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Il sigillo
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E-book366 pagine5 ore

Il sigillo

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Info su questo ebook

Può un sogno cambiare la vita di una persona? Un semplice sogno che stravolge per sempre la normale esistenza di Adele, una ragazza di sedici anni. Il sogno prima e l’incontro con un professore poi la catapultano in un mondo popolato da creature soprannaturali, crudeli assassini pronti a uccidere chiunque impedirà loro di spezzare il Sigillo e sciogliere il vincolo che suggella la pace e l’armonia dei due mondi. Umani e ultraterreni. Mentre la vita nella piccola cittadina montana scorre tranquilla, nel mondo parallelo succede il caos. Ed è in questo caos che Adele scopre la sua vera identità. È colei che può fermare questo massacro, è l’eletta, ma non è sola. La dinastia Krathers è risorta dalle ceneri. Gli eredi sono pronti, riusciranno a fermare le forze oscure in questa guerra sempre più agguerrita?
LinguaItaliano
Data di uscita17 mag 2019
ISBN9788831618274
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    Anteprima del libro

    Il sigillo - Irene Lo Vetro

    633/1941.

    I

      …Una bambina correva nel bosco ridendo. 

      Mi chiamava… rideva…, non riuscivo a vederla bene ma lei chiamava proprio me. Aveva quella particolare cadenza nella voce simile a Erika, correva veloce tra gli alberi, non riuscivo a starle dietro. Adele, Adele, vieni, corri …. Dai Adele sbrigati…. Sono qui…

      Dovevo vedere chi era, non poteva essere Erika era troppo piccola… eppure quella voce…

      Correvo. Correvo veloce, ma lei sembrava che sgusciasse via. Sembrava che volasse lasciando dietro di sé una scia luminosa, là dove un attimo prima aveva posato i piedi nudi. Volevo raggiungerla… arrancavo con le gambe sempre più pesanti, la salita del sentiero sempre più stretto, sdrucciolevole, due, tre passi avanti e qualcuno indietro scivolando, ma continuavo a correre.

      La ritrovai un po' più avanti che mi aspettava, si era nascosta dietro un tronco, quando riuscii ad avvicinarmi, vidi una bambina magra con un lungo maglione bianco, scalza e immobile. Mi dava le spalle, il capo chino e le braccia abbandonate. Sembrava un fantoccio inanimato. Girò il viso verso di me e in quell’attimo sfuggente riuscii a vedere chi era… Nessuno… Non era… nessuno.

      Era una bambina sì … ma senza volto, una maschera bianca al posto della faccia, senza naso e senza bocca, c’erano solo due buchi verdi, da cui fuoriuscivano lampi luminosi. Poi si girò svelta e scomparve, volatilizzandosi.

    Troppo sbalordita ci misi un po' a reagire, a muovermi, ripresi a correre, volevo capire chi fosse quella strana creatura. Trafelata e sudata, ero piegata in due dal fiatone che mi spezzava il cuore… ma più correvo, più lei spariva.

      Ormai sentivo solo la sua risata innocente e subito dopo diabolica che si sperdeva tra la fitta vegetazione: cespugli fitti, rovi che sembravano funi, si intrecciavano ai miei piedi come artigli, mi strappavano la pelle, mi incatenavano a terra; ma io dovevo alzarmi, dovevo liberarmi, dovevo correre….

      Chi era, perché mi chiamava, cosa voleva da me.

      Sembrava così reale, io l’avevo vista, qui, davanti a me! E se invece avevo visto un fantasma? Dovevo scoprire chi fosse. Grondavo sudore, ogni goccia di sudore era una stilla di sangue che mi indeboliva sempre più. Dov’era… Dove ero io… perché ero là… Sola…!!

      Mi ritrovai al centro di una radura, girai in tondo, non c’era nessuno ma un macigno mi opprimeva lo stomaco. Panico, panico intenso, panico puro. PERCHÉÈ…?

    La sveglia suonò destandomi bruscamente in un bagno di sudore.

      Che strano sogno.

      Un sogno che con il senno del poi mi avrebbe cambiato la vita; un semplice sogno, premonitore seppi poi, che avrebbe messo un punto a quella che era stata la mia vita fino ad allora e andando a capo avrei iniziato un’altra vita, un’altra dimensione, un altro MONDO. 

    Ma andiamo in ordine con i fatti.

    La sveglia suonò! Bip... Bip... Bip…

    Quell’oggetto infernale cominciò il suo martellante bip...bip...bip... mi coprii la testa con il cuscino ma quel maledetto suono non mi dava tregua.  Bip... bip… bip... Con un gesto rabbioso schiacciai il tasto Snooze.

    Uff! Con un misto di sonnolenza e delusione per non poter riprendere quello strano sogno aprii gli occhi e con uno sbadiglio scostai di lato il piumone, mi alzai rabbrividendo in quella fredda mattina autunnale. Era la terza settimana di ottobre, ma quassù in montagna faceva già freddo. Aprii la finestra quel tanto che bastava per vedere che tempo ci fosse. Il cielo era terso, il sole già sorto e splendente faceva capolino tra le due creste montuose che si innalzavano sullo sfondo, creando un gioco di luci e colori che si riflettevano nei piccoli diamanti di rugiada disseminati sui prati e sugli alberi. Questo magnifico panorama che si vedeva dalla mia finestra oggi non riusciva a distrarmi e dopo che una folata di vento gelido mi colpì in piena faccia, chiusi svelta la finestra.

      Il getto dell’acqua calda mi svegliò definitivamente, ma non riuscì a scacciare quel sogno che non voleva uscire dalla mia mente, mi tenni occupata con tutti quei rassicuranti gesti mattutini come la doccia, i capelli da asciugare, la sosta prolungata davanti all’armadio con la perenne indecisione su cosa mettermi, ma quell’ombra mi bendava i pensieri, i gesti e persino l’umore. Mi infilai la mia divisa abituale, quei vecchi ma amatissimi jeans e la felpa grigio-verde, la stessa sfumatura dei miei occhi. La mamma avrebbe avuto da ridire, ma oggi avevo bisogno di normalità. Presi lo zaino, ci infilai le ultime cose e andai a svegliare mia sorella.

      «Ehi pigrona... perché dormi ancora? Non senti la sveglia che suona?» Voleva alzarsi da sola, impostava la sveglia, chiudeva la porta e poi puntualmente non la sentiva. Dormiva come un ghiro, totalmente beata e tranquilla, certa che la sua famiglia l’avrebbe chiamata in tempo. Ma oggi l’avrei svegliata a modo mio. Mi buttai addosso a lei e cominciai a farle il solletico.

      «Ma sei matta?» urlò non sapendo se arrabbiarsi o ridere, ma passato il momento di sorpresa si accanì su di me e ci ritrovammo a lottare, urlare e ridere per difenderci a vicenda. In un attimo mi ritrovai accaldata, spettinata e tutta sgualcita. Al diavolo la doccia e il tempo perso a mettermi in ordine, ma ci voleva proprio per scacciare quella coltre pesante che avevo nel petto.

      «Adele, Erika, la smettete di giocare? Farete tardi se continuate così!» La mamma entrò in camera e ci divise, ma con un segno di intesa la bloccammo e buttammo sul letto anche lei. Ridendo e urlando, con le lacrime agli occhi dal ridere, papà ci trovò così in un groviglio di gambe, braccia, coperte e lenzuola.

      «Ma cosa fate! Dai Marta, ti ci metti anche tu che vai sempre di corsa la mattina? Non è il momento di stare lì a giocare. È tardissimo. Se non vi preparate in due minuti, io me ne vado e vi arrangiate da sole» disse papà serio, anche se sotto sotto sorrideva divertito.

      Finalmente pronte lasciammo casa Riccardi. La prima a scendere era la mamma, all'ufficio postale del paese dove lavorava, poi era il nostro turno, il liceo scientifico V. Gramsci. Erika frequentava il primo anno e io il terzo.

      Quando arrivammo, c’erano pochissimi studenti in giro, erano già entrati quasi tutti. Entro pochi minuti sarebbe suonata la campanella e di corsa ci sbrigammo a salire le scale che ci portavano ai piani superiori vero fulcro scolastico, mentre il piano terra era occupato dalla direzione, dalla palestra e dalla biblioteca comunale.

    Erika si avviò per il corridoio del primo piano salutandomi appena, aveva visto le sue amiche ed era corsa da loro. Io continuai a salire per andare al terzo, stavo facendo i gradini due alla volta per sbrigarmi quando all’improvviso mi fermai, una stretta alla gola mi obbligò a prendere aria dalla bocca, mi spaventai. Feci dei lunghi respiri e cercai di rimanere calma. No! Adesso un attacco d’ansia proprio no. Mi imposi di non cedere al panico. Ricominciai a salire piano, un gradino alla volta, chiusi totalmente fuori dalla testa i cupi pensieri, non volendo darla vinta a quell’ombra oscura che mi portavo dietro sin da piccola. Continuai a salire a testa bassa, felice di vedere che i piedi ubbidivano alla testa, improvvisamente sentii uno spintone che dall’alto mi investì in pieno, alzai la testa appena in tempo per vedere una signora venirmi addosso, riuscii ad aggrapparmi alla ringhiera delle scale con una mano per non cadere, ma l’altra non riuscì a trattenere due libri e un piccolo plastico che caddero rovinosamente a terra. "Accidenti!!"

      «Ehi…attenta!» urlai, per il violento frontale, ma lei passò talmente veloce che non solo non mi sentì, ma ne uscì anche indenne e non fermò minimamente la sua corsa. E io riuscii a vedere solo i lunghi capelli scuri ricci e un giaccone rosso, poi veloce come un fulmine scomparve dalla mia vista. "Ma da dove sbuca questa pazza furiosa, possibile che non mi ha vista? Che cavolo!! Guarda che disastro! Razza di maleducata! Poteva chiedere scusa però".

      Ero arrabbiata, spaventata, stavo male e il plastico, dopo che ci avevo lavorato tanto, era rovinato.  Mi toccai la spalla e il braccio sinistro, aprii e chiusi il pugno, avevo sentito una scarica elettrica entrare dal braccio e attraversarmi tutta la spalla. Mi era venuta addosso come un camion, che botta! Ripresi a salire e solo allora mi accorsi che per le scale non avevo incontrato nessuno, solo quella donna, ma dov’erano finiti tutti, eppure la campanella non era ancora suonata, quindi non doveva essere tardi. Anche l’affanno e l’ansia, distratta dal contrattempo, parvero scomparsi e contenta mi affrettai a fare gli ultimi gradini della rampa. Sospirai di sollievo quando li vidi tutti nel corridoio, c’erano tutte e tre le sezioni la A, la B e la C, eravamo più di centottanta ragazzi, regnava una confusione pazzesca, una cacofonia di suoni, parole, risate. Eppure io qualche gradino più in basso non avevo udito nessuno. Perché! Passai davanti a tutti. Nessuno alzò lo sguardo per guardarmi, nessuno mi salutò, ero diventata invisibile? Ricevetti solo un paio di ciao frettolosi quando ero io che li salutavo, erano tutti impegnati a guardare il cellulare, scambiarsi video su Youtube, Facebook e WhatsApp, a parlare della partita di pallavolo di sabato prossimo. Ma che strano! O ero io la strana quel giorno? Attraversai tutto il corridoio e andai direttamente da Matteo e Rachele.

      I miei unici e grandi amici, almeno loro non mi avrebbero ignorata.

      Se ne stavano appoggiati alla porta della nostra aula circondati da tutta quella bolgia a chiacchierare tranquillamente.

    «Ciao Adele, appena in tempo, sta per suonare la campana.»

      Infatti subito dopo il suo suono interruppe tutto e tutti. Io e Matteo andammo a sederci al nostro banco e Rachele prese posto al suo dietro di noi. Erano anni che rispettavamo questo schema, precisamente tredici, da quando avevamo iniziato la materna insieme. Ricordo ancora adesso quel giorno, noi tre che entravamo per la prima volta a scuola tenendoci per mano con il sorriso sulle labbra mentre tutti gli altri bambini piangevano disperati.

      Le prime due ore passarono in un soffio, la prof. di Italiano, Anna Silvestri, era simpatica e brava e con lei il tempo volava.  Al cambio entrò la supplente di Matematica che sostituiva la nostra l'insegnante. Riconobbi la signora dello scontro per via della giacca rossa. Ora potevo vederla anche in faccia e devo dire che era di una bellezza particolare, i suoi capelli corvini spiccavano su la pelle bianco latte, gli occhi neri come carboni parevano entrarti dentro e scrutarti l’anima, sorrideva con una bella bocca carnosa e rossa, ma lo sguardo rimaneva serio e freddo. Alta, slanciata e muscolosa non aveva più di trenta o trentacinque anni.

    «Buongiorno ragazzi io sono la professoressa Lidia Pastari e da oggi sostituisco la vostra insegnante che come sapete è in maternità. Bene, quando leggo i vostri cognomi sul registro, voi vi alzate in piedi, in modo che lo possa associare ai vostri volti» disse con una voce cavernosa, roca a tratti sembrava addirittura da uomo. Ma quante storie! Non ci era mai capitato che un professore facesse tutta questa scena, bastava alzare la mano invece di fare quella manfrina.

      Partì dalla lettera A e a uno a uno vedevo i miei compagni alzarsi sull’attenti manco fosse un saluto militare.

      «Riccardi Adele.» Mi alzai in piedi, lei alzò gli occhi dal registro e l’incollò ai miei per quello che mi parve un secolo. Mi parve di vedere anche una impercettibile smorfia con la bocca, ma non disse nulla, io non riuscii a staccare i miei occhi dai suoi, provavo a distogliere lo sguardo ma non ci riuscivo, era come una calamita, per quanto ci provassi, non ci riuscivo. Aspettai di vedere se li abbassava lei ma niente, dopo un paio di secondi con uno sforzo lo feci io e mi sedetti anche se lei ancora mi guardava. Il mio cuore accelerò, sentivo i battiti veloci alla carotide, un dolore acuto allo stomaco e la vista che a tratti si appannava, finii per convincermi che forse ero veramente malata, qualche strana malattia stava per colpirmi.

      Dopo le presentazioni e i convenevoli iniziò una specie di lezione per capire diceva lei dove eravamo arrivati con il programma annuale; così cominciò con alcune domande ed esercizi presi dal libro arrivando piano piano al programma attuale, io però non riuscivo a capire perché mi guardava sempre. Cominciò anche a chiamarmi per nome ogni volta che c’era da risolvere un problema orale, mi chiedeva conferma di quello che dicevano i miei compagni, si accaniva su di me con quel suo modo di dire: Eh Adele… cosa ne pensi?

      Cosa voleva da me? Non avevo proprio la forza di rispondere, già facevo fatica a stare attenta, figuriamoci se dovevo parlare a tutta la classe. Forse voleva mettermi alla prova dopo aver visto i miei voti sul registro? Matematica era la mia materia preferita e modestamente andavo piuttosto bene. "Però oggi lasciami in pace".

      Alla fine dell’ora ci alzammo per consegnare gli esercizi fatti, prese il mio foglio guadandomi dritto negli occhi, le sue dita sfiorarono le mie, una scarica elettrica passò da lei a me e il foglio che era in mezzo cominciò a sfrigolare emanando un odore di carta bruciata, lo tirò a sé e cominciò ad agitarlo. Come se niente fosse, controllò gli esercizi, a uno a uno non saltandone nessuno. «No, no Adele è evidente che tu questo esercizio non lo hai capito, ora come compito fai questi qui e me li porti per domani» mi ordinò scrivendoli su un foglio volante strappato da un block notes. Non riuscii a replicare, troppo impietrita e sbalordita da quello che avevo visto e da come mi aveva trattata davanti a tutti.

    «Brutta strega!» mi sfogai appena uscita da scuola. «Ma chi ce l’ha mandata questa vipera. È chiaro che ce l’ha con me, ma che vuole. È appena arrivata ed è già così odiosa e antipatica, cominciamo bene.» Stavo urlando, lo sapevo bene ma ero troppo incavolata.

      Matteo, Rachele ed Erika mi guardavano senza dire niente. Forse stavano pensando che stavo esagerando ma solo io sapevo quello che era successo.

      Nera dalla rabbia salii sull'autobus che ci riportava a casa, pieno zeppo di gente come al solito all'ora di punta. Riuscimmo a entrare a forza di spintoni e a stiparci in un angolino, sopportammo quella sgradevole sensazione di sentirci stritolare perché sapevamo che da lì a poco si sarebbe svuotato, a mano a mano che gli altri ragazzi arrivavano a destinazione.

    Uff!! pensai. Quando ero nervosa mi urtava tutto e tutti. Chiusi gli occhi e cercai di pensare ad altro.

      «Ciao ragazzi, avete sentito la novità? Pare che avremo un istruttore nuovo in piscina.» Simone, compagno di classe e di nuoto, si avvicinò a noi mentre cercava di raggiungere la porta per scendere.

      «Chi è? Lo conosciamo?» chiese Matteo.

      «No non credo, dovrebbe essere uno nuovo, comunque lo vedremo presto. Ciao a dopo.» Detto questo scese alla fermata. Noi eravamo gli unici studenti che abitavano fuori dal paese alla fine del centro abitato, prima del bosco che partiva dalla collina e arrivava ai piedi delle montagne, le bellissime cime Alpine. Quindi saremmo scesi per ultimi, la cosa positiva era che l’autobus si stava svuotando e finalmente si stava un po' più larghi. Solo allora mi accorsi di due strani individui, un uomo e una donna.

      Non li avevo mai visti, ci guardavano insistentemente poi, quando eravamo noi a guardarli, giravano svelti lo sguardo fuori dal finestrino, ammirando tutti seri la strada costeggiata da alberi.

      Indossavano strani vestiti, dico strani perché erano vecchi, usati, antichi. Lui un completo di velluto marrone scuro, largo, sformato, consumato alle ginocchia e sfilacciato all’orlo, lei un abito lungo fino ai piedi nero, come nero era lo scialle che aveva sulle spalle. I lunghi capelli neri erano legati in una stretta treccia. Sembravano due corvi con lo sguardo malevolo, appollaiati sui sedili a meno di un paio di passi da noi. Assomigliavano a personaggi di un film fantasy. Erano perfetti per la notte di Halloween, due bruttissimi stregoni.

      Tutte le persone presenti sulla vettura ormai ne erano incuriositi, ma loro continuavano imperterriti a guardarci. I ragazzi come al solito sghignazzavano, ma le poche persone adulte era come se li temessero; ma nello stesso tempo percepivo il loro fare protettivo. Come i signori Carpelli che si avvicinarono a noi salutandoci, la signora Carla prese la mia mano nella sua e con la scusa di chiedermi come stavano mamma e papà non mi lasciava andare. Rimase così fino a quando, arrivati a destinazione ci preparammo a scendere. Salutai la signora Carla; lei prima fissò la strana coppia poi guardò me e alla fine abbassò la testa facendo una smorfia con la bocca. Ma’! Chissà cosa voleva comunicarmi.

    Anche quei due si alzarono dai loro posti, pronti a scendere dietro di noi; averli dietro le spalle mi fece venire la pelle d’oca; mi allacciai il piumino che avevo addosso per scacciare quella sensazione di freddo, anche Rachele fece lo stesso, la guardai e mi accorsi che lei teneva lo sguardo incollato a quei due. Afferrai il corrimano per scendere, ma lo lasciai all’istante per un’intensa scarica elettrica che sentii. Il braccio sinistro già malmesso ricominciò a formicolare. Anche Matteo si teneva al corrimano destro, ma lui non aveva sentito niente, anzi mi guardava come se fossi impazzita; lasciai stare e mi concentrai sui i due corvi neri, con la coda dell’occhio li osservavo, ero proprio curiosa di vedere dove andavano. Si guardavano intorno, secondo me non lo sapevano neanche loro, in effetti lì oltre una manciata di case tra cui le nostre non c’era niente. Decisero di andare all’interno del bosco e presero il sentiero A150 che li portava dopo solo 50 minuti di camminata al Picco della Marmotta.

      «Dai ragazze, svelte, togliamoci di qua» disse Matteo che non staccò gli occhi di dosso da loro finché non li vide andare via.

      «Mi hanno fatto venire i brividi addosso quei due, ma chi sono?» chiese Erika allungando il passo.

      «Non lo so, ma non mi ci soffermerei un minuto di più in loro compagnia.» Sapevo solo che tutti e quattro avevamo avuto la stessa strana sensazione di pericolo.

      Salutai Rachele, Matteo invece lo avrei rivisto tra un po' alla lezione di nuoto.

      Entrai in casa cercando di scrollarmi tutte quelle brutte sensazioni provate, andai in camera mia e mi raggomitolai sul letto, ascoltando il battito rassicurante del mio cuore. Facevo sempre così, me lo aveva insegnato la mamma ed era veramente efficace quando ero nervosa, agitata e spaventata. Tutte quelle cose che mi erano capitate dalla mattina, iniziando dallo strano sogno e continuando via via fino a ora erano talmente inverosimili che faticavo a crederci io stessa. "Il foglio di carta che a momenti prende a fuoco da solo" Ma dai! Come si faceva a credere a una cosa simile? E invece lo avevo visto con i miei occhi. Ma possibile che nessun altro aveva visto? E quei due corvi chi erano? Cosa volevano da noi?

      Non avendo le risposte, mi alzai e feci i compiti, volevo togliermi subito quello odioso di matematica ingiustificato secondo me e a ogni esercizio maledicevo quella pazza assassina che si era buttata su di me come uno tsunami.

      «Adele cosa hai da borbottare, che cosa c’è che non va?» si incuriosì mia madre quando mi sentì bofonchiare.

      «Sono arrabbiata con quella strega maledetta di matematica, mi ha dato il tormento per tutta la lezione e guarda quanti compiti in più mi ha dato, non ce la farò mai a finirli e tra un po' devo andare in piscina.»

      «Chi è la prof. di matematica? Non avevate la supplente?»

      «È venuta una nuova e pare che rimanga fino alla fine dell'anno, è cattiva e perfida ed è chiaro che ce l'ha con me» continuai inviperita.

    «Dai non prendertela, finisci i compiti, vedrai che alla fine sarai la più preparata di tutti. Oggi a nuoto vi accompagna Sanna e poi vengo a riprendervi io.» Mi baciò e uscì lasciandomi sola a combattere con i teoremi, espressioni algebriche, fantasmi e malanni che danzavano nella mia testa.

      «Ragazzi vi presento Daniel, da oggi mi affiancherà nelle lezioni.» Marina la nostra istruttrice di nuoto ci presentò un istruttore che l’avrebbe aiutata nelle lezioni e nelle gare. Lui ci guardò a uno a uno soffermandosi su di me.

    "E adesso che vuole pure lui" pensai. Mi stavo stancando per tutte quelle attenzioni non richieste. Istintivamente mi portai la mano alla gola, mi stava tornando l’affanno, la mancanza d’aria e il batticuore. Ma che mi stava prendendo, cominciai ad agitarmi nuovamente, anche le gambe ora le sentivo molli, di gelatina. Lui continuava a guardarmi, soppesandomi, valutandomi. Ora basta mi avevano rotto tutti quegli sguardi, ma che volevano da me? Sbruffai portandomi le mani sui fianchi sfidandolo a continuare, funzionò perché spostò lo sguardo su Matteo e ripercorse ogni centimetro del suo corpo con quegli occhi di ghiaccio.  Quando aprì la bocca, salutò tutti con una smorfia che avrebbe dovuto essere un sorriso, aveva una cicatrice sulla guancia sinistra e come accennava un sorriso gli usciva fuori un ghigno tutt’altro che piacevole da vedere. Se si fosse fatto la stessa cicatrice anche nella parte destra sarebbe stato un perfetto Joker, l’antagonista di Batman.

      Prese subito in mano la lezione impartendo ordini ed escludendo totalmente Marina che secondo me per non dover fare una discussione davanti a noi chiuse la bocca e non parlò per niente. Ci divise, i ragazzi con lui e noi ragazze con lei.

      Iniziammo l'allenamento come al solito, con le prime vasche di riscaldamento, avevo appena finito di farle, quando sentii Daniel che sbraitava contro Matteo, lo esortava ad accelerare.

      «Ma sei una balena per caso? Io voglio vedere un delfino, non va bene, non va bene per niente, forza ricomincia.»

      Ma come! Aveva iniziato a fargli fare il delfino senza prima fare almeno una vasca di riscaldamento? Lui frustrato mi guardò dall'altra corsia con il fiatone, facendomi capire che lo avrebbe strozzato volentieri.

    Matteo era molto bravo a nuoto, alto e slanciato si prestava bene allo stile libero, rana e delfino con tempi ottimi, aveva vinto anche parecchie gare, ora arrivava questo strano tipo e lo denigrava davanti a tutti, facendogli perdere la stima di se stesso e soprattutto facendo ridere i suoi compagni invidiosi. Guardai Marina e dal suo sguardo torvo capii che anche lei aveva sentito tutto. «Marina» la chiamai, «ma chi è?»

      «Non lo so, non l'ho mai visto, sapevo solo che sarebbe venuto un istruttore nuovo, penso che non sia nemmeno di qui, l’ho incontrato su in amministrazione e ho saputo che da oggi mi affiancherà nelle lezioni.»

    Mamma mia! Matteo, incavolato nero com’era, sarebbe stato capace a rinunciare alle lezioni.  Quando uscimmo dal centro sportivo, lui mandava ancora scintille. Mia madre ci stava già aspettando, era scesa dalla macchina e seguiva con lo sguardo il nuovo istruttore. «Marta conosci quell'uomo?» le chiese Matteo vedendola, ma dovette ripeterlo due volte perché lei non lo sentiva.  «No, no, non so chi sia» rispose troppo precipitosamente e vidi nei suoi occhi un'inquietudine che non avevo mai visto, come se quell'uomo la spaventasse. Ma fu un attimo, un lampo, poi tirò su il mento ed entrò in macchina.

    «Andiamo ragazzi vi porto a prendere una cioccolata calda mentre aspettiamo Erika.»

      Davanti alle nostre cioccolate le raccontammo del nuovo istruttore piovuto dal cielo, terribilmente arrogante e malefico che non potevi far a meno di odiare.

      «Non mi dava tregua, mi ha massacrato di vasche, a detta sua non sono in grado competere con nessuno e pensare che da oggi in poi mi allenerà lui mi sento male.» 

      «Questa è una di quelle giornate che va tutto storto» commentai, «stamattina in classe quella pazza si è scatenata su di me e per finire ci mancava questo demone venuto dal nulla.»

      Mia madre sussultò alle mie parole, mi guardò con uno sguardo stranamente duro, serio. «Mi descrivi la tua professoressa di matematica?» Anche la sua voce era dura, mi mise paura perché in genere quando mi parlava con quel tono non c’era da aspettarsi niente di buono.

      «Si chiama Lidia Pastari, è giovane sui trenta, trentacinque anni, capelli scuri ricci, occhi neri e con una piccola cicatrice sopra l'occhio destro vicino alla tempia» spiegai. «Potrebbe essere carina ma ti guarda con quello sguardo arcigno che la rende brutta e antipatica.»

    «Sì» continuò Matteo, «ha una cicatrice a forma di stella che sembra una bruciatura, anche mia madre ne ha una dietro il ginocchio e sembra uguale a quella.»

      Vidi mia madre sbiancare, si alzò di scatto dalla sedia, rovesciando le tazze fortunatamente vuote e restò un momento pietrificata guardando davanti a sé con le pupille dilatate; quando parlò, la voce non mi sembrava neanche la sua tanto era strana. «Dai sbrighiamoci che dobbiamo andare a prendere Erika a pallavolo.»

      Matteo e io ci guardammo a disagio. «Ho detto qualcosa di sbagliato?» bisbigliò al mio orecchio, alzai le spalle non sapendo cosa rispondere.

      …e si… non c’era da aspettarsi niente di buono.

      Erika entrò in macchina allegra e ciarliera. Attaccò con quel chiacchiericcio tipico alla Erika, quelle vocali aperte pronunciate di corsa, quando iniziava non la finiva più, ti potevi anche tappare le orecchie, lei continuava imperterrita il suo discorso con la logica che solo lei sapeva e capiva. Tra una risatina e l’altra, ci raccontò che a pallavolo si erano iscritti due ragazzi nuovi. Due fratelli, un maschio e una femmina, lei però non era nelle sue grazie perché la trovava odiosa e antipatica lui invece era tutta un’altra storia perché era carino, simpatico, intelligente ma purtroppo anche molto timido.

      «Guarda che si capisce benissimo che il ragazzo ti piace» la prese in giro Matteo.

      Lei abbassò la testa e divenne rossa come un peperone, si ammutolì e non parlò più, segno questo che ci aveva preso e alla grande. Mia madre non partecipò agli scherzi come faceva di solito, anzi era molto, troppo seria, per noi era una novità, lei sempre allegra e simpatica ora stonava con questo atteggiamento. D'altronde anche io quella sera non ero in vena di scherzare avevo troppe cose su cui pensare.

      «Voi entrate dentro, io vado un minuto da Sanna, non aprite a nessuno» ci disse quando arrivammo a casa, allontanandosi di corsa.

      E a chi potevamo aprire, chi poteva venire a casa nostra in quel tardo pomeriggio? Tutt’al più poteva passare Rachele e sua madre Sarah. Di solito ci fermavamo tutti a casa di Matteo per un po’, oggi invece ci lasciò a casa e ci andò da sola.

      Strano. Per non parlare poi della serata, un vero mortorio. La cena era per noi un momento speciale, tutti e quattro riuniti intorno al tavolo a raccontare gli eventi della giornata. Invece fu un vero disastro, anche io non sapevo se raccontare tutto quello che mi era capitato. Come l’avrebbe presa la mamma? Lei mi spingeva sempre ad andare da Sarah, la mamma di Rachele e confidarmi con lei, perché oltre a insegnare aveva anche una laura in Psicologia, quindi mi era di grande aiuto per la mia fobia, come la chiamava lei. Intanto continuavamo a mangiare nel più assoluto silenzio, il cibo che mettevo in bocca andava giù in automatico quasi non sapevo neanche cosa stavo mangiando, mentre mamma e papà, taciturni, erano concentrati su quello che avevano nel piatto, ogni tanto si sentiva passami il pane, passami l’acqua, per piacere, grazie. Erika, con gli occhi sul piatto, mi mollò un calcio da sotto il tavolo per chiedermi che cosa avevano fatto.

      E io che ne so?

      Iniziai a parlare a vanvera, balbettando, cercando di alleggerire quell'aria da funerale che c'era, mi ricordai dei due sconosciuti e raccontai loro che si erano diretti verso il bosco; Erika descrisse la brutta sensazione che avevamo sentito tutti e quattro quando avevamo notato che ci fissavano. «È stato veramente strano ci hanno fatto venire la pelle d'oca.»

      Vidi che ogni tanto i miei genitori si scambiavano uno sguardo, ma non dissero niente e continuammo a finire la cena ancora più taciturni. Peggio di così non poteva andare.

      Più tardi mi ritrovai da sola con la mamma a risistemare la cucina, gomito a gomito; lei non alzò mai la testa per guardarmi, la vedevo china con le mani nel lavello e mentre lavava e io asciugavo i piatti la sentivo mormorare a bassa voce, ogni tanto dilatava gli occhi come se stesse dialogando con chissà chi. Mi limitavo a guardarla anche insistentemente, ma era come se non ci fossi, era da sola, su un altro pianeta, un altro mondo. Di punto in bianco se ne uscì dicendo: «Domattina vi accompagno io a scuola, manda un SMS a Matteo che passiamo a prenderlo davanti a casa».

      «Mamma lo sai che Matteo va a scuola a piedi la

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