La natura del danno: Cronache di un uomo imperfetto
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Ho frantumato tutti i parametri del cosiddetto senso comune e delle regole del vivere civile, ne ho superato i limiti, la vergogna, le assurdità, i compromessi, le circostanze, le falsità. Ho vissuto da re e da mendicante, ho mangiato al Central di Lima, in Perù, e per la strada seduto su un marciapiede di Cali, di Bangkok, di Shangai, di Bogotà. Ho superato quel limite che non mi fa aver più paura della fine.
Sono morto e rinato più e più volte fra le mura di una squallida cella, negli occhi di mio figlio appena nato, nei giudizi e nelle colpe, nei rimpianti, nei rimorsi e nelle notti insonni.
Nonostante tutto amo, amo con tutto me stesso questa folle vita, questo doloroso, tormentato e a volte dolce esistere.
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Anteprima del libro
La natura del danno - Gianfranco Mazzoni
Gianfranco Mazzoni
La natura del danno
Cronache di un uomo imperfetto
LA NATURA DEL DANNO
Gianfranco Mazzoni
Prima edizione agosto 2023
©Gianfranco Mazzoni 2023
Volume pubblicato in self-publishing
IMMAGINI DI COPERTINA
Sul fronte: fran_kie
Sul retro: Miracle (particolare) di Pierre Yves Gonin
IMMAGINI INTERNE
AdriFerrer (12); daboost (18); aozora (24); Orlando Florin Rosu (30); nikilitov (36); Yevhen (44, 86); eyetronic (52); Andy Roberts/KOTO (60); Sved Oliver (68); Lina (76); shangarey (96); Iphigenia (106); BillionPhotos.com (114); irenastar (120); Oleandra9 (128); Li Ding (138); tiero (146); izzzy71 (152); Максим Новосветлов (160)
Ai miei figli
Bruna, Mariaclara, Manuel, Gianluca, Aurora e Gianmarco.
A mio fratello,
che voleva essere figlio unico.
La vita può essere capita solo all’indietro,
ma va vissuta in avanti.
Soren Kierkegaard
Prefazione
Ho girovagato in lungo e in largo per il Sud America, Centro America e Caraibi cercando una spiaggia dove costruire il mio rifugio; sono andato dall’altra parte del globo, in Thailandia, Bali, Vietnam, Cina, Hong Kong, Dubai, Qatar, ma un appartamento anonimo nella moltitudine come in un formichiere non fa per me.
Le meravigliose spiagge e isole della Thailandia sono invase da orde di turisti arrapati per le tette e i culi in vendita e non per le spiagge, la sabbia candida e il mare cristallino. Anche la quiete di Bali è stata violata da un mondo in fuga, un mondo chiassoso che scappa dalla coercizione, dalle vaccinazioni obbligatorie, dai controlli su quanta carta igienica consumi per pulirti il culo, dalla schiavitù e ladrocinio delle tasse, dalla suocera, dalla galera.
In nessun posto ho ritrovato gli odori e i colori dei luoghi dove sono nato e sperare di trovarli altrove è un’assurda tortura psicologica. Ma ormai l’Italia è talmente contraddittoria da offuscare la bellezza dell’arte e della sua storia millenaria.
Ho frantumato tutti i parametri del cosiddetto senso comune e delle regole del vivere civile, ne ho superato i limiti, la vergogna, le assurdità, i compromessi, le circostanze, le falsità. Ho vissuto da re e da mendicante, ho mangiato al Central di Lima in Perù e per la strada seduto su un marciapiede di Cali, di Bangkok, di Shangai, di Bogotà.
Ho superato quel limite che non mi fa aver più paura della fine. Sono morto e rinato più e più volte fra le mura di una squallida cella, negli occhi di mio figlio appena nato, nei giudizi e nelle colpe, nei rimpianti, nei rimorsi e nelle notti insonni.
Nonostante tutto amo, amo con tutto me stesso questa folle vita, questo doloroso, tormentato e a volte dolce esistere.
Gianfranco Mazzoni
Introduzione
Non mi aspettavo nulla. Contava solo superare il confine senza essere beccato. Ai sorrisi di circostanza, braccia serrate e porte chiuse, avrei pensato poi.
Fino a qui tutto bene¹.
La mia unica compagna di viaggio in quella fuga solitaria era la consapevolezza delle conseguenze che avrei avuto se mi avessero scoperto. Per fortuna avevo collaudato un buon metodo.
A quei tempi avevo trovato rifugio a Essertines-sur-Rolle, un paesino di montagna nei pressi di un noto parco naturale svizzero, paradiso per escursionisti di ogni genere. Non potevo rientrare in Italia perché avrei dovuto giocare a guardie e ladri con un pubblico ministero milanese che non vedeva l’ora di farmi la festa. Conoscevo però un piccolo varco tra la Svizzera e la Francia, una frontiera spesso libera. Bastava percorrere in auto una stradina tra i boschi mandando avanti qualcuno. Se la dogana non era controllata dalla polizia passavo, altrimenti me ne tornavo indietro ritentando la fortuna qualche giorno dopo. Una volta superato il confine mi muovevo in pullman, spesso viaggiando di notte, o in treno.
La stessa cosa facevo in Italia. Non mi fermavo a dormire, tiravo dritto fino a casa, da Milano alla Puglia, convincendomi di essere un anonimo viaggiatore, un cittadino qualsiasi. Essere pronti al peggio può essere di conforto. Ma per rischiare tutto ci vuole ottimismo, non solo una buona dose di incoscienza.
Sono andato a cercare ovetti
, aveva scritto in un biglietto il noto re delle evasioni, herr Walter Stürm quando fuggì da un penitenziario di Zurigo. Erano appena cominciate le vacanze di Pasqua del 1981. Non era la prima fuga, non sarebbe stata nemmeno l’ultima. La voglia di libertà è più forte della paura.
Fino a qui tutto bene.
Bruna viveva insieme alla madre in una villetta vicino al mare. Era inverno, ma per me che arrivavo dal nord sembrava fosse già primavera. Mi sfilai la giacca. Il vento si stava alzando e le onde del mare s’increspavano sempre più prepotenti sugli scogli. Mi sarebbe piaciuto fare una passeggiata sulla spiaggia insieme a mia figlia. Forse mi sarebbe piaciuto fare due chiacchiere anche con Paola. Erano passati molti anni ma non ero svanito nel nulla. Avevo pagato per gli errori commessi, sofferto la solitudine come una specie di dolore fisico.
Eccomi qui, sto rischiando di farmi arrestare per voi.
La voglia di rivedere casa e affetti è un’emozione troppo forte. Annebbia ogni barlume di razionalità.
Suonai il campanello e attesi, emozionato, certo che niente è immutabile, che i rapporti, quelli veri, quelli di sangue, possono essere sempre recuperati. Basta volerlo.
La casa di Paola era graziosa, ben curata. Immaginai che lo fosse anche l’interno.
La porta si aprì al tintinnio ovattato di uno scacciapensieri di bambù appeso sull’uscio. Mi aspettavo di vedere Bruna o Paola, invece mi ritrovai faccia a faccia con il nuovo compagno di Paola, braccia sui fianchi, mento all’insù e occhi sbarrati, sembrava pronto a mordermi sul collo, rabbioso come un cane da guardia.
«Sono il padre di Bruna» feci appena in tempo a dire, quando mia figlia sbucò da una porta a vetri al piano terra, percorse a passi svelti i pochi metri di giardino che ci separavano e venne al cancello.
«Entra» sussurrò.
Varcai la soglia.
«Accomodiamoci qui» disse facendomi strada nel suo laboratorio.
La seguii ubbidiente lanciando un’occhiataccia al tizio che piantonava l’uscio del piano di sopra.
Entrai nella stanza di Bruna sorridendo. Respirai a pieni polmoni l’odore del legno. C’erano chitarre e violini, macchinari vari, arnesi, colle e pennelli. Bruna si muoveva un po’ nervosa, non mi fece accomodare nemmeno sull’unico sgabello libero. Mi mostrò il laboratorio. Poi cominciò a elencarmi le cose che conteneva, cose che erano state comprate con i soldi che le avevo inviato.
L’ascoltai con attenzione. Ritrovavo in lei gli stessi occhi vispi e sorridenti di quando era piccola. Era nata con il viso allegro, anche se nel corso di quella breve visita guidata al suo laboratorio da liutaia non aveva sorriso mai.
Continuammo ad attaccarci agli oggetti. Io le domandavo cosa fosse questo o quello, lei mi rispondeva indicandomi un riccio, un fondo, un manico.
Fino a qui tutto bene.
Poi calò il silenzio. Mi aspettavo che mia figlia mi chiedesse di salire in casa, fermarmi per cena sarebbe forse stato troppo, forse no. Quando aprì la porta a vetri e ci ritrovammo di nuovo in giardino guardai verso la finestra e il pianerottolo del piano di sopra.
«Tua madre come sta?»
«Bene».
«Mi fa piacere».
«Si è fatto un po’ tardi, devo tornare al lavoro».
«D’accordo, capisco».
Avrei voluto dirle che era stato bello vederla, che ero orgoglioso di lei. Avrei voluto sentirmi dire come stai?
o abbiamo un sacco di tempo adesso, finalmente, per recuperare
. Ma restammo intrappolati in un silenzio impacciato.
Uscii senza guardarmi alle spalle. Sapevo che Paola era in casa e che non aveva voluto vedermi.
1 L’odio (La Haine), Mathieu Kassovitz, 1985.
1.
Una famiglia normale
Non sono stato un bambino facile. A dispetto di mio fratello, che era riuscito ad adattarsi alle cose della vita, alle sue regole, a ciò che il senso comune reputa giusto, io ho sempre viaggiato su un altro binario. Non seguivo le istruzioni. Improvvisavo.
Sono nato nel 1954 a Bari, in città. Mia madre era una donna altissima per i tempi, bionda con gli occhi azzurri, un bel fisico, portamento fiero, carattere forte. Mio padre, di qualche centimetro più basso di lei, aveva invece i capelli ondulati e neri. Anche gli occhi erano nerissimi. Figlio di una baronessa di un paesino della Basilicata che aveva il suo stesso cognome, papà era un uomo allegro, esuberante, con una naturale predisposizione a fare amicizia con le donne. Mio padre era medico, figlio di medici. Era stato direttore del centro di sperimentazione oncologica nell’ospedale di Bari negli anni Cinquanta e poi aveva esercitato nel suo ambulatorio privato, il classico studio medico che occupava un’ala della casa, una casa molto grande, antica, composta da tre appartamenti. In uno di questi ci vivevano mia nonna e mia zia. Mia mamma si occupava dei figli, della casa e di mio padre. Era una famiglia borghese, la nostra. Una famiglia cattolica praticante, soprattutto quella da parte di mia madre, senza problemi economici. Avevamo proprietà e terreni.
Sono sempre stato un