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Il Sigillo. Gli elementi
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E-book285 pagine4 ore

Il Sigillo. Gli elementi

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Info su questo ebook

La rocambolesca corsa contro il tempo prosegue verso il maniero di Oslath, la roccaforte dei temibili vampiri Wilphard. Un luogo oscuro disseminato da buie segrete che trasudano il sangue di coloro che ci hanno lasciato la propria anima. È qui che si trovano Marta e Paolo, i genitori di Adele barbaricamente torturati ormai a un passo dalla morte. Inoltre Adele ha anche la sua battaglia personale da combattere. La sua nuova entità di strega e i poteri che le vengono donati da Esseri Supremi fanno di lei l’Eletta ma la terrorizzano sempre di più. È stata chiamata per assolvere un compito, salvare la dimensione terrestre e tutti gli umani ma in questo momento non riesce a salvare neppure sé stessa dal turbolento stato emotivo in cui è caduta. Ora più che mai ha bisogno dei suoi confratelli, ha bisogno dei poteri del Sigillo. Solo così avranno una speranza di sopravvivere. Solo grazie alla forza degli elementi che non sanno ancora di possedere riusciranno a vedere la luce in fondo all’oscurità delle tenebre.

IL SIGILLO. Un antico Vincolo. Una verità celata e protetta intrecciata al destino di quattro ragazzi uniti da un legame di sangue e di magia.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2020
ISBN9788831695510
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    Anteprima del libro

    Il Sigillo. Gli elementi - Irene Lo Vetro

    silenzio.

    I

    Fu l’incessante martellare del cuore a svegliarmi, seguito dal fiato corto e dalla fame d’aria.

    Cosa diavolo avevo sognato? Che senso aveva per farmi stare così male… e tutto quel sangue poi, stavo morendo? Chiusi gli occhi ma quel tum, tum, tum, non mi dava tregua, lo sentivo nelle orecchie, nello stomaco, nella testa, tutto pulsava come una cassa di risonanza.

    Presi dei lunghi respiri con la bocca e mi raggomitolai in posizione fetale con il capo piegato verso il petto aspettando di calmare il battito furioso.

    Quando il respiro tornò normale, alzai cauta la testa e mi guardai intorno.

    Dove sono?

    Mi trovavo in una grande stanza vuota, spoglia da qualsiasi mobilio, fredda e disabitata da molto tempo… e sola. L’intonaco delle pareti era scrostato in vari punti e l’umidita risalente aveva cambiato il bianco iniziale della pittura in un giallo-verdognolo.

    Sembrava il vomito di un drago.

    Il pavimento di piastrelle, un tempo scure, era sporco e chiazzato dalla sfarinatura dell’intonaco che per effetto dell’umidità si era gonfiato e staccato, la polvere accumulata, per lo più agli angoli della grande stanza, formava tanti batuffoli grigi che danzavano allegri, sospinti da una leggera corrente d’aria proveniente dalle crepe di un vetro rotto dell’unica finestra della stanza. Sembravano tanti gattini che si rincorrevano e qualcuno, più ardito, veniva a nascondersi tra le pieghe dei miei jeans e della felpa, facendomi starnutire.

    Che razza di posto è questo? Come ci sono arrivata?

    Cercai di ricordare qualcosa, di far mente locale ma vedevo solo un gran buco nero e non ricordavo assolutamente nulla.

    Okay, niente panico, guardati intorno e scoprilo… ma cosa c’è da scoprire? Qui non c’è niente di niente. Mi risposi da sola.

    Okay, stavo veramente male non c’erano dubbi.

    Un solo oggetto c’era nella stanza ed era il tappeto su cui ero seduta, vecchio, scolorito, di lana ispida, grossolana e spelacchiata. Al solo guardarlo ricominciai a starnutire, il naso iniziò a colare come un rubinetto rotto e gli occhi si riempirono di lacrime, facendomi apparire tutta la stanza tremolante e ancor più irreale. Un fastidioso prurito persistente e diffuso cominciato dalle mani andava via via diffondendosi prima alle braccia poi via via sul collo e sul viso, mi alzai in piedi grattandomi nervosamente, a quel punto era chiaro che su quel tappeto acari e germi avevano abbondantemente banchettato con la mia pelle.

    E ci avevo pure dormito.

    Infilai le mani nelle tasche dei jeans per non scorticarmi la pelle a sangue.

    Sangue! Sangue che colava, rosso rubino…

    Continuai a guardarmi intorno scavando nella mente in cerca di qualche ricordo. Niente di niente, mi veniva in mente solo qualche briciola del passato ma del presente nada.

    Non avevo la più pallida idea di dove mi trovassi e tantomeno di come ci fossi arrivata, in più mi stavo agitando, sentivo l’ansia crescere e invadere tutta la gabbia toracica, il cuore riprese a galoppare, non riuscivo a respirare, a riempire i polmoni ed ero sola e in questo momento non andava affatto bene.

    Ricordo la prima volta che ebbi un attacco di panico, non ne rammentavo la causa ma l’attacco sì, quello lo ricordavo bene e probabilmente sarebbe rimasto un evento indelebile nella mia mente. Avevo otto anni e fu un’esperienza terribile, malgrado la mia giovane età credetti di morire, il cuore batteva talmente veloce che temetti mi scoppiasse nel petto da un momento all’altro. Era in piena estate e stavo giocando in giardino con quelli che credevo fossero amichetti, compagni di scuola e vicini di casa, invece erano, come scoprii da poco, i miei cugini. Fu Matteo ad accorgersi che respiravo a fatica, avevo gli occhi che stavano schizzando fuori dalle orbite e il viso paonazzo per la mancanza d’aria. Spaventato, chiamò mia madre. La prima a correre in mio soccorso fu però Sarah, la sua presenza mi tranquillizzava sempre, la spiegazione ufficiale che mi sentii ripetere nel corso degli anni fu sempre la stessa, lei, essendo psicologa, sapeva come calmarmi, ma da poco ho saputo che oltre alle sue competenze terapeutiche lei era anche la guaritrice della famiglia Krathers. Con sapienti carezze e paroline, che non capivo mai, fu in grado di riportare il mio respiro alla normalità, facendomi sentire subito meglio.

    Adesso però sono sola... Okay! Comincio anche a ricordarmi qualcosa… e allora sai cosa devi fare!, continuai con il mio dialogo interiore.

    Dovevo distrarmi. Non potevo cadere in quel pozzo oscuro da cui, da sola, difficilmente avrei potuto risalire.

    La luce del sole entrava attraverso i vetri della grande finestra alle mie spalle e il pulviscolo nell’aria colpiva come una freccia infuocata la parete di fronte, mettendo in risalto un oggetto che in ombra non avevo visto prima. Era un piccolo lavandino.

    Una piccola vasca tonda di ceramica blu scolorita dal tempo. Era appoggiato quasi alla fine della parete di fronte e tutt’intorno c’era una lunga fascia di mattonelline bianche. Un mosaico di piccoli tasselli di marmo con sopra uno specchio, tondo anch’esso. In alto su ambedue i lati del mosaico vi era un disegno stilizzato, scolorito, che non riuscivo a vedere bene, sembrava una sorta di stemma di famiglia.

    Ma a quale famiglia appartiene? Però che strano, che ci fa un lavandino qui dentro? Non è da cucina è più da bagno ma la stanza è troppo grande. Allora che cosa è o cosa è stato?

    Domande su domande, ero capace solo di mettere quel punto interrogativo su ogni parola che mi veniva in mente, senza saper dare una sorta di risposta. Mi sentivo proprio una scema, una stupida cretina che gira in torno, capace solo di domandarsi le cose, parole e parole senza agire, fare qualcosa.

    Dovevo agire, giusto! Ma prima avrei dovuto svegliarmi per bene. Dato che era lì, usai quel lavandino, almeno sarebbe servito a qualcosa. Tirai su le maniche della felpa e mi lavai la faccia, le mani e le braccia con l’acqua fredda, sperando di spegnere quel gran prurito, bevvi avidamente il liquido gelato e, memore dello strano sogno, sputai più volte assicurandomi che ci fosse solo la saliva.

    Fortunatamente era stato un brutto sogno, forse l’ennesima premonizione, ma fatto sta che dalla mia bocca non fuoriusciva nessun liquido scarlatto.

    Il timido sorriso che increspava le labbra però morì ancor prima di nascere.

    Sentii improvvisamente quella sensazione di un qualcosa o qualcuno che reclamava la mia attenzione. Alzai la testa e guardai tutta la stanza in lungo e in largo, ma era vuota, non c’erano angoli bui, solo la finestra e in fondo una porta chiusa, non vedevo nessuno ma quel qualcosa mi chiamava, sibilava il mio nome. Girai la testa a tutto tondo e mi ritrovai davanti il piccolo specchio con il mosaico. Vidi i disegni stilizzati ai lati, raffiguravano un fiore, presumibilmente un giglio con un lungo stelo avvolto dalle spire di un serpente con la bocca spalancata, la lingua biforcuta e i denti aguzzi. Non seppi dire se poteva raffigurare uno stemma di famiglia o se era un semplice decoro. Lo specchio invece era talmente vecchio e sporco che non rifletteva nessuna immagine, ma soprattutto non destava la benché minima curiosità, figuriamoci un richiamo. Era un banale specchio corroso dal tempo, inutile e innocuo; ci passai sopra la mano bagnata e portai via la polvere e le tante ragnatele con ancora appesi i suoi proprietari, morti e inseccoliti.

    «Che schifo!», sbottai.

    Lo pulii di nuovo, ora le grosse macchie scure a leopardo spiccavano sulla poca superfice argentata, cercai un angolino intatto e lo asciugai con la manica della felpa.

    Non so neanche io perché feci ciò che poco tempo prima non avrei mai fatto. Toccare con un mio indumento personale una cosa sporca come quella, specialmente in presenza di animaletti morti stecchiti, ma quel qualcosa continuava ad attirarmi e c’era solo quello specchio su cui indagare.

    Scrutai e cercai un qualche indizio in ogni dove e lo trovai, e mi maledissi da sola per questo.

    Vidi il contorno di un volto, sembrava un disegno a matita e all’interno era tutto bianco. Mentre guardavo, il disegno mutò e il bianco si arricchì di colore. Spuntarono due occhi grigio-verdi, troppo grandi in quel volto minuto, cerchiati da profonde occhiaie scure. Talmente scure da sembrare due buchi neri che mi inghiottivano. Una fluente chioma corvina ai lati del volto metteva ancor di più in risalto i pozzi neri con al centro le pupille dallo sguardo spiritato. Le guance scavate formavano delle fosse intorno alla bocca esangue e spalancata in uno spasmo di terrore.

    «Chi… chi sei?»

    Con un passo all’indietro mi allontanai di scatto mentre la pelle d’oca si espandeva dalle braccia fin sul collo e alla nuca, mi girai dando le spalle a quell’essere che mi guardava, mi istigava, mi esortava a riconoscerla ma non potevo, negai con tutta l’anima qualsiasi tipo di… conoscenza. Doveva solo sparire, andarsene.

    Camminai, capo chino e mani sulla testa, prendendo dei lunghi e profondi respiri, tracciai un percorso per la stanza concentrandomi a camminare in una linea retta, non uscendo dal percorso. Un passo davanti all’altro e tutti all’interno della stretta mattonella saltando quelle più sporche.

    In un angolo, vicino alla finestra nel punto che sembrava più pulito, giacevano ammassati degli zaini e alcuni borsoni.

    Di chi è tutta questa roba e chi ce l’ha portata?

    Uno in particolare catturò il mio sguardo, era celeste con le cinghie e le cuciture nere, la marca Eastpak scritta in basso aveva delle perline cucite sotto la lettera kappa per formare una A, quella lettera lampeggiava come un neon davanti ai miei occhi esortandomi a ricordare.

    Ricorda! Ricorda!

    E io ricordai… quando quel flash si spense.

    Cominciai, a piccoli passi a ricordare qualche Cosa e qualche Chi e anche alcuni Perché.

    Ripresi a camminare per tutto il perimetro della nuda stanza con altre domande, generate da altre, ma tutte orfane di risposte, a capo chino e occhi bassi, intenta a scovare qualsiasi cosa pur di ricordare tutto ma soprattutto di… far scorrere il tempo. Trovai addirittura, in un momento di pura follia, alcune piastrelle con il marchio del pavimento, ce ne erano quattro, uno per ogni angolo e benché scheggiate e rovinate ritraevano un fiore, un giglio, con una data: 1859. Era senza dubbio un antico pavimento in cotto fiorentino. Di colpo sentii uno schiocco nella testa, come se una di quelle mattonelle si fosse rotta sulla mia nuca. In effetti da qualche parte del cranio mi si aprì qualche crepa, facendo venire a galla un altro ricordo; i pavimenti della mia casa.

    Ricordai che i miei genitori amavano molto il cotto, tanto da far pavimentare con quel materiale quasi tutta la nostra casa.

    Casa!

    Altre crepe nella corteccia e altri ricordi da inseguire, li ancorai saldamente per non farli scappare di nuovo e fui felice di vedere che quella nebbia si stava finalmente diradando, portandoli a galla.

    Ricordai. E con i ricordi tornò il dolore e fu come un pugno alla bocca dello stomaco, sentii la risalita della bile in gola, ingoiai il bolo di lacrime e saliva mentre altri sprazzi di memoria si affacciavano nella mente, quell’ansia si fece largo nello sterno e risalì fin su in gola. Rifuggii, allontanandomi, ricominciando a camminare aspettando che anche lei se ne andasse e portasse via con sé tutti i pensieri negativi.

    Tornai davanti allo specchio, ignorai le macchie, guardai oltre, cercai e sperai di non trovare quel volto.

    Ma era ancora là, con gli occhi di ghiaccio nei miei, aperti, allucinati, mi guardavano insistentemente mentre io non riuscivo a reggere quello sguardo.

    Avevo paura! Gettai altra acqua sullo specchio, volevo lavare via quel volto e quel non so che di cattivo che le leggevo negli occhi.

    Cosa vuoi da me?

    Il volto, ora tremolante, continuava a guardarmi con un sorriso ironico che spuntava sulle labbra. Abbassai il capo, presi dei lunghi respiri, mi bagnai la faccia, sistemai i capelli arruffati, li legai in una coda di cavallo e sbirciai la figura riflessa, attratta, nonostante la paura che incuteva.

    Tu non sei Adele, tu non sei me!

    Un ringhio di risposta uscì dalla bocca dischiusa.

    «Cosa diavolo…»

    Mi avvicinai ancora di più, non credendo a ciò che avevo udito, solo pochi centimetri dividevano me dall’altra. I miei occhi nei suoi e vidi l’iride che diventava rossa, grande, invadeva tutta la cornea, cancellando i pozzi neri e la bocca che si apriva in un ghigno divertito.

    Una schifosa bava rossastra colava dalle labbra aperte e i canini retrattili si allungavano a dismisura. La bocca si allungava, cresceva in avanti, sbucò dallo specchio, la bava mi gocciolò sulle mani che serravano il piccolo lavandino.

    Mi sentivo le gambe di gelatina.

    Guardavo quel volto uscire dallo specchio totalmente ipnotizzata dalla malefica creatura, la bocca animalesca che si avvicinava, si spalancava, pronta a mordermi, chiusi gli occhi e mi girai di scatto pronta a scappare ma il morso della creatura affondò sulla mia spalla e sentii un dolore lancinante.

    Urlai, urlai e urlai ma risuonò solo nella mia testa. Ero muta.

    Scivolai a terra e mi chiusi a riccio, abbracciandomi le gambe e nascondendo il viso tra le ginocchia. Trasalii per un rumore insolito e alzai la testa di scatto, il cuore batteva con tonfi assordanti e gli occhi traboccanti di terrore corsero per l’intera stanza cercando la fonte di quel rumore.

    L’unica porta in fondo alla sala si aprì con lentezza producendo un suono stridulo, sinistro. Scorsi una mano bianca aggrappata alla maniglia e un braccio infagottato in qualcosa di grigio.

    Il respiro si bloccò e il cuore galoppò ancor più veloce.

    «Adele ti sei svegliata finalmente, che fai qui da sola? Dai esci, siamo tutti fuori che aspettiamo te.»

    Ripresi fiato. I polmoni stavano scoppiando.

    Benedii la mia amica, la mia consigliera, non so come faceva, ma nei momenti bui e terribili, lei correva sempre in mio soccorso.

    Chiusi gli occhi aspettando di sentirla urlare nel vedere il mostro che ero diventata ma non sentii nulla e li riaprii; lei mi guardava tranquillamente, senza timore. Allungò le mani e me le porse come appiglio per rialzarmi, mi ci aggrappai era la mia àncora di salvezza e inconsapevolmente mi saldava a questo mondo, impedendomi di cadere giù fin negli scuri abissi. Mi voltai verso lo specchio, questa volta mi rimandò l’immagine della vecchia Adele, strana, con gli occhi spaventati, spiritati, ma comunque la mia faccia.

    Volevo parlarle, dirle qualcosa, avevo tanto da chiedere ma non ci riuscivo, la voce rifiutava di collaborare, non riuscivo a formulare neanche una semplice vocale, mi sentivo fuori dal mio corpo e ora avevo anche paura, paura di me stessa.

    Rebecca mi guardò negli occhi, mi scrutò fin dentro l’anima, come a voler cercare l’intruso che era in me, sembrava leggere le emozioni che mi stavano sommergendo e il mostro che mi stava divorando.

    «Non so cosa passa nella tua testa, se o con quali demoni stai lottando, io non ti chiedo nulla, tu sai che io sono qui al tuo fianco», riprese le mie mani e con gli occhi umidi proseguì: «Prenditi tutto il tempo che ti serve ma quando tornerai tra noi, devi essere tu, devi tornare a essere Adele. Mi serve la grande Adele per riportare Marta e Paolo a casa.»

    Ora piangeva proprio, grossi lacrimoni colmavano i suoi occhi di tristezza ma lei non si scompose, né se ne vergognò. Lasciò una mia mano e mi accarezzò il viso.

    Bastò questo a riportarmi indietro, bastò la sua calda mano a sciogliere quel freddo intenso, bastò l’affetto sincero a ridarmi quel coraggio per non sprofondare.

    «Usciamo da qui. Ti stanno aspettando», concluse.

    No! Non mi lasciare. Non mi lasciare da sola con lei.

    Per un attimo pensai che mi avesse sentito, invece aprì la porta e uscì, lasciandola spalancata, invitandomi a seguirla.

    Quell’uscio schiuso significava molto per me, era un invito non solo a uscire all’aperto, ma anche a far uscire chiunque fosse entrato nel mio Io.

    Chiusi gli occhi.

    Marta e Paolo a casa.

    Marta e Paolo a casa.

    Marta e Paolo a casa.

    Ripetei dentro di me come un mantra, fino allo sfinimento.

    II

    Sole! Calore! Luce!

    La grande stella madre mi strappò dal freddo delle tenebre.

    I suoi raggi caldi scaldarono il gelo della mia anima.

    La luce allontanò i demoni dell’oscurità.

    Alzai il viso lasciando che il suo benefico calore sciogliesse i grumi acidi che avevo nello stomaco e i nodi aggrovigliati nelle viscere.

    Presi fiato con il naso e buttai fuori con la bocca, una, due, tre volte, un semplice atto, ma aveva sempre avuto un buon effetto su di me. Mi placava.

    Pian piano, senza fare alcun rumore, otto persone si avvicinarono e rimasero in piedi a pochi passi davanti a me, ferme e mute, come statue di cera. La luce abbagliante mi impediva di mettere a fuoco i loro visi, di vedere i loro occhi, di leggere le loro emozioni, ma la loro postura denotava una aspettativa.

    Che cosa volevano da me? Aspettavano forse che parlassi? Sapevano forse che non riuscivo a tirare fuori neanche una vocale? E intuivano forse il mio turbinio interiore?

    Non era colpa mia se non ci riuscivo, non sapevo neanche io il perché, figuriamoci se potevo dare risposte a loro.

    Dio! Ne avevo bisogno quanto l’aria per respirare, avevo bisogno di quelle poche certezze che mi ancoravano a quella normalità che mi calmava e dava un senso alla mia vita. Invece davanti a me avevo una vasta, nuda campagna e una vecchia casa disabitata dove vivevano mostri, draghi, gatti grigi pallosi e un esercito di acari che mi avrebbero mangiata viva se avessi continuato a dormire su quel lurido tappeto e per di più lontana da casa e niente di tutto questo era normale. Al contrario era tutto totalmente estraneo e per questo ostile.

    Le statue continuavano a rimanere ferme immobili sotto il sole, solo la più giovane del gruppo si avvicinò ancor di più.

    Erika.

    «Adele, ti prego dimmi qualcosa, parlami.»

    Mia sorella mi implorava con gli occhioni pieni di lacrime, non aspettò che rispondessi, quindi sapeva che non l’avrei fatto, andò a sedersi su un muretto poco più in là, scoppiando a piangere. Le andarono tutti vicino, consolandola, cercando di alleviare la sua disperazione. I suoi singhiozzi erano pugni sul cuore, facevano male, perché sapevo che lei voleva solo me.

    Io, però, non ero più io.

    Ero solo un guscio, abitato da un mostro.

    Flashback. Fuoco, vento, turbini e cicloni. Vampiri, streghe, demoni e lupi. Tanti lupi. Morte!

    Ero nel bel mezzo di una bufera emotiva, i ricordi fioccavano incessanti e dovevo trovare un modo per uscirne fuori possibilmente intera se volevo sopravvivere.

    Chiusi gli occhi ma un’immagine si contrappose a tutte ed era la più inquietante, la mia copia mostruosa prendeva sempre più spazio dentro di me, il terrore prese il sopravvento, riaprii velocemente gli occhi, non volevo vederla, avevo paura, una paura primordiale mi stava divorando viva.

    Avvertii un brivido famigliare e un’oppressione al petto. Sentii fra le scapole il tocco gelato di uno sguardo.

    Sapevo cosa significava.

    Mi ricordai benissimo la prima volta che lo sentii e mi girai di scatto, aspettando di trovarmi un Vampiro alle spalle. Ma non vidi nessuno, non scorsi neanche la presenza di un fantasma che sapevo di essere in grado di vedere.

    Fino a poco tempo fa ignoravo la mia vera natura, le mie vere origini, ma recenti eventi mi avevano catapultata in un mondo, in una dimensione che non credevo potesse esistere; invece il mondo ultraterreno esiste, noi esseri soprannaturali esistiamo e siamo qui tra di voi.

    Da sempre le due dimensioni hanno viaggiato su binari paralleli, ma purtroppo l’universo umano stava per soccombere a quello sovrumano, e io ero l’unica in grado di impedire che tutto ciò accadesse: mi chiamo Adele Krathers e questa che vi sto narrando è la mia storia e quella della mia famiglia.

    Sono la figlia della capo-stirpe della famiglia Krathers, un’antica dinastia di streghe scelta secoli fa da una congregazione di Esseri Supremi a cui parteciparono le principali casate dei Demoni, Streghe e Vampiri per sottoscrivere le leggi e le regole dei comportamenti degli esseri sovrumani.

    Noi Krathers eravamo stati scelti come i portatori del Sigillo, il vincolo che sanciva la pace tra tutte le creature. Questo vincolo andava protetto con la vita e con la morte, non doveva essere spezzato per nessuna ragione, pena la sopravvivenza di tutte le specie umane e soprannaturali.

    Purtroppo alcune creature malefiche, stanche di ubbidire a delle vecchie leggi, si coalizzarono tra loro per spezzare il Sigillo, contravvenendo a quelle regole che per secoli avevano garantito l’armonia dell’universo e la segretezza della dimensione parallela, uccidendo, scatenando una sanguinosa guerra che stava coinvolgendo anche gli umani.

    Io rappresentavo colei che avrebbe dovuto fermare questi feroci assassini prima che le due dimensioni collidessero tra loro.

    Questa era la teoria, una bella favola nello stile vissero tutti felici e contenti, ma la realtà era un po’ più complicata. Ero l’Eletta chiamata per salvare il mondo, ma in questo momento non riuscivo a salvare neanche me stessa.

    Mi trovavo in un mondo a me sconosciuto, tenuto nell’ombra per ben sedici anni, quando all’improvviso ho scoperto magie e poteri che fino a pochi giorni fa non sapevo neanche di possedere. Io, una ragazza tormentata dall’ansia che mi bloccava spesso, facendomi tremare le mani e sudare freddo, mi sono trovata sbattuta in prima fila per salvare il mondo.

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