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Il Toro alato
Il Toro alato
Il Toro alato
E-book421 pagine4 ore

Il Toro alato

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Info su questo ebook

Dion Fortune narrava di prediligere la diffusione delle conoscenze esoteriche più profonde attraverso i suoi romanzi, più che con i saggiIl toro alato è l’ultimo di tali testi e narra le vicende del giovane Ted Murchison il quale, attraverso varie peripezie, riesce a trasformare la sua disastrosa vita privata diventando l’assistente di Brangwyn, esperto di antiche fedi pagane e in particolare del culto del dio Pan e del Toro alato. La sorella di Brangwyn, Ursula, si dedica alle stesse ricerche, ma è vittima di un mago nero, Astley, che la manipola per scopi di potere, cercando di ridurla in schiavitù mentale e fisica. Murchison verrà ingaggiato per aiutarla a rinnovare le sue difese psichiche e condurla a una vita sicura e felice.
LinguaItaliano
EditoreVenexia
Data di uscita14 dic 2020
ISBN9788899863487
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    Anteprima del libro

    Il Toro alato - Dion Fortune

    DION FORTUNE

    Il toro alato

    Venexia

    TITOLO ORIGINALE

    The Winged Bull

    Traduzione di

    Elenia Hughes

    Grafica di copertina di

    Paola Pompili

    ©2020 Copyright by Venexia

    Via Erodoto 36

    00124 Roma

    www.venexia.it

    Il toro alato

    Capitolo 1

    La foschia avvolgeva il centro di Londra facendo assomigliare il cielo a metallo sporco e i lampioni per strada erano già accesi alle tre di pomeriggio. Il British Museum, filtrato dalla nebbia che permeava il cortile esterno, sembrava l’ingresso per gli inferi. 

    Ted Murchison non aveva alcuna voglia di tornare da suo fratello ad Acton prima di cena. Detestava sua cognata e la casa era piena di marmocchi che si meritavano una bella sculacciata, ma non la prendevano mai. Attraversò un cancello con le inferriate grondanti rugiada mista a fuliggine e si avviò sull’ampio viale coperto di ghiaia nell’oscurità incipiente.

    Mentre saliva i gradini verso il portico, realizzò improvvisamente che se la nebbia si fosse infittita, avrebbe dovuto riattraversare l’immenso piazzale senza punti di riferimento. Ma non gli interessava. Non se ne sarebbe tornato ad Acton per annoiarsi fino all’ora di cena. Il museo sarebbe stato caldo e illuminato, dandogli qualcosa a cui pensare e con cui distrarre la mente dal ricordo del colloquio appena sostenuto. Ci era andato su raccomandazione personale di suo fratello, ma non aveva ottenuto il lavoro. Ora gli toccava tornare ad Acton, raccontare tutto al fratello e sorbirsi i commenti sul suo fallimento. Per non parlare di quelli di sua cognata, convinta che il modo migliore per motivare qualcuno fosse maltrattarlo.

    Un’ondata di aria calda lo colpì in faccia, mentre entrava nell’edificio. Era caldo, come si aspettava, e fu grato di quel tepore perché sotto al vecchio trench non indossava un soprabito. Un vecchio cimelio di guerra, a tempo debito aveva svolto a dovere la sua funzione resistendo molto più a lungo di altri cappotti a buon mercato. Ormai di modelli così non se ne producevano più. Suo padre era stato un colonnello degli Old Contemptibles [veterani del Corpo di spedizione britannico, N.d.T.] e uno dei primi a cadere. Finita la scuola anche Murchison si era arruolato, ma al momento del congedo non aveva né le risorse economiche necessarie per cominciare una nuova vita né qualcuno che se ne interessasse. Così accettò il primo lavoro offerto, ma quando si rivelò un vicolo cielo passò a un altro; e poiché si trattava di un’agenzia di impiego che curava affari loschi, prima che potesse volare verso nuovi lidi rischiò perfino di finire in gattabuia.

    Gli anni trascorsero così, a fare l’impiegato senza competenze di stenografia, l’agente di vendita o qualsiasi altra mansione gli permettesse di consegnare trenta scellini a settimana alla cognata di Acton. In tempi normali se ne sarebbe andato in uno dei dominion, ma durante la depressione postbellica non prendevano gente senza capitale. Suo fratello non gli aveva mai offerto prestiti e nella casa di un pastore obbligato a sfornare un figlio all’anno, a prescindere che sapesse dove crescerlo, quei trenta scellini a settimana erano particolarmente ambiti.

    Con la smobilitazione finirono i tempi d’oro di Ted Murchison. Era stato un ufficiale e un gentiluomo, nonostante la giovane età. Tirare fuori il vecchio trench per coprirsi dalla pioggerellina della nebbia l’aveva fatto tornare a quei giorni. Aveva avuto la fortuna di avere un colonnello egregio e durante l’anno trascorso nell’esercito aveva appreso cose che nemmeno la chiesa e l’università messe assieme insegnano. Mentre consegnava il cappello e il cappotto al custode dell’afoso museo, cominciò a domandarsi che fine avessero fatto i suoi compagni di ventura. Qualcuno di loro aveva perso il treno come lui o si erano tutti ritagliati una posizione nel mondo, mettendo su famiglia prima di combattere la prossima guerra? Il matrimonio per lui era stato fuori discussione e di conseguenza anche il resto della sua vita non era stato granché.

    Aveva ormai trentatré anni e stava cominciando ad abituarsi a quello status quo. C’erano volte in cui pensava di aver quasi raggiunto la pace dei sensi e altre in cui ne dubitava. La formazione ricevuta dal suo colonnello gli aveva fornito il supporto necessario durante quegli anni difficili, salvandolo da svariati guai.

    Brangwyn, ecco come si chiamava. Chissà che ne era di lui. Nessuno sapeva da dove venisse quando si era arruolato, né dove fosse finito dopo la smobilitazione.

    Quell’uomo aveva tutto del militare, ma non era un soldato professionista. Sia negli alloggi che in campo aveva mostrato straordinarie qualità di leader e sotto il suo comando il numero di reati e vittime era stato il più basso di sempre. 

    Da giovane, Murchison l’aveva adorato. Da adulto, con l’esperienza maturata, realizzava sempre più chiaramente lo straordinario calibro del suo vecchio capo.

    Il museo, per quanto caldo, era illuminato a malapena per via della nebbia che, spiraleggiando nelle lunghe gallerie, avvolgeva le luci in nugoli dorati. Non era certo la condizione migliore per vedere gli oggetti in esposizione, così Murchison prese a passeggiare pigramente nel corridoio centrale, perdendosi nei pensieri e senza prestare la minima attenzione a quello che gli succedeva attorno. 

    Poi, improvvisamente, la vista di un volto che lo fissava dall’oscurità con un’espressione incuriosita e interrogativa, come fosse in procinto di parlargli, lo riportò in sé. Aveva uno sguardo cordiale, semmai vagamente cinico, e i suoi occhi sembravano scandagliargli l’anima. Si scrutarono reciprocamente, lui e il proprietario del volto, senza parlare. Le parole erano inutili, poiché tra loro il pensiero fluiva liberamente. Sapeva che il proprietario del volto lo considerava un perfetto idiota, ma tutto sommato simpatico. Il suo primo impulso fu di parlare allo sconosciuto, ma l’intuito gli diceva di trovarsi dinanzi a uno straniero che non capiva il linguaggio parlato. Poi di colpo realizzò che la faccia era più grande di un volto umano e troneggiava sulla sua testa; vide l’ombra di un’enorme ala allungarsi nel buio e un pesante zoccolo su un piedistallo, piantato proprio di fianco al suo ginocchio. Stava comunicando con uno dei tori alati con testa d’uomo che sorvegliavano i templi di Ninive!

    Capirlo fu per lui una sorta di shock. Era certo che la bestia fosse viva e che avesse qualcosa di importante da comunicargli; qualcosa che, una volta appresa, avrebbe cambiato per sempre il corso della sua vita. Sollevò gli occhi sul volto dall’espressione inquisitoria e cinica, che ricambiava il suo sguardo con piglio sicuro, e gli sembrò dotato di una vita propria, definita, a dispetto della disillusione circa la sua natura. Provava la strana sensazione che fossero amici. Il toro alato l’aveva riconosciuto, come fanno le fiere allo zoo con i visitatori particolarmente inclini al mondo animale. Sapeva che di giorno il grande toro fissava lo spazio vuoto soprastante le teste dei turisti e che era solo un’illusione ottica causata dalle ombre a dargli l’impressione che lo stesse guardando. Tuttavia, era convinto che anche alla luce del giorno avrebbe ritrovato nel suo sguardo quel senso di riconoscimento. 

    Decise che sarebbe tornato spesso a trovare il suo nuovo amico. Condivideva molte più cose con lui che con qualsiasi essere umano della sua dannatissima vita. E anche il toro lo sapeva; sapeva che Murchison avrebbe mantenuto fede alla sua promessa. Lo sapeva anche lui che avevano parecchie cose in comune.

    Con riluttanza si girò e si allontanò, attraversando il corridoio; un addetto lo fissava come aveva fatto il toro, ma con uno sguardo molto meno affabile. Quindi si spostò nella galleria egizia, dove gli enigmatici dèi sedevano sui loro piedistalli guardandolo in silenzio. Anch’essi, nella luce incerta della galleria avvolta dalla nebbia, erano imbevuti di uno strano spirito vitale. Tuttavia, non avevano la stessa energia del suo amico babilonese, né lui riusciva a connettersi con loro allo stesso modo, pur percependone la vitalità intrinseca. Finché non raggiunse un enorme braccio di granito rosa, che si estendeva dalla sua base con la mano chiusa a pugno. Considerate le sue dimensioni, era difficile indovinare a quale sorta di statua fosse appartenuto, ma terminava con quella che aveva l’aspetto di una mano di potere.

    Murchison rammentò la leggenda di Ingoldsby sulla mano di potere che apriva porte chiuse; ma quel sinistro reperto storico gli restituiva una sensazione del tutto differente. Era la sua benevolenza, che controllava il temibile potere in suo possesso, a colpirlo. Sembrava appartenere a un dio che, seppur completamente diverso da quello crocefisso della tradizione cristiana, era altrettanto amorevole e influente, a prescindere da quello che avrebbe potuto pensare un ortodosso.

    Pigramente si spostò ancora, incrociando lo sguardo dell’ennesimo sorvegliante. Era meglio mostrarsi indifferente ai reperti per non destare sospetti di tentato furto, sebbene fuggire con quel braccio di sei metri fosse poco concepibile.

    Prese a vagare senza destinazione, finché raggiunse l’ampia gradinata a scalini bassi e si ritrovò nella sala delle mummie, dove si soffermò a osservare i corpi profanati. Un capannello di turisti avvolti dalla nebbia si raccoglieva attorno alla guida ufficiale e Murchison si unì a loro. Il modo in cui la guida parlava con condiscendenza di vivi e di morti lo spazientì. Perché pensare che gli antichi fossero così diversi da noi e attribuire loro una mentalità da imbecilli? In fondo dovevano saperne abbastanza, per essere riusciti a costruire le piramidi.

    Il gruppetto si avvicinò all’individuo dall’aspetto coriaceo raggomitolato nella replica della sua tomba. La guida stava spiegando che i primi popoli seppellivano i loro morti in quel modo perché era così che dormivano, proprio come, per lo stesso motivo, quelli successivi seppellivano i defunti in posizione prona. Murchison provò a domandare se anche loro si girassero nel letto, come fa tanta gente, ma fu ignorato.

    Abbandonò il gruppo e provò a entrare nella galleria di divinità aborigene, che gareggiavano a chi fosse la più terrificante, ma sulla soglia si fermò. Era davvero troppo.

    Anche loro avevano preso vita sotto l’influenza della nebbia e del crepuscolo, così si diede indietro, confuso. Quel luogo odorava di sangue.

    Murchison si voltò e a grandi falcate attraversò i lunghi corridoi, in cerca dell’uscita. Era stufo di quelle presenze e voleva fumare. L’effetto che sortivano tutte assieme era assolutamente bizzarro. Qualcosa che nel corso degli anni si era assopito in lui, trasformandosi in un’insensibilità provvidenziale, stava cominciando a risvegliarsi assieme al dolore. Ripensò ai soldati in marcia e desiderò trovarsi in spazi aperti, spettinati da venti tempestosi. Murchison era un uomo a tutti gli effetti e voleva un incarico che gli rendesse onore, non di certo un misero lavoretto da segretario che l’avrebbe rinchiuso tra quattro squallide e ambigue mura. Murchison si sentì sopraffare da un’ondata di rabbia contro la vita; ma se ce l’hai con l’esistenza, e non disponi di mezzi privati, rischi di passare dalla padella nella brace.

    Murchison si riprese il cappello e il cappotto, e si incamminò verso l’uscita. Mentre si avvicinava alla porta a vetri si accorse che fuori era piuttosto buio; ma quando uscì realizzò di trovarsi dinanzi a un muro di nebbia fitta, opaco quanto una tenda, che premeva contro il suo volto. Esitò per un istante. Quindi si immerse nell’oscurità appiccicosa e soffocante, che si chiuse alle sue spalle come fa l’acqua con un nuotatore.

    In quell’oscurità impenetrabile non erano percepibili suoni di sorta. Non solo la nebbia attutiva ogni rumore, ma anche il traffico era bloccato. Murchison si domandò se finalmente fosse giunta la fine del mondo, dopo le innumerevoli profezie fallite, o se sotto l’influenza del suo nuovo amico, il toro dalle sembianze umane, lui non fosse tornato all’alba della creazione e quello era il vuoto senza forma prima che lo spirito di Dio aleggiasse sulle acque. Rimase immobile, fissando con occhi ciechi l’invisibile che gli volteggiava lentamente attorno. In qualsiasi momento poteva vedere lo spirito divino emergere e l’oscurità svanire, e grandi tori alati prendere vita nell’informe foschia.

    A quel punto fu travolto dall’improvviso terrore che la creazione fosse frutto delle terrificanti divinità inferiori che dimoravano nel fango, ma respinse quel pensiero.

    I reperti nella galleria degli aborigeni appartenevano a un periodo di decadenza della specie umana, non alle sue origini. No, gli oggetti che vedeva prendere forma nella nebbia erano nobili, sublimi e molto potenti.

    Si ricordò della storia di Hans Andersen sui giocattoli che prendono vita di notte, facendo baldoria nella stanza di giochi illuminata dalla luna. Gli dèi che aveva visto al museo erano da sempre dotati di vita propria. Forse, quando l’edificio si svuotava, scendevano dal piedistallo per darsi anche loro alla pazza gioia. Il suo amico, il guardiano degli dèi, sollevato dai propri oneri, avrebbe potuto raggiungerlo all’aperto, unirsi a lui per una chiacchierata e fumarsi una sigaretta nel cortile. L’idea lo solleticava parecchio. Quella creatura lo attirava molto più di qualsiasi altro essere umano, fatta eccezione per il suo idolo adolescenziale, il colonnello del reggimento di cui aveva fatto parte per breve tempo.

    Qualcuno lo superò nella caligine soffocante e, desiderando rimanere da solo con gli dèi, avanzò di qualche passo dall’altro lato dell’ampio portico, sentì lo spigolo degli scalini sotto ai piedi e si incamminò senza meta sull’ampio tratto di acciottolato ormai invisibile. Ebbe la strana sensazione di aver appena fatto qualcosa di irreversibile.

    Aveva abbandonato il sentiero segnalato, che l’avrebbe condotto all’uscita nonostante il buio fitto, per andarsene misteriosamente alla deriva. Aveva deviato dal percorso umano, illuminato e tracciato, per immergersi nell’oscurità primeva. E chi lo aspettava in quei luoghi oscuri? Forse le divinità dall’aspetto agghiacciante? Lo spirito dell’Antico dei Giorni dalla lunga barba e la corona dorata? O un braccio di potere rosa, che avrebbe scacciato le nuvole facendo spazio alla luce? La sua scelta ricadde su quest’ultimo. Era stufo marcio del Dio di suo fratello. Gli ricordava un vecchio detto scozzese circa un diavolaccio avido e autoreferenziale, saltatosene fuori dai libri di qualche religioso, folle tanto in cielo quanto agli inferi.

    Una volta suo fratello gli aveva domandato se pensasse che sarebbe mai stato perdonato per la sua ostilità a Dio e Murchison gli aveva risposto che semmai era lui a dover perdonare Dio per il trattamento ricevuto. In ogni caso, se tutto quello che si diceva di Dio era vero, doveva essere una creatura violenta e malvagia; oltre che un pessimo giudice della natura umana, visto che faceva favoritismi a individui di bassissima levatura. Ted Murchison ne aveva le scatole piene, per quel che gli interessava poteva andarsene all’inferno e restarci.

    Da solo nella nebbia compatta, provò a connettersi mentalmente al toro alato di Babilonia.

    È dalla tua parte che mi schiero!, urlò ad alta voce nella sua immaginazione. Vieni a me, oh essere alato. Guardiano della dimora divina. Aprimi le porte!

    Il suo inno si interruppe bruscamente. Come doveva chiamare il suo nuovo amico? Il nome è un elemento imprescindibile nelle invocazioni agli dèi. Quale espressione attribuirgli? Dio dalla testa d’uomo, Dio dalle ali d’aquila, Dio dal piede taurino? Che il tuo piede taurino s’affretti, giungi a me! Gli sovvennero parole di antiche reminiscenze scolastiche. Evoè, Iacco, Io Pan!.

    Nel buio del piazzale del British Museum avvolto dalla nebbia, invocò: Evoè, Iacco! Io Pan, Pan! Io Pan!.

    Un’eco rimandò: Io Pan!.

    Poi un’altra voce si levò nell’aria: Chi è che invoca il Grande Dio Pan?.

    Capitolo 2

    Murchison era talmente esterrefatto dalla risposta immediata alla sua invocazione, che esclamò: Oh Signore!, parole tipiche di suo fratello, che non avevano nulla a che fare con la divinità a cui si era rivolto con profondo fervore. 

    Udì un rumore di passi sulla ghiaia vicina e trattenne il respiro, poi una mano gli toccò il braccio.

    Immagino vi siate perso, disse la voce, riportando Murchison nella realtà.

    A meno che non stiate invocando il Custode dei libri del Re, credo che abbiate sbagliato strada, continuò la voce. Volete che vi accompagni all’uscita? Ho un discreto senso dell’orientamento, perciò penso troverete in me una guida affidabile.

    La voce era quella di un uomo colto e aveva il tipico non so che di chi è abituato a frequentare ambienti intellettualmente raffinati. Era inoltre stranamente squillante e lui ne conosceva soltanto una così. Curioso come la mente quel pomeriggio continuasse a rievocare la sua breve esperienza militare. Era talmente immerso nei suoi pensieri, che si dimenticò di rispondere al suo interlocutore.

    La voce quindi lo incalzò.

    Penso che fareste bene a venire con me, che lo vogliate o meno. No, non sono un poliziotto, ma voi non mi sembrate lucido e la carità cristiana mi costringe a prestarvi soccorso fino al cancello. Anzi, dal momento che stavate invocando il Grande Dio Pan, forse preferite una carità più squisitamente pagana. In ogni caso è meglio che mi seguiate, se non volete rimanere chiuso qui dentro e trascorrere la notte in qualche insalubre gattabuia.

    Murchison, sentendosi un perfetto idiota, si lasciò condurre per il braccio nell’oscurità e in un disperato tentativo di ricomporsi riuscì a dire:

    Sono terribilmente rammaricato. Penserete sicuramente che sia un cretino. Non sono ubriaco, affatto. Io… ero solo preso dai miei ragionamenti e mi sono smarrito nella nebbia.

    Ehi, ma io questa voce la conosco e ho un’ottima memoria. Perciò, ditemi chi siete, esclamò il compagno invisibile.

    Murchison si irrigidì. Temeva di essere finito nel bersaglio di qualche imbroglione, così rimase in silenzio.

    Mi sembra giusto, continuò la voce, mai svelare il proprio nome a un estraneo. Allora permettetemi di dirvi il mio, giacché sono alquanto sicuro di conoscervi. Mi chiamo Brangwyn. Ora riuscite a riconoscermi?.

    Se il Grande Dio Pan fosse apparso in persona, l’effetto su Murchison non sarebbe stato altrettanto soverchiante.

    Ci mise talmente tanto a riprendersi, che l’altro cominciò a pensare di essersi sbagliato nell’identificarlo; ma alla fine Murchison trovò il coraggio di rispondere:

    Buon Dio, signore, è lei?

    Sì, sono io, e dal modo in cui vi rivolgete a me dovete essere una delle mie ex reclute. Chi siete? Roberts? Atkinson? Murchison? Sì, credo siate Murchison, giusto?

    , fu tutto quello che riuscì a dire l’altro. Se il dio della tua adolescenza sbuca dal buio dopo aver offerto la tua anima al diavolo, è impossibile resistere all’associazione di idee. Murchison era ancora scombussolato dall’improvvisa ribellione alla sua misera vita; si era perso nella quarta dimensione e non era completamente lucido, perciò quando la voce improvvisa, emersa dalle tenebre, aveva risposto all’invocazione, aveva pensato che le sue fantasie fossero divenute realtà e che gli antichi dèi fossero davvero tornati per lui. Gli si erano raccolti attorno, lo incitavano; lo shock gli aveva fatto perdere il senno e il subconscio aveva scalzato la ragione, assumendo il controllo.

    Brangwyn non poteva vedere il volto dell’amico al buio, ma prestò attenzione al timbro della sua voce. Il suo orecchio, particolarmente sveglio, gli diceva che in quell’uomo c’era qualcosa che non andava, come se stesse vivendo un’intensa tensione emozionale. Ricordò il giovane sveglio e appassionato degli ultimi anni della guerra e si chiese cosa avesse fatto in tempi di pace.

    Che ti è successo dall’ultima volta che ci siamo visti?, domandò.

    Sono ancora vivo, rispose Murchison con una risata brusca.

    Uno sbiadito bagliore arancione filtrò nella nebbia dinanzi a loro.

    Quelli dovrebbero essere i lampioni in prossimità dei cancelli. Almeno, lo spero, disse Brangwyn. Ora, se riesco a farti uscire vivo da qui, ti trascino in una sala da tè di mia conoscenza su Southampton Road e ti invito a berci qualcosa assieme.

    Murchison accettò l’offerta con entusiasmo esagerato e Brangwyn si chiese se non fosse affamato e a corto di danaro. Durante il periodo di pace i due ex compagni di guerra avevano vissuto esperienze sui generis, ma Brangwyn si sbagliava. Non era di cibo che Murchison aveva bisogno, bensì di qualcos’altro.

    Con i lampioni e il cordolo del marciapiede a fare da guida fu più agevole procedere. La planimetria di Bloomsbury si sviluppa su angoli retti, perciò bastava sapere quante strade attraversare per arrivare al punto, svoltato il quale, ci si ritrovava su Southampton Row. 

    Una volta lì, i due amici riuscirono a farsi strada tra i negozi illuminati, finché entrarono in un’ampia caffetteria.

    La luce del locale era talmente forte che per poco non ne rimanevano accecati, dopo tutto il tragitto fatto a tentoni nella penombra.

    Brangwyn si diresse verso un tavolino nell’angolo e per la prima volta riuscì a vedere il volto del suo compagno, mentre sedevano uno di fronte all’altro.

    Ecco come la presunta pace aveva trasformato quel distinto giovanotto. Se l’avesse incontrato per strada, non l’avrebbe nemmeno riconosciuto. Conservava qualcosa dei vecchi tratti, ma niente di più.

    Lo studiò attentamente. Sembrava piuttosto disorientato e imbarazzato, e Brangwyn si domandò cosa l’avesse indotto a invocare Io Pan nel nebbioso piazzale del British Museum. Era davvero curioso che si fosse imbattuto in Murchison proprio mentre cercava un uomo come lui. Robusto, virtuoso, nordico. Il classico vichingo, insomma; e Murchison, se ricordava bene, veniva dallo Yorkshire, perciò probabilmente discendeva dai Vichinghi. Prese a osservarlo, dopo avergli porto il menu per distrarlo dalla propria disamina. Era fondamentale che non si lasciasse fuorviare da inutili sentimentalismi per la cattiva sorte del giovane. Né poteva saltare alla conclusione che Murchison fosse esattamente quello che cercava per il solo fatto che era comparso al momento giusto. Nei cruciali dieci anni che separano un ventenne da un trentenne possono accadere cose strane, specie in periodi di stress. Brangwyn doveva essere cauto e non lasciare che l’impulso, mascherato da intuizione, lo portasse fuori rotta. Un singolo errore avrebbe avuto ripercussioni inimmaginabili.

    Murchison, avendo fatto la sua scelta, sollevò lo sguardo da dietro al menu e per la prima volta incontrò gli occhi dell’amico più anziano, fissi su di lui. Proprio come Brangwyn, aveva sfruttato lo stratagemma del menu per altri scopi, facendo finta di leggere per riuscire a prendere tempo e darsi un contegno. Decisero di ordinare dei crumpet e quando la cameriera si allontanò rimasero soli. Avevano l’intera caffetteria a disposizione, giacché gli altri avventori se n’erano tornati a casa per via della nebbia.

    Brangwyn non aveva alcuna intenzione di arrivare dritto al punto, voleva conquistarsi la fiducia del compagno prima di avanzargli qualsiasi proposta. Non sarebbe stato giusto sobillare le sue speranze per poi distruggerle, perciò fece virare la conversazione sui vecchi commilitoni e sulle esperienze di guerra, con Murchison che lo seguiva colmo di gratitudine, visto che temeva domande sulla sua vita. Non aveva nulla di buono da raccontare, né voleva raccontare storie tristi.

    Così parlarono piacevolmente tra un tè e una sigaretta, e Brangwyn cominciò a riconoscere in Murchison la recluta dei vecchi tempi.

    Hai molta strada da fare per tornare a casa stasera?, domandò dopo un po’, quando i piatti vuoti non fornirono più alcuna scusa per far allontanare la cameriera, che continuava a ronzare attorno con la manifesta intenzione di sbarazzarsi di loro.

    Acton, disse Murchison con tono secco, riportato bruscamente alla realtà dall’aver semplicemente pronunciato quella parola.

    Dio buono, ma non ci arriverai mai, rispose Brangwyn, dentro di sé soddisfatto e cogliendo l’occasione che cercava. Lascia che ti ospiti da me. Ho degli appartamenti per scapoli proprio dietro l’angolo. Ci beviamo del buon punch al rum davanti al caminetto e ci divertiamo un po’.

    Murchison non se lo fece chiedere due volte.

    Quell’invito era un regalo che superava le sue più rosee aspettative. Brangwyn aveva ancora su di lui un grande ascendente. Non poteva immaginarsi niente di meglio che trascorrere la serata a chiacchierare con lui; e, soprattutto, a farlo da pari, perché la distanza che separa un trentatreenne da un cinquantatreenne è assolutamente trascurabile rispetto a quella che scorre tra un ventenne e un quarantenne. Il giovanotto era ormai un uomo e il suo compagno era ancora nel pieno delle sue forze.

    Lasciarono il negozio assieme, scoprendo che la nebbia si era diradata moltissimo, il che era una fortuna.

    La casa non era facile da trovare nemmeno di giorno e Brangwyn cominciava a chiedersi se non si fosse spinto troppo in là nell’invitare l’amico a seguirlo.

    Abbandonarono Southampton Row, imboccarono un vicolo, attraversarono una piazza, quindi si infilarono nell’ennesimo vicolo. Fu un tragitto misto e quel quartiere appariva distintamente insalubre. Ogni qual volta si imbattevano in gruppi di persone che bighellonavano agli ingressi dei vicoli, Brangwyn ringraziava di non essere solo, perché quella era la serata perfetta in cui commettere un’aggressione passandosela liscia.

    Nonostante lo squallore a cui si era ridotta, quella parte della città aveva un suo fascino, e nemmeno la sporcizia o la fatiscenza delle case spegneva la grazia dell’architettura georgiana. Tuttavia, era meglio ignorare cosa nascondessero i tombini.

    Svoltarono verso sud, in una strada di negozi disadorni, e Brangwyn inserì una chiave nella serratura di una porta stretta accanto a un ristorante italiano ad angolo.

    Quindi entrò. La luce dei lampioni, che filtrava attraverso la lunetta, era sufficiente a illuminare la consunta tela cerata dell’ingresso. Una lunga scalinata disadorna si perdeva tra le tenebre del piano superiore, fiancheggiata su entrambi i lati da un muro privo di corrimano. Era una dimora scialba e Murchison concluse che anche Brangwyn dovesse essere caduto in miseria dai tempi della guerra, visto che passava per essere una persona abbiente.

    In cima alla scala c’era un’altra porta, che Brangwyn aprì con un’altra chiave. Era difficile comprendere perché chiudere entrambi gli usci a chiave, visto che sia nel corridoio che sulla scala non si affacciavano altre stanze.

    Brangwyn accese la luce e tenne la porta aperta per far entrare il suo compagno, quindi Murchison si ritrovò in un altro mondo.

    Tutta la parte superiore della casa ad angolo e delle due contigue era stata ristrutturata lasciando la facciata intatta, cosicché da fuori era impossibile immaginarsi l’interno. Esternamente le tre case condividevano lo stesso squallore della strada, poiché la pittura degli infissi in legno era perfettamente in pendant con il lerciume circostante e le luride tendine in pizzo di Nottingham erano tirate contro le finestre, rese invisibili agli occupanti della casa mediante l’utilizzo di tende interne di seta dorata.

    Dalla casa angolare era stato eliminato un intero piano, rendendo il salotto in cui erano entrati spazioso e col soffitto alto. Un grande camino di mattoni levigati, recuperati dal muro divisorio rimosso, occupava l’angolo posteriore dell’appartamento a ventaglio; nel largo e piatto focolare ardeva una pila di legna e torba, sebbene si morisse di caldo per via del riscaldamento centrale acceso. Il pavimento in parquet lucidato scuro era coperto da tappeti morbidi e spessi, mentre su entrambi i lati del camino erano posizionati un divano e due ampie poltrone. I libri rivestivano le pareti dal pavimento fino al ballatoio, supportati da massicci sostegni di legno che un tempo avevano funto da travi, mentre sul ballatoio si aprivano porte di presumibili stanze da letto, di quelle che gli agenti immobiliari chiamano locali per uso ufficio.

    Brangwyn si chinò in avanti e gettò un fiammifero sulla pila all’interno del focolare.

    Mi piace avere esche per il fuoco in abbondanza, disse mentre le fiamme crepitavano nel camino. È quel genere di cose apparentemente inutili che ti rendono la vita migliore e di cui le donne non riusciranno mai ad afferrare l’importanza. 

    Prendi questa poltrona, continuò, "e fa’

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