ed autori da scoprire, per rilevare poi la funzione trasfigurativa dei personaggi ritratti nelle opere narrative nostre e in questa sua, dove don Bernardo, don Nicola, don Vincenzo, don Ciccio ed altri personaggi vengono esaltati nelle loro risorse umoristiche ed inquadrati in un’opera compresa tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta.

    C’è una notevole varietà di personaggi nei racconti di Torellini: dagli arguti motteggiatori o tipi intelligenti, capaci di attrarre con la loro innata vis comica l’attenzione degli ascoltatori. Per questo bisogna riconoscere al Torellini la capacità di ritrarre sia il culto dell’intelligenza, della furbizia, dell’astuzia, sia quella della stoltezza umana. I personaggi più ricchi di verve comica sono don Bernardo e don Nicola; tra i più fantasiosi don Ciccio e tra i romantici è don Vincenzo. I racconti sono caratterizzati dai seguenti motivi: il gusto descrittivo del paesaggio e del piccolo ambiente, l’umorismo, l’ironia, la satira, il diversivo comico. Due figure dominano le altre circa il gusto del ritratto: la bella girovaga indovina, la quale con il suo pappagallino e con la sua gonna ampia, che le rende più agili i movimenti, entra nel salone di don Vincenzo e gli presta un servizio utilissimo; l’avvocato Tamburrino il quale scende nell’agone politico schierandosi alla testa di un gruppo di giovani militanti di un movimento politico locale con il simbolo della Bilancia, promettendo una sicura vittoria nelle imminenti elezioni amministrative, pronunciando un solo comizio rivoluzionario nella serata conclusiva della campagna elettorale.

    Essendo un grande oratore, l’avvocato è anche un grande trascinatore di popolo, tant’è che nei pochi giorni della sua entrata in politica, riesce a galvanizzare un nutrito schieramento di cittadini i quali attendono con spasmodica attesa il suo unico e rivoluzionario comizio. Finalmente arriva la serata conclusiva della campagna elettorale e, mai a crederci, l’estrazione a sorte sancisce che l’avvocato dovrà tenere il suo comizio per ultimo.

    Nella piazza antistante la balconata dove dovrà esibirsi il candidato a sindaco di Parete l’avvocato Raffaele Tamburrino, ormai è gremita di gente che attende con ansia di ascoltare le parole dell’illustre oratore. Sfortuna volle che nel momento che si avvicina al microfono lo stimatissimo oratore, l’avvocato patrocinante in Cassazione, poggia inavvertitamente un piede sulla base del piedistallo che sorreggeva l’asticella del microfono, il quale ribaltandosi finisce inesorabilmente sul suo naso da cui cominciano a fuoriuscire piccole gocce di sangue.

    Il gusto del ritratto si può rilevare anche in certe situazioni psicologiche intrise d’ilarità. All’ombra della Torre del Lago di Patria perviene un gruppo di amici tra cui don Ciccio, donna Concetta e il medico don Salvatore. Seduti sulle dune di sabbia formatesi nel tempo a ridosso del vecchio maniero (L’antica Torre non dista molto dal mare) gli amici si accingono a pranzare quando don Ciccio emette un rumore (una scorreggia) che non doveva emettere e smuove la sabbia che non doveva smuovere perché salta e finisce nel piatto di donna Concetta, la quale scoppia in una risata irrefrenabile. Don Salvatore il dottore, sa che la risata di donna Concetta può essere repressa soltanto dietro la somministrazione di farmaci, che la Signora ha dimenticato a casa, per cui ordina di porre fine alla scampagnata e fare presto ritorno a Parete.

    Il gusto descrittivo del paesaggio trova espressioni non più popolari ma letterarie e poetiche. Il paesaggio esercita la sua funzione mediatrice sui personaggi: il cielo azzurro e la natura fiorita preannunciano l’arrivo di un gruppo di persone in festa; il paesaggio lugubre, vespertino fa da triste scenario ad un gruppo di giovani che hanno paura di recarsi nottetempo al cimitero; oppure ad un ragazzo che si reca su un terreno privato, al Capoaversa, a fare il suo bisognino con la paura di essere sorpreso e picchiato dal proprietario.

    Non mancano, anzi sono frequenti le situazioni o gli scenari esilaranti. L’umorismo sfiora la satira. Luigi uno studente fantasioso s’inventa una tecnica come lavare il suo maiale: lo lega con quattro cappi alle gambe e lo immerge nella cisterna di casa. Il protagonista viene definito, con ilarità, il filosofo e la sua sciocca operazione colpo di genio.

    Anche la burla ha i suoi effetti esilaranti. Don Nicola, emerito falegname, costruisce volontariamente un porcile privo di uscio per provocare la reazione del proprietario del maiale. Schietto umorismo suscita il racconto del Vespasiano mobile dove il protagonista è proprio don Bernardo, il narratore. Non mancano i furfanti, come il sensale che compra una mucca vecchia e la rivende truccata al medesimo padrone che, zuccone qual è, non reagisce e non prova rancore neanche quando scopre il tranello in cui è cascato.

    È innegabile che i racconti del Torellini lasciano una suggestione nel lettore sia quando trattano un’avventura allegra, una vicenda comica, sia quando ritraggono scene ributtanti o di ribrezzo. Spesso il protagonista del racconto è proprio il personaggio che narra: don Bernardo, don Nicola, don Vincenzo, don Ciccio. A tratto fa capolino la nota moralistica. Nel racconto dal titolo Criticata la critica del critico d’arte, l’Autore spazia dal rilievo politico a quello artistico per dimostrare l’incongruenza di chi professa una teoria, ma si contraddice nei fatti, e ammonisce che bisogna ponderare i giudizi prima di agire.

    Prof. Vincenzo Palmiero

    docente di latino e storia

    presso il Liceo classico Domenico Cirillo di Aversa

    Tradizione e modernità:

    l'eredità culturale nei racconti di Torellini

    All’autore Pasquale Torellini, che trae ispirazione, per i suoi 70 racconti del Poema di letteratura popolare amena, dal Pentamerone del grande letterato Giambattista Basile, va riconosciuto il merito di offrire testimonianza del passato della propria comunità in cui si rispettavano i valori veri della vita: l’onore, lo spirito d’appartenenza, la condivisione, la solidarietà, la fedeltà, l’umiltà, l’allegria. Pasquale Torellini con l’humour che lo caratterizza, sano e moderato, crea quadretti di vita quotidiana del dopoguerra.

    Lo sfondo rispetta la realtà, i personaggi sono realmente esistiti. Significativi sono alcuni racconti, che mostrano il modus vivendi, gli usi e i costumi della società passata.

    Tra essi è d’annoverare Il falco intelligente, ove si portano alla luce i giochi utilizzati in quel periodo: il gioco del nascondino, dell’addomesticamento dei volatili, quali appunto il falco, dello strummolo, ossia la piccola trottola, del ceffone, (che consisteva nel fatto che uno della comitiva di amici sferrava un ceffone al un altro girato di spalle, il quale doveva individuare chi ne fosse stato l’esecutore), il gioco del sottomuro, praticato con le monetine.

    Oggigiorno i giovani e gli adolescenti non conoscono per nulla tali giochi divertenti e poco costosi; viviamo in un’epoca in cui il passatempo preferito è legato all’utilizzo dello smartphone e dei social; pertanto il testo risulta una preziosa testimonianza dell’amenità di un tempo che fu. Particolarmente esilarante risulta senz’altro il racconto della gita al mare di una comunità di amici, interrotta dalla contagiosa ed inarrestabile risata della signora Concetta Sabatino, per cui anche la scampagnata dovette interrompersi compreso il desinare del ricco pranzo ben preparato.

    La scrosciante risata, scaturita dalla sabbia sollevata dalla scorreggia del cuoco don Ciccio e finita nel piatto di spaghetti di donna Concetta, si calmò solo quando la comitiva fece ritorno a Parete, dove la signora poté ingoiare la pillola calmante che s’era dimenticata di portarsela in gita. Curiosa è la storiella riguardante il munaciello, presunto ospite abituale del Palazzo Ducale.

    Il racconto di tale personaggio frutto della fantasia, veniva in realtà utilizzato quale escamotage dai proprietari per allontanare dal Palazzo i numerosi ragazzi curiosi e avventurosi che ivi si davano appuntamento spesso e volentieri per giocare.

    Interessante, oltre che esilarante, risulta il racconto Esiste il vino per la messa e quello per i fessi.

    Si rilevano qui notizie valide sulla trazione del vino asprino, definito vin d’oro per il colore paglierino e dal gusto acre-frizzantino, assai utile alla digestione. Le viti, ora alquanto rare, crescevano ad un’altezza di almeno 15 metri, così da poter godere un’ottima ventilazione esposte al sole. Pertanto durante la vendemmia, per raccogliere i grappoli d’uva gli agricoltori ricorrevano all’utilizzo di scaletti alti e con pioli stretti, in cima ai quali per esorcizzare il pericolo delle vertigini, cantavano a squarciagola canzoni napoletane. Indi si effettuava la folkloristica pigiatura dei grappoli in speciali truogoli a piedi scalzi.

    Il mosto ricavato si lasciava fermentare in enormi botti, collocate in cantine scavate nel tufo grigio ove la temperatura era costante in tutto l’anno. Poiché durante il periodo della fermentazione alcoolica nella cantina ristagnavano gas nocivi, si doveva essere molto attenti a far arieggiare l’ambiente perché si correva il rischio di rimetterci la vita.

    Anche questo racconto dal titolo C’è il vino per la messa e quello per i fessi, contiene aspetti umoristici: infatti i protagonisti Ciccillo ‘u ‘ngignere alias Francesco Torellini e l’amico Nicola Costumato si prendevano beffa del parroco don Carmine Dell’Aversana, che aveva chiesto loro di riparare un guasto all’impianto elettrico della sua biblioteca. I due, avendo scoperto nell’ambiente un caratello pieno di buon vino e intuendo che non poteva altro che essere il famoso vino che serviva per la celebrazione della santa messa, trovarono lo stratagemma per svuotarlo di giorno in giorno, servendosi di un cavetto elettrico che fungeva da cannuccia.

    Un ulteriore tema toccante trattato in questo testo, è quello relativo alle ristrettezze economiche delle nostre famiglie nel dopoguerra: le madri aguzzavano l’ingegno per dar da sfamare e accudire i loro figli.

    Per esempio non avendo latte a sufficienza aggiungevano acqua per riempire tutte le ciotole dei suoi spesso numerosi figli; aggiungevano caglio al latte per ricavarne una ricotta appagante e assai nutriente, da spalmare su fette di pane, il quale veniva prodotto in casa dalle mamme con l’aggiunta del lievito noto col nome u criscito che veniva cotto nei tradizionali forni di legna di casa. Le fette di pane, sulle quali veniva spalmato la finissima ricotta e la marmellata sempre prodotta in casa, era considerato il non plus ultra delle colazioni per la loro bontà nutrizionali.

    Ogni azione, anche e soprattutto la più semplice, era accompagnata dalla gioia della condivisione, dal forte senso reciproco. In ogni racconto si denota la capacità

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