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Raven: The lunacy panic
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Raven: The lunacy panic
E-book361 pagine5 ore

Raven: The lunacy panic

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Info su questo ebook

IL LIBRO
Raven, ragazza alle soglie del diploma, ha i capelli nero corvino che odia e per questo motivo li tinge di color turchese. Come la maggior parte delle adolescenti è in perenne conflitto con sua madre mentre adora invece la sorellina Pearl di soli nove anni, che in barba alla sua tenera età è intelligente e perspicace il tanto giusto da diventare sua amica e consigliera.
Raven non è la classica fanciulla che aspira a diventare una cheerleader o la reginetta della scuola. Lei non segue il gregge, ama pensare con la sua testa. Non ama sfumature o colori cangianti. Lei ti ama o ti odia. Partecipa alle feste dove si beve e si fumano le canne. Adora tatuaggi e piercing. Insomma, fa la classica vita un po’ ribelle di tante adolescenti. Questo fino all’incontro con un Doppelgänger che altro non è che una copia spettrale, o reale, di una persona vivente. Da quel momento le sue giornate si trasformeranno in incubi e gli amori, le amicizie diventeranno un difficile problema da gestire.

L'AUTRICE
Camilla Demontis, nata nel 1990 a Oristano, ama scrivere storie sin dalla tenera età. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati all’interno di diverse antologie. In “Sedici Porte” nata grazie al Cantiere di scrittura creativa Sabin, sono stati pubblicati “Giada che vive dentro l’armadio” e “Ossessione”; nell’antologia del concorso CartaBianca nell’anno 2013 è stato pubblicato il racconto “Nessuno dorme sotto il suo letto”, nel 2016, “Effetto domino”. “Raven” è il suo primo romanzo.    

immagine di copertina a cura di Sara Meli

 
LinguaItaliano
Data di uscita10 ago 2017
ISBN9788899685508
Raven: The lunacy panic

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    Anteprima del libro

    Raven - Camilla Demontis

    CAMILLA DEMONTIS

    RAVEN

    THE LUNACY PANIC

    AmicoLibro

    Camilla Demontis

    Raven

    the lunacy panic

    Proprietà letteraria riservata

    l’opera è frutto dell’ingegno dell’autore

    © 2017 AmicoLibro

    Vico II S. Barbara, 4

    09012 Capoterra (CA)

    www.amicolibro.eu

    info@amicolibro.eu

    Prima Edizione

    settembre 2017

    BIOGRAFIA

    PREFAZIONE

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    XIX

    XX

    XXI

    XXII

    XXIII

    Ad Angy, Simo e alla mia famiglia

    BIOGRAFIA

    Camilla Demontis, nata nel 1990 a Oristano, ama scrivere storie sin dalla tenera età. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati all’interno di diverse antologie. In Sedici Porte nata grazie al Cantiere di scrittura creativa Sabin, sono stati pubblicati Giada che vive dentro l’armadio e Ossessione; nell’antologia del concorso CartaBianca nell’anno 2013 è stato pubblicato il racconto Nessuno dorme sotto il suo letto, nel 2016, Effetto domino. Raven è il suo primo romanzo.

    PREFAZIONE

    Raven, ragazza alle soglie del diploma, ha i capelli nero corvino che odia e per questo motivo li tinge di color turchese. Come la maggior parte delle adolescenti è in perenne conflitto con sua madre mentre adora invece la sorellina Pearl di soli nove anni, che in barba alla sua tenera età è intelligente e perspicace il tanto giusto da diventare sua amica e consigliera.

    Raven non è la classica fanciulla che aspira a diventare una cheerleader o la reginetta della scuola. Lei non segue il gregge, ama pensare con la sua testa. Non ama sfumature o colori cangianti. Lei ti ama o ti odia. Partecipa alle feste dove si beve e si fumano le canne. Adora tatuaggi e piercing. Insomma, fa la classica vita un po’ ribelle di tante adolescenti. Questo fino all’incontro con un Doppelgänger che altro non è che una copia spettrale, o reale, di una persona vivente. Da quel momento le sue giornate si trasformeranno in incubi e gli amori, le amicizie diventeranno un difficile problema da gestire.

    Una trama sempre più avvincente ci trascinerà poi in una clinica psichiatrica, dove cinghie, camici bianchi e farmaci entreranno per un periodo a far parte della vita di Raven. Verremmo infine risucchiati in un turbine di emozionanti colpi di scena che ci terranno incollati fino all’ultima riga.

    Il romanzo possiede quella forza narrativa che ogni lettore spera di trovare fin dalle prime pagine di un libro. L’abile penna di Camilla Demontis ci trasporta all’interno del racconto con un’abilità sorprendente e le descrizioni dettagliate faranno sì che il lettore diventi respiro, sudore e pelle di ogni singolo personaggio.

    Roberto Brughitta

    scrittore

    Prologo

    Mio padre mi raccontò solo una volta cosa accadde il giorno in cui nacqui.

    Mi raccontò dello strano caldo afoso che velava la città e della nebbia che vi aleggiava, come un assurdo presagio di sventura, così fine e delicata ma allo stesso tempo pesante a ogni respiro.

    La notte di quel 28 maggio, mia madre venne portata in ospedale e il caldo parve aumentare a ogni sua contrazione. Le acque si ruppero mentre lavava i piatti e mio padre, preso dal panico, la trascinò in auto, senza neppure permetterle di levarsi il grembiule fradicio.

    Mi raccontò di aver corso sino al Golden Hospital in religioso silenzio. Mia madre cercò di tranquillizzarlo a ogni semaforo rosso, mentre preghiere mute le sfioravano le labbra tremolanti.

    Venne subito portata in sala parto e tutto accadde in un lampo, le contrazioni sempre più frequenti e dolorose, il fracasso misto al panico e poi con la stessa velocità e irrequietezza di due occhi che si spalancano nel buio, dopo aver udito un rumore, mi avventai sulla serenità delle loro vite e la ridussi in minuscoli coriandoli, tanto piccoli da non poterli più riunire.

    Mi raccontò anche che, non appena mi videro, l’infermiera domandò loro come mi avrebbero chiamato, mia madre sussurrò.

    Con questi capelli corvini, quale nome sarebbe più adatto se non Raven?

    Divenni il suo corvo, la sua sventura personale.

    I

    Ho sempre odiato avere la testa vuota. Il cuore si agita e il corpo inizia a muoversi convulsamente in attesa di qualcosa, di un cambiamento che possa farmi riflettere lucidamente, perché quando ho la testa vuota posso sentire i pensieri più neri fare a gara per assicurarsi la mia attenzione. Li sento stridere contro le pareti del cervello, spintonarsi violentemente e, quelli che non raggiungono in tempo la mente, invadono il cuore che comincia a dolere senza che io ne conosca il motivo.

    Rimango lì, spettatrice del mondo che ruota frenetico e dentro di me corro, corro, corro per cercare di stare al suo passo, ma in realtà non vi è modo di correre assieme ed è così che mi ritrovo angosciata e con la testa completamente vuota.

    Un leggero soffio di vento mi percorse la schiena e accarezzò le mani, premute sugli occhi. Li strofinai con forza e aprendoli con eccessiva cautela misi a fuoco un bosco, un luogo in cui non ero mai stata prima ma che in un qualche modo mi parve familiare.

    Sfiorai le ruvide cortecce degli alberi e notai lo smalto rosso, quasi completamente rovinato, sulle mie unghie e la mano innaturalmente scarna. Feci spallucce e continuai a camminare nel fitto del bosco.

    Sollevai lo sguardo e mi accorsi che nonostante non fosse ancora arrivata la notte, non riuscivo lo stesso a scorgere il sole oltre le folte chiome scure. Erano immobili: nessun frusciare o danzare tra il vento. Se ne stavano lassù, incombenti su di me come enormi nuvole pesanti di pioggia.

    Ad un tratto, una forte apprensione mi congelò il cuore che, scongelatosi un secondo dopo, prese a battere dolorosamente.

    Mi premetti le mani sul petto e potei sentire colpire ogni singolo battito come passi muti dentro di me. La nausea, giunta chissà quando, si fece insopportabile e impossibilitata a star ferma cominciai a correre senza alcuna meta.

    I passi muti del mio cuore divennero presto reali, pesanti e alle mie spalle. Mi spinsero ad accelerare la corsa ma il fiato non mi permise troppo e così mi ritrovai ad arrancare, terrorizzata come non mai da qualcosa di cui non conoscevo neppure la natura.

    Esausta mi lasciai cadere sulle ginocchia e, spinta dalla paura, continuai a trascinarmi lontano da quei passi che anche se così vicini, sembravano non avermi ancora raggiunta. Affondai le mani nella terra umida, incurante del fango che mi penetrava sotto le unghie e di quelle che si spezzavano quando, tremante, tentai di tirarmi su aggrappandomi al tronco di un albero.

    Ansante, mi ci appoggiai. Mi strinsi le ginocchia al petto e ci adagiai la fronte.

    I singhiozzi mi sopraffecero e, ormai senza speranza, attesi che i passi alle mie spalle mi raggiungessero.

    Li sentii arrivare e senza alzare lo sguardo, mi arresi.

    Mi afferrò per i polsi e mi trascinò con sé, lontano chissà dove. Ma soprattutto lontano da me.

    Spalancai gli occhi.

    Il soffitto bianco macchiato di muffa e rovinato dalle crepe.

    Il respiro affannoso e il battito irregolare.

    Ero terrorizzata e, ciò che più appesantì quella sensazione, fu l’inconsapevolezza della sua natura.

    Afferrai il giubbotto di pelle blu e senza salutare nessuno, lasciai la casa di Felix Dispen.

    Nessuno si preoccupò di accompagnarmi a casa, se non la fitta nebbia di San Francisco che mi inghiottì, rendendomi quasi invisibile agli occhi dei pochi passanti notturni e dei barboni intirizziti stretti tra i muri e i cassonetti, alla ricerca di un po’ di calore.

    Percorsi l’intero Russian Hill, quartiere in cui abitavamo sia io sia Felix, con la mente in subbuglio e le spalle tese.

    Il freddo pungente di metà novembre mi trafisse il viso e mi costrinse a cacciarmi le mani in tasca. D’improvviso mi bloccai e soffermai lo sguardo, anche se solo per un attimo, sulle mie unghie perfettamente laccate di rosso, poi scossi il capo e le infilai di nuovo dentro le tasche.

    Il tragitto verso casa non era troppo lungo e quando mi ritrovai dinanzi alla porta dipinta di bianco lucido, mi domandai come mai ci avessi impiegato così tanto tempo. Fu come se per tutto il cammino avessi spento il cervello, dimenticando ogni singolo passo, ogni singolo pensiero ma con l’ansia e l’apprensione come se fossi scappata da qualcuno e quel qualcuno fosse ancora lì in agguato, nell’attesa del momento più opportuno per attaccarmi.

    Fottutissime pasticche, pensai sentendone ancora l’amaro sulla lingua.

    Entrai in casa molto silenziosamente, al fine di evitare una delle solite prediche di mia madre su quanto fosse vergognoso ritornare nel cuore della notte durante la settimana e di quanto fossi stupida a bruciarmi l’esistenza uscendo con quei delinquenti dei miei amici.

    Sentii immediatamente un dolce tepore avvolgermi e riscaldarmi delicatamente il viso.

    Come un automa mi chiusi in bagno e una volta nuda, rimasi a fissare il mio riflesso sullo specchio. Più m’immergevo nelle iridi grigie dei miei occhi, più mi sentivo distante dalla me riflessa.

    Osservai con attenzione ogni singolo tatuaggio sul mio corpo pallido, il piercing al setto nasale e i lunghi capelli turchesi; non trovai nulla che non sentissi più mio, adoravo il mio modo di apparire ma nonostante tutto continuavo a fissarmi, come se quella dinanzi a me fosse solo un’estranea.

    II

    Con gli occhi ancora pesanti di sonno, mi trascinai in cucina. Erano già le 7 e 10 del mattino e nonostante sapessi di essere in ritardo per l’inizio delle lezioni, me la presi con tutta calma.

    Mi balenò per la mente l’idea di saltare la prima ora o addirittura l’intera mattinata e, dal momento che frequentavo l’ultimo anno di liceo, nessuno poteva impedirmi di farlo.

    Nel vedermi beatamente seduta a tavola con lo sguardo vitreo rivolto alla tazza di caffè ancora piena, la mamma mi urlò dietro in un fascio di nervi.

    Raven! Non pensi sia il caso di alzare quel culo tatuato dalla sedia e prepararti per la scuola?

    Senza neppure alzare un sopracciglio, mugugnai qualcosa di incomprensibile perfino a me stessa, per poi riprendere a contemplare il mio nettare mattutino.

    Ciao Rav! squittì Pearl, sfiorandomi la guancia con un bacio leggero, prima di galoppare fuori di casa seguita da mia madre.

    Pearl aveva nove anni, lunghi capelli biondi raccolti in una treccia alla francese e grandi occhi grigi. Il viso dolce e delicato come quello di una bambola di porcellana e lunghe gambe da ballerina.

    Mi adorava e io adoravo lei.

    Trangugiai l’intero contenuto della tazza in un unico sorso e accavallando i piedi nudi sul tavolo fumai una sigaretta, beandomi del silenzio e della solitudine. Chiusi gli occhi, feci un lungo tiro di sigaretta e, dopo averlo trattenuto qualche secondo, lo soffiai fuori. Quando riaprii gli occhi tutto mi parve ingrigirsi e un’immagine indefinita si dissolse poco prima che riuscissi a darle un nome.

    Fuori il sole brillava tanto debolmente da ingannarmi, facendomi quasi credere fosse ancora l’alba; il cielo, un’intera distesa grigia simile ad una nube di polvere, rese i miei occhi ancora più velati.

    Salita sulla mia auto, una vecchia Volvo del 1981, accesi un’altra sigaretta e guidai verso il liceo. La musica metal riempì l’intero abitacolo e la mia mente. Tentai, invano, di far andare il riscaldamento ma quello ronzò per qualche secondo e come sempre non si accese. Provai con qualche colpo che non servì a nulla se non a far saltare il cd dei Rammstein che si bloccò per ripartire dalla prima canzone.

    Sbuffai e senza pensarci troppo mi misi a canticchiare.

    Varcai i cancelli della S. F. State High School e parcheggiai nel primo posto libero che vidi. Prima di scendere dall’auto mi guardai nello specchietto retrovisore, mi ripassai l’eyeliner nero sugli occhi e mi aggiustai la coda di cavallo.

    Mi buttai sulle spalle il giubbotto in pelle nera e con un paio di All Star bianche ai piedi, attraversai l’ingresso della scuola, animato da chiacchiere e urla di studenti intenti al cambio di lezione.

    Con le mani affondate nelle tasche e lo sguardo alto strisciai tra uno studente e l’altro, salutando con un gesto del capo i visi conosciuti.

    Kross... disse Jackson Delan strizzandomi l’occhio.

    Delan... mimai un bacio e lo oltrepassai, continuando per la mia strada.

    Le cheerleaders, fasciate nelle loro uniformi succinte, corsero in direzione della palestra ridacchiando come uno stormo di oche alla vista di un laghetto. Nell’attraversare la fiumana di studenti, una di loro, Rosie qualcosa, mi urtò di proposito la spalla e spalancando teatralmente gli occhi mormorò.

    Oh scusami tanto, Ravenna! sorrise falsamente.

    Ricambiandole il sorriso le mostrai il dito medio e rompendo la riga formata da tutte le cheerleaders, le feci Ciao ciao con la mano. Qualcuno ridacchiò alle mie spalle ma non mi voltai a controllare chi fosse.

    Non mi ritenevo una tra le ragazze più popolari della scuola, ma di una cosa ero certa, quasi tutti conoscevano il mio nome, probabilmente a causa del mio aspetto poco discreto. In ogni caso non sopportavo chi si credeva superiore o migliore, solo perché agitava due pompon e il culo durante le partite di football e non mi interessava avere a che fare con loro solo per esser considerata interessante o popolare.

    Vi fu un periodo in cui bramai di entrare a far parte della squadra di cheerleading. Mi iscrissi persino alle selezioni e andai a fare il provino.

    Mi sedetti sulla panchina all’interno degli spogliatoi, in preda a una forte emozione con la fronte imperlata di sudore. Presi a dondolarmi col corpo avanti e indietro, nel tentativo di scacciar via l’ansia, quando sollevando lo sguardo notai una ragazza, poco più grande di me, che mi fissava con insistenza.

    Ricordo quanto fui tentata di chiederle che diavolo avesse da guardare ma il suo sguardo così penetrante mi sgretolò le parole sulla lingua, così iniziai a scrutarla di rimando in silenzio.

    Mi parve che il tempo non passasse, che non arrivasse mai il mio turno per il provino e l’agitazione assieme alla soggezione, per via di quegli sguardi puntati su di me, non smise di crescere. A un tratto decise di rivolgermi la parola.

    Io sono stata una cheerleader, alzò gli occhi al cielo, quasi stesse parlando di secoli e secoli prima, è uno schifo! e scoppiò in una risata trattenuta.

    Perché? chiesi timidamente.

    "Pensaci... non è tanto diverso dal fare la signorina in vetrina nel quartiere a luci rosse di Amsterdam, con la sola differenza che a fare la cheerleader sei costretta a vestirti con una stupida divisa colorata e cantare canzoncine idiote davanti a tutti!"

    Beh... a questo non avevo mai pensato, esclamai con le braccia strette attorno alle gambe.

    Ti fanno fare i provini solo per autoconvincersi che ci sia qualcosa di serio in tutto questo, si alzò in piedi e notai quanto fossero pallide e fini le sue braccia. Si fece più vicina a me e continuò, Se vuoi che la gente ti rispetti, si ricordi di te, ti tema o pensi che vali perché sei ciò che tu hai scelto di essere, lascia perdere tutto questo. Non mi sembri una che vuol indossare qualcosa che la renda uguale alle altre, cantare canzoni in modo che la sua voce si confonda diventando uno stupido coretto. Non hai bisogno di muovere il culo per essere notata piccola.

    A quelle parole rimasi impietrita, quasi fossero uscite da una radio o da un altoparlante di un centro commerciale. Così feci per aprire la bocca e ribattere, ma mi resi conto di non aver nulla da dire perciò la osservai aprire la porta degli spogliatoi e andarsene.

    Rimasi seduta sulla panchina, da sola e in silenzio, riflettendo su ogni singola parola e indossandole una per una come fossero gioielli.

    Quando attraversai la palestra a passo spedito sentii la voce del capitano delle cheerleaders, Kimberly Miller, urlarmi dietro.

    Ehi tu! Capelli verdi? Dove credi di andare? le mani sui fianchi e un sopracciglio alzato in segno di sfida.

    Mi voltai e, puntandomi un dito al petto, dissi.

    Dici a me?

    Ti sembra ci sia qualcun altro qua dentro con quel colore assurdo di capelli?

    Beh... prima di tutto sono turchesi e non verdi, dissi con voce calma, e seconda cosa, me ne sto andando!

    Puoi dirmi il tuo nome? la voce era stizzita.

    Prima che potessi risponderle, una ragazza dai capelli voluminosi e biondi alle sue spalle lo fece al posto mio.

    È Raven Kross!

    Kimberly, scuotendo la sua coda di cavallo color caramello, si rivolse nuovamente a me, riposizionando le mani sui fianchi, quasi ci fossero dei fotografi pronti a immortalarla nella sua posa perfetta, e disse.

    "Beh, Raven Kross, pronunciò il mio nome come se questo le provocasse dei conati di vomito, sappi che se te ne vai cancellerò per sempre il tuo nome dall’elenco delle candidate, e finché ci sarò io in questa scuola non ti sarà mai più data l’opportunità di entrare a far parte della squadra!"

    Me ne farò una ragione... e detto questo, lasciai la palestra, ignorando il continuo ciarlare di Kimberly alle mie spalle. L’ultima cosa che riuscii a sentire fu.

    Col cavolo che l’avrei fatta entrare, comunque. Ma l’hai vista? Sembra un avanzo di galera!

    Senza preoccuparmi troppo di che ore fossero, se ero in ritardo anche per la seconda ora, continuai a muovermi lentamente, schivando corpi e tenendo d’occhio il mio armadietto che di secondo in secondo si faceva sempre più vicino.

    Come se il tempo si fosse improvvisamente fermato e qualcuno avesse abbassato completamente il volume, sentii qualcosa farsi spazio nel mio stomaco, spingere verso l’alto e arrestarsi all’apice della gola. Non so per quale assurdo motivo mi venne da pensare a una crisalide nell’esatto momento in cui muovendo piano le ali rompe il bozzolo e diviene farfalla; ma quella che sbattendo freneticamente le ali dentro di me minacciava di venir fuori, come un conato di vomito, non la immaginavo dai colori sgargianti. No, per niente.

    Con movimenti rallentati sollevai una mano pallida e scarnificata, il polso segnato da profondi tagli infetti; come se quella cicatrice che avevo sempre visto sul mio polso destro e di cui non conoscevo la natura si fosse di colpo moltiplicata e riaperta, facendone uscire del sangue tanto scuro da sembrare nero. Intorpidita, non la sentivo fare parte di me, se fosse troppo pesante o troppo leggera non sapevo dirlo, riuscii comunque a portarmela alle labbra.

    Non smisi di camminare e come dentro a un sogno mi sentii scindere dal mio corpo, staccarmi come la pelle bruciata si leva pian piano, senza nessun dolore.

    Esattamente dinanzi a una proiezione di me stessa, mi guardai dritta negli occhi per un attimo interminabile e quando allungai la mano per sfiorarne il viso, lunghe ciocche di capelli neri mi scivolarono via dalle spalle, ondeggiando come sospinte da una brezza leggera.

    "Quel che soffochi dentro... sibilò la mia proiezione, con la mia voce, muovendo le labbra insieme alle mie, come l’immagine di uno specchio. Prima o poi..."

    Uno stridio metallico, che mi ricordava un grido isterico, mi fece stringere i denti e sbattere le palpebre. Mi ridestai da quella strana visione. Le vertigini mi spinsero in avanti ma non rovinai a terra. Non accadde nulla. Sentii la mano ancora posata sulla guancia, la mia mano, mentre gli studenti mi passavano al fianco, sfiorandomi, spingendomi come se niente fosse successo.

    Venni travolta di nuovo dal caos.

    Che diavolo mi succede? pensai, col cuore agitato e sul punto di dare di stomaco davanti a tutti.

     Aiutami.

    Non ho mai smesso di credere che l’avresti fatto...

    Deglutii e ferma dinanzi al mio armadietto mi affrettai ad aprirlo.

    La mia cicatrice, per buona parte nascosta da un tatuaggio che citava la scritta Nevermore, era ritornata a essere una; la sfiorai col polpastrello e come accadeva tutte le volte, mi parve di toccare un pezzo di filo di cotone, teso e sottopelle.

    Deposi alcuni libri, infilandoli alla rinfusa in quello scompartimento così piccolo da riuscire a ospitare poco o niente, senza curarmi del disordine dovuto a fogli sparsi, cartacce e magliette stropicciate, che nascondeva lo specchio incastonato al suo interno.

    Fu proprio quando, con non poco sforzo, cercai di infilare l’ultimo libro, che vidi riflesso, in un piccola superficie libera dello specchio, un occhio, il mio occhio e senza un motivo ben preciso mi bloccai. Un senso di angoscia mi fece vibrare i nervi e un lieve sussurrare mi solleticò l’orecchio.

    Contro la mia volontà mi ritrovai a cercare di captarne ogni suono, sfumatura, parola.

    No. Non dovrei. Non voglio! Urlai dentro di me per allontanare l’attenzione da quel bisbigliare sconnesso che sapevo, inspiegabilmente, di non dover ascoltare.

    Un colpo alla nuca mi spinse via con violenza dal filo immaginario dei miei pensieri e io ne precipitai fuori con molto affanno. Cominciai ad annaspare, quasi fosse stata risucchiata tutta l’aria presente nella scuola e con un acuto dolore al petto, mi avvinghiai al bordo dell’armadietto, pensando che se avessi lasciato la presa sarei crollata.

    La mia migliore amica, Skyler Turner, dalla corporatura non proprio esile, più alta di me di almeno dieci centimetri, i capelli castani a caschetto e gli occhi castano chiarissimo, rimase a fissarmi con le mani premute sulla bocca e gli occhi spalancati.

    Che ti succede? disse in preda all’agitazione.

    Sbattei più volte le palpebre e tentai di ignorare la nausea e il bruciore che mi afferrava i polsi. Abbassai lo sguardo, temendo di vederli ancora ricoperti di tagli sanguinanti.

    Troppi pensieri si ingarbugliavano l’uno all’altro, trasformandosi in parole che non riuscivo ad articolare.

    Mi sentivo incorporea e lottando contro quella sensazione, spinsi con troppa forza le parole fuori dalla mia bocca. Mi schizzarono via dalle labbra quasi con una voce non mia.

    Cazzo! Vorrei spaccarti la faccia in questo esatto momento! ringhiai tremante d’ira.

    Sky mi scrutò sbalordita prima che una risata le sgorgasse rumorosa dalla bocca.

    Siamo nervosette stamattina! mi sfotté, tirandomi piano la coda di cavallo, Piantala di fare l’acida strafatta già dalle nove del mattino.

    Inspirai dal naso, chiudendo gli occhi e chiamando a raccolta tutta la calma necessaria, deglutii e senza rifletterci su un attimo di troppo le dissi.

    Scusa è che ho dormito di merda e ho bisogno di un altro caffè e... tu ci credi allo... sdoppiamento dell’identità?

    Cosa? esclamò Sky dando un colpo allo sportello del mio armadietto e prendendomi sottobraccio.

    Sì dai, la bilocazione o roba del genere... continuai, senza sapere perché l’avessi fatto e soprattutto perché mi fossi messa a pensare a quelle stronzate. Probabilmente ero solo stanca e ancora sotto l’effetto dell’LSD presa la notte precedente.

    Tipo teletrasporto? Viaggi astrali? disse la mia amica con noncuranza poi, puntando i suoi occhi castani dritti nei miei, cambiò tono. Non starai mica diventando una di quelle ossessionate dagli astri o cazzate simili? Oppure vuoi diventare una Wicca? Entrare a far parte di una di quelle sette per psicopatici. Sarebbe una figata! Non fare nulla di tutto ciò senza di me o mi incazzerò a morte! Skyler, come al solito, si lasciò trasportare dall’entusiasmo così io ne approfittai e scoppiai a ridere, cercando di non dare a vedere quanto in realtà fossi turbata.

    Ma figurati. È che ieri ho visto un film e... lasciai la frase in sospeso, sperando che Sky non ci facesse troppo caso e cambiai argomento. Alla fine te lo sei fatto?

    Intendi Phil? ridacchiò.

    Perché ti sei fatta qualcun altro?

    Idiota! Sky mi fece la linguaccia ed entrò in aula, dove la professoressa Anderson aveva già iniziato la lezione di Chimica e, non appena ci vide dirigerci con disinvoltura verso i due banchi liberi in fondo alla classe, esclamò, Faccia con comodo, signorina Turner! poi rivolgendosi a me, Signorina Kross...

    Feci un cenno col capo e con tono gentile risposi a mia volta.

    Professoressa Anderson...

    Sedetevi immediatamente, prima che cambi idea e vi spedisca dal preside!

    Mi lasciai scivolare sulla sedia e aprii il libro in una pagina qualsiasi.

    Per tutta la durata della lezione continuai a sentire in bocca un sapore acido e quando la campanella trillò corsi a perdifiato fino al bagno.

    Mi tamponai il viso con dell’acqua fresca e mi infilai due dita in gola. Tossii, ma non vomitai nulla. Alzando lo sguardo, un’immagine indefinita mi balenò davanti, sparendo fulminea così come era apparsa.

    Scattai in avanti nel tentativo di fuggire da quella visione, ma venni bloccata dal petto di una ragazza e sbalzata di riflesso all’indietro. Una fitta di dolore mi morse la nuca e un grande calore mi percorse la schiena.

    Oh merda! gridò la ragazza.

    In un attimo il bagno delle ragazze si riempì di studenti ficcanaso e il mio incidente era già sulla bocca di tutti. Ognuno arricchiva la propria versione ma il succo era sempre lo stesso: ero una schizzata paranoica!

    Mia madre venne chiamata in ufficio dall’infermeria del liceo, le dissero che sarebbe stato meglio se fosse venuta lei a prendermi dal momento che avevo battuto la testa e mi erano stati messi dei punti di sutura alla nuca. Lei ringraziò per esser stata avvisata e disse che sarebbe venuto mio padre perché lei non poteva lasciare l’ufficio per nulla al mondo.

    La segretaria del liceo, la signorina Burks, mi guardò con gli occhi straboccanti di compassione e io per tutta risposta mi limitai a far spallucce.

    Tuo padre? mi chiese con voce flebile. Non posso assolutamente lasciarti guidare!

    Sbuffai rumorosamente e le dettai il numero di cellulare di mio padre.

    Aspettai che la maggior parte degli studenti abbandonasse l’istituto, Skyler rimase a farmi compagnia per un po’, rollandosi uno spinello, seduta dentro la mia auto. Quando arrivò a metà me lo passò e uscendo dalla macchina, disse.

    Bene, tesoro! Io scappo, mi raccomando, non combinare altri casini mentre sono via!

    Le feci l’occhiolino e appoggiandomi al cofano fumai il resto dello spinello, attendendo l’arrivo di mio padre.

    Una fortissima emicrania prese a farmi pulsare la vena sulla tempia e inspirando una boccata di fumo chiusi gli occhi per un secondo.

    Raven. Giusto?

    Oltre la nube di fumo appena sputata fuori, vidi fare capolino una sagoma scura. Mi stropicciai gli occhi, incurante del trucco che si distese su tutta la palpebra inferiore facendomi somigliare a un mezzo panda, sollevai stancamente un sopracciglio.

    Sì... hai bisogno di qualcosa?

    Col viso nascosto per gran parte dai capelli, la ragazza di cui non conoscevo il nome, ma con

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