A volte anche la luna è piatta
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Anteprima del libro
A volte anche la luna è piatta - Gianni Brandi
cuore
1.
Una mattina di fine aprile 2018 accadde qualcosa che non avrei mai potuto immaginare. Dopo una notte trascorsa tra un incubo e un altro con tuoni e lampi che si infiltravano tra i sogni, mi svegliai di soprassalto. Sentii un rumore proveniente dalla cucina e la porta scricchiolare più volte. Un guaito che diventava sempre più insistente e simile a un ululato non accennava a placarsi. Scesi dal giaciglio in punta di piedi per non destare mia moglie e attraversai mestamente il corridoio, nel mentre i fulmini impetuosi azzurravano a tratti le pareti, rendendo la tonalità giallo crema simile alle cromie di un arcobaleno.
Passai davanti alla cameretta di mia figlia e vidi la porta insolitamente spalancata. Mi fiondai dentro e accesi timoroso la luce. Tutto era sparito: il letto bianco a baldacchino, l’armadio di colore bianco stile shabby, lo scrittoio e la libreria abbinate, le mensole, tutti i peluche e i giocattoli di mia figlia. Non era rimasto nulla, se non una cassapanca bianca in vimini meno affollata del solito. Non c’era più nemmeno una foto che desse un senso umano alla stanza. E non vi era lei, la mia piccola Martina. Mi sentii sprofondare come nel più immenso degli abissi. Scossi il viso a colpi di schiaffi, sperando che fosse un altro maledetto incubo, ma era tutto reale.
Quella non era più la cameretta di mia figlia, pareva una stanza assaltata da un ufficiale giudiziario per dei debiti insoluti. Non riuscii a dare una spiegazione e, istintivamente, sperai in uno scherzo. Ma bastò poco per disilludermi. Fino alla sera prima tutto era perfettamente in ordine nella sua confusione: bambolotti che fuoriuscivano a iosa e con i loro occhi sembravano scrutarti, giocattoli che si mettevano a suonare nei momenti meno opportuni e pennarelli multicolori sparpagliati per ogni angolo della stanza. Ci sarebbe voluta una ditta di traslochi per rimuovere arredi e gadget vari e di certo i mobili non svaniscono nel silenzio più assoluto.
Dovevo convivere con l’incredibile situazione: mia figlia non c’era e con lei era sparito ogni ricordo che la riguardava. Entrai ansimante in cucina, sconvolto dalle sensazioni dell’amaro risveglio. Vi trovai Rudy, il canuto San Bernardo, accovacciato per terra, impaurito. La sua presenza, anziché essere di conforto, accrebbe il mio magone: perché lui sì e la bambina no? La bestiola mi fissò con aria mesta ed ebbi quasi la sensazione che percepisse la mia voglia di barattare la sua presenza con quella di mia figlia. Mi fissò con gli occhi lacrimevoli e provai ad accarezzarlo, ma la mente non riusciva a dimenticare o forse non voleva.
Oltrepassai la cucina e raggiunsi il salotto. La luce del nuovo giorno incominciava a filtrare tra le fessure delle veneziane, ingiallendo a tratti le calate delle tende e il velo di organza frapposto in mezzo. La perturbazione sembrava aver abbandonato la zona circostante, ma un altro ciclone si era abbattuto sulla casa e aveva assediato la mia mente.
Cercai vagamente le tracce di un essere infantile che si nascondesse sotto il divano e le poltrone. Pensai che se l’avessi trovata nei paraggi non gliel’avrei fatta passare liscia e l’avrei forse messa in punizione, come avrebbe meritato per il forte spavento che mi aveva procurato. Ma già dopo qualche istante abbandonai la figura del padre ferreo e intransigente e mi ripromisi, a mo’ di fioretto, di concederle eccezionalmente un perdono privo di ripercussioni, senza sgridate e alzate di voce.
Non importava come, ma dovevo ritrovare mia figlia. Al diavolo il lavoro, al diavolo i clienti, al diavolo gli appuntamenti. Volevo solo riabbracciare Martina. Provai sensazioni che non credevo fossero alla mia portata. Le palpitazioni sciabordavano il mio petto e l’intero corpo, l’angoscia diventava sempre più opprimente.
Provai a liberare il diaframma. Avvertii come se non avessi più i polmoni, tanto il respiro diventava affannoso e, per la prima volta nella vita, capii cosa potesse provare un degente in una sala di rianimazione. Accennai finalmente a pronunciare il suo nome, prima soffusamente poi con sempre più insistenza. Ripetei più volte: «Martina, non starai mica giocando a nascondino? Dai, rispondi, dove sei?», ma non udii nemmeno un soffio d’aria. Mi accasciai frustato sul pavimento luccicante del salone e il mio sguardo fece da cornice alle piastrelle in gres porcellanato color noce sfumato. Immaginai il viso di Martina specchiarsi sulle mattonelle e la sua vocina flebile sussurrarmi: Papà, hai avuto paura?
.
Guardai ripetutamente le pareti della stanza e allungai lo sguardo verso quelle del corridoio sperando di scorgere un’ombra che mi concedesse una speranza.
Dopo qualche attimo di smarrimento, mi sentii solo come in un cimitero di ricordi. Sentivo tante voci bisbigliare nel palazzo e altri rumori sempre più fragorosi dalla strada, ma un silenzio tombale regnava in casa, perfino Rudy si era chiuso nel suo mutismo. Mi rialzai e guardai nei bagni dell’abitazione, sperando timidamente che Martina avesse trovato rifugio in qualche angolo più appartato. Scrutai a fondo i mobiletti sotto il lavabo, dentro la doccia, ma non percepii nessuna presenza umana.
Mi chiesi almeno mille volte affranto Ma cos’è successo?
, senza riuscire a darmi una spiegazione. Sembrava tutto così tranquillo e silenzioso per pensare a un rapimento e mi sentivo come un cane in piena notte che abbaia alla luna. Dopo qualche minuto, avvertii dei passi dal corridoio. Li ascoltai con animo turbato, ma anche fiducioso che fosse la fine del mio momentaneo inferno.
Sentii una voce femminile, debole e assonnata, sempre più vicina. Chiusi gli occhi. Immaginai di aprirli carezzando le gote della piccola Martina e di abbracciarla forte. Pensai che forse per la prima volta mi avrebbe visto esplodere in un pianto struggente e incontrollato e immaginai la sua reazione di stupore per l’evento più unico che raro, ma ne avrei accettato le conseguenze. Sentii una mano bussare sulle mie spalle. Mi girai d’istinto e abbozzai un appropriato contegno. Incrociai degli occhi azzurri, argentei, che mi fissavano increduli. Erano identici a quelli di Martina e tradivano la stessa espressione di torpore al risveglio, ma non erano i suoi. Erano quelli di Magda, mia moglie.
Mi chiese compunta e attonita: «Roberto, ma cos’è successo? Sembri sconvolto… E poi… Chi stavi chiamando prima?».
La guardai scioccato. Come faceva a non capire? Per lei era tutto normale? Provai a contenere lo stato di agitazione che sempre più mi stava avvolgendo e aprii a fatica la bocca. Cercai di non guardarla in faccia mentre le dissi turbato: «Magda, ma come, non ti sei accorta di nulla?», tutto di un fiato, come quando si butta giù un odioso antibiotico.
«E di cosa dovrei accorgermi?», fu la sua risposta, saccente e impietosa al tempo stesso. Alzai lo sguardo, liberato dalle inibizioni momentanee.
Aveva assunto tutt’altro aspetto rispetto alla sera prima.
Il fisico piuttosto tonico, il viso, nonostante il torpore mattutino, perfettamente in tiro. Erano smarrite la peluria e le piccole rughe che le solcavano il volto. I capelli, pur leggermente arruffati dalla notte, perfettamente puliti e brillavano di un biondo acceso.
Allungai lo sguardo verso le sue piccole mani. Una colata color arancio avvolgeva le unghie delle sue dita facendole apparire più lunghe e graffianti.
La donna che dalla gravidanza in poi si era lasciata piuttosto andare era solo un mio ricordo. A meno di non voler credere che durante la notte la casa si fosse trasformata in una beauty center con estetiste impegnate a tambur battente, il che includeva anche trattamenti dietetici con effetti istantanei, era avvenuto qualcosa di miracoloso.
Continuai a fissarla attonito e lei non ci mise molto a notarlo, ma per ritegno, forse, attese prima la mia risposta.
Le dissi titubante: «Magda, ma cos’è successo? Ti vedo diversa…». E poi, farfugliando vistosamente: «E Martina...Dov’è?».
Non esitò a replicare: «Martina? Ma di chi stai parlando? E in che senso mi vedi diversa?».
«Magda, smettila di prendermi in giro. Se questo è uno scherzo, è di pessimo gusto. Dov’è Martina, nostra figlia? Hai capito, nostra figlia?».
Il suo sguardo penetrò nel mio quasi divorandolo. Rifiatò qualche secondo prima di affondare il dito nella piaga: «Roberto, ma sei impazzito? Noi non abbiamo nessuna figlia. Non abbiamo mai avuto bambini. Torna in te…».
«Non so cosa ti prende. Come fai a rinnegare tua figlia, la creatura che hai tenuto nel grembo per nove mesi, la luce dei tuoi occhi? Smettila o sarò costretto a chiamare i Carabinieri».
Abbozzò un sorriso saccente e, senza peli sulla lingua, rispose: «Beh, se ti fa piacere, chiamali pure. Così, o ti prendono per pazzo o ti arrestano per simulazione di reato... Fossi in te ci penserei bene».
«Non ti capisco. Mi sembri un’altra persona. Dov’è la madre premurosa che fino a ieri coccolava la figlia, le leggeva le fiabe per farla dormire? E che negli ultimi sette anni ha sacrificato la vita per lei?».
«Sette anni?", chiese attonita. «Ma credi davvero di avere una figlia di 7 anni? E dimmi un po’, com’è fatta? Magari dirai pure che ti assomiglia».
Trovai irritante il suo atteggiamento, ma non caddi nella provocazione e cercai di giocare sui ricordi: «Magda, vorresti farmi credere che tutto quello che abbiamo vissuto negli ultimi anni non sia vero? Ti ricordi come ti piaceva conciarla come una bambolina? E la gioia che provavi quando ti diceva: sei la migliore madre del mondo?».
Non scorsi un filo di emozione sul suo volto, continuava a fissarmi come un automa. Provai a ricordarle i primi giorni di asilo e di scuola di Martina, di quando imparò a leggere e scrivere, a suonare i primi tasti del pianoforte. Ma Magda restò ferma nel suo sconcerto, come una marziana piombata d’improvviso nella casa.
Continuai indomito come un fiume in piena: «Magda, tua figlia ha sette anni. Li ha compiuti un mese e mezzo fa. Non ricordi la sua festa di compleanno? Alla fine della festa tu hai pianto pure per la commozione. Come fai a non ricordarlo?».
Perseverò nel suo atteggiamento evasivo: «Non mi ricordo di nulla e vuoi sapere il perché? Non c’è stata nessuna festa, né una settimana fa, né sei anni fa. È tutto frutto della tua fantasia e non te ne accorgi nemmeno. Adesso, per favore, smettila...».
Provai a ricordarle altri episodi toccanti, come la prima volta che sentimmo i battiti cardiaci della nascitura, e la gioia che lei provò quando scoprì che la creatura che portava in grembo era la bambina che aveva sempre desiderato. Ma non diede segni di convincimento. Dopo qualche minuto, anzi, il suo sguardo da perplesso diventò imbronciato. Alzò il tono della voce e cominciò a sbottare: «Roberto, sei proprio meschino. Come devo dirti che io non posso avere figli? Non posso avere figli, hai capito?» e io ascoltai incredulo. Detto questo, si concesse un’alzata di spalle e si fiondò nel bagno in camera, dopo aver chiuso con furia la porta e fatto tremare le pareti circostanti. Bussai più volte, ma lei rimase in silenzio, lasciandomi un senso di frustrazione difficile da domare. Ebbi tutto il tempo per rimuginare. Come mai Martina era sparita nel nulla? E come mai la madre rinnegava la sua esistenza?
Non potevo accettare di essere impazzito di colpo ed erano troppo vivi i ricordi della mia vita con Martina per negare la sua esistenza. Lei aveva cambiato la nostra vita, ci aveva privato sì di una consistente fetta di intimità di coppia, ma aveva compensato con i suoi sorrisi, la sua spontaneità, la voglia di assaporare sempre nuove esperienze. Come poteva non esistere
? Sentii la porta del bagno aprirsi e non esitai ad avvicinarmi a mia moglie. Provai l’ultima disperata carta.
Accesi lo smartphone che per tante volte aveva immortalato Magda e Martina e glielo porsi con un gesto spontaneo quanto deciso. «Ecco, ora apro la galleria delle foto e vedrai chi è tua figlia».
Magda restò con lo sguardo incredulo chiedendosi forse in che modo potessi tirar fuori il coniglio dal cilindro. Aprendo la galleria, notai però qualcosa di inimmaginabile: erano scomparse tutte le foto che ritraevano Martina. Controllai in tutte le cartelle del cellulare, ma il risultato fu sempre lo stesso: non vi era alcuna traccia di lei.
Magda attese per diversi minuti, poi l’impazienza prese il sopravvento.
«Allora, cosa vorresti farmi vedere?», proferì con aria di sfida, come un giocatore di poker quando intuisce il bluff dell’avversario. Calai lo sguardo verso il basso, tanto era forte l’imbarazzo che serbavo in corpo e farfugliai: «Magda, qui c’erano le foto di Martina. Non capisco. Qualcuno deve averle cancellate. Ti assicuro che ne avevo almeno mille in galleria...».
Abbozzò un ghigno e disse: «Certo, come sono sparite le foto in questa casa, il letto di tua figlia e tutto il resto. Per favore, non ho tempo da perdere con le tue paranoie. Ho tante cose da fare».
Rialzai lo sguardo. E restai come folgorato da una luce intensa e misteriosa. Dinanzi a me vi era un’altra Madga, come non la vedevo da tempo. Il viso impreziosito da un phard color beige chiaro brillantinato, stesso colore del mascara che le contornava gli occhi mettendo in risalto le sue caratteristiche iridi. Un rossetto color zucca scuro le rendeva le labbra più carnose e penetranti. Anche il suo abbigliamento denotava un grande charme.
Un tailleur giallo senape con bordature nere le avvolgeva il corpo e di sotto una camicia di raso bianca con striature dorate e décolleté in vista, aderente al punto giusto da farle quasi esplodere il seno contenuto in push-up che si intravedeva appena.
Non riuscii a celare il mio stupore: «Però, Magda, ti trovo uno schianto oggi». E, giusto per non farmi mancare niente, mi lasciai prendere da un’insolita gelosia. «Dimmi un po’, cosa avresti da fare oggi?», le chiesi in tono indagatore.
«Stai dicendo che fino a ieri ero un cesso. Mi dispiace per te, ma non è così…», proferì in tono ironico e provocatorio al tempo stesso, quasi cercando una conferma sul mio volto. Se non la pensavo esattamente così, ci era andata molto vicina. Mentre continuavo a osservarla per capire come potesse essere avvenuta una metamorfosi così repentina, lei provò a soddisfare le mie morbose curiosità: «Come ti ho detto, non ho tempo da perdere. Devo andare al lavoro. Stamane ho due cause in Tribunale».
«Ma come, tu lavori? E fai l’avvocato?».
«Neanche questo ti ricordi? Forse ti serve davvero una cura di fosforo».
"Magda, ma che dici? Hai mai smesso di lavorare per dedicarti a Martina».
«Forse non ti è chiaro che non ho nessuna figlia. E neanche tu, se è per questo». E con questa risposta serafica mi raggelò definitivamente, si avvicinò all’uscio e chiuse con decisione la porta. Il cigolio dell’infisso si insediò nel cervello tormentandomi per diversi minuti. Lo percepii come il segno che si era chiusa la porta della mia vita. Mentre il tacchettio delle sue eleganti scarpe scemava sugli ultimi scalini del piano terra, mi affacciai sul terrazzo. La visione del Vesuvio era nitida, abbellita dall’aria tersa della giornata, con un paio di nuvole grigie che lambivano i pendii e delle rondini che sembravano baciare la vetta in alto.
Vidi all’improvviso passare sulla strada principale un’utilitaria rossa fiammante guidata da una donna che sfrecciava nel traffico senza curarsi di rispettare le norme del codice della strada. La riconobbi: era mia moglie.
Non conoscevo la macchina e a dire il vero Magda fino al giorno prima avrebbe preferito tirarsi un paio di denti piuttosto che portare da sola l’auto. Un altro misterioso evento della mattinata.
2.
Tornai in salotto e mi piazzai sul divano. In poche ore la mia vita sembrava stravolta, come neanche il più potente uragano avrebbe potuto fare. Mia figlia Martina era come svanita nel nulla. Mia moglie, la donna tutta trascurata, casa e famiglia, madre perfetta e premurosa, si era trasformata in una donna in carriera, sexy e altezzosa al tempo stesso e guidava con spavalderia un’auto rossa fiammante.
Pensai che almeno dal punto di vista del piacere estetico da tale trasformazione ci avevo guadagnato qualcosa. Avrei anche potuto approfittarne per ritrovare una vita di coppia degna di quel nome. Ma lo shock per la scomparsa di Martina, o peggio ancora per la sua paventata inesistenza, prese il sopravvento. Meditai su cosa avrei potuto fare per scoprire quali fossero le sue sorti, sempre se lei fosse esistita veramente.
Rovistai nei tiretti della casa alla ricerca di qualche sua foto. Frugai negli angoli più impensati, mettendo quasi a soqquadro la casa, ma non trovai nulla. Mi misi allora alla ricerca di documenti cartacei. Dovevano pur esserci in giro il certificato di nascita di Martina e la sua tessera sanitaria. Scrutai tutte le cartelle con i documenti più impensati, dagli attestati di pagamento delle utenze varie, ai certificati medici vari miei e di mia moglie, ma non scorsi nulla che riguardasse Martina.
Certo, la casa non eccelleva per ordine, specie nell’archiviazione dei documenti, ma mi sembrò così strano ritrovare scartoffie vetuste e inutili mie e di Magda e non rinvenire uno straccio di carta che recasse il nome di mia figlia. Dopo attimi di scoramento capii che la soluzione, semmai esistesse, avrei potuto trovarla