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Una spassosa Apocalisse
Una spassosa Apocalisse
Una spassosa Apocalisse
E-book206 pagine2 ore

Una spassosa Apocalisse

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Info su questo ebook

Strane, bizzarre e deformi le creature di Rodolfo Bersaglia provengono dai margini, dalla provincia, ma puntano a conquistare la ribalta, il centro della storia. Mossi da impulsi e desideri comuni, soprattutto l’amore, si lanciano in avventure straordinarie, tanto finte e posticce da incarnare la verità del nostro tempo grottesco. Sacerdoti, giovani spiantati, portalettere, bariste: l’umanità che popola Una spassosa Apocalisse è la più varia.
Si inizia dall’attesa del salvatore, quindi dall’anno zero, che però è un anno zero del futuro, perché è un salvatore clonato che si attende, com’è normale che sia, al tempo della riproducibilità tecnica. Padre Yap e padre Gurla si esercitano con le reliquie dei santi per arrivare al giorno in cui riusciranno a clonare Gesù. Ci riusciranno?
Non è la trama a interessare chi narra le gesta di questi esseri bizzarri ma l’intreccio, il garbuglio, il grumo di piacere e dolore che spinge a esistere, a godere e soffrire chiunque di noi. Per non lasciarci smarriti nel labirinto il narratore ci tira a sé con il filo del racconto.
LinguaItaliano
EditoreArgolibri
Data di uscita19 dic 2020
ISBN9788831225144
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    Anteprima del libro

    Una spassosa Apocalisse - Rodolfo Bersaglia

    Rodolfo Bersaglia

    Una spassosa Apocalisse

    ISBN: 9788831225076

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Fari

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    XIX

    XX

    XXI

    XXII

    XXIII

    XXIV

    XXV

    XXVI

    Fari

    2

    Collana diretta da Valerio Cuccaroni

    «for, f a tus sum, f a ri: palesare; far noto, pronunziare, partic. di divinità, oracoli, profeti (profetare) e sim. , I) in gen., parlare, dire (contrario a tacere ), II) partic.: A) del poeta = can-tare, B) di profeta, indovino = predire, profetare, vaticinare » (Ferruccio Calonghi, Dizionario Latino - Italiano , 3^ ed.)

    Giacomo Leopardi scriveva così a Pietro Giordani:

    «Ma che crede Ella mai? Che la Marca e il Mezzogiorno dello Stato Romano sia come la Romagna e il Settentrione d’Italia? […] Qui, amabilissimo Signore mio, tutto è morte, tutto è insensataggine e stupidità. Si meravigliano i forestieri di questo silenzio, di questo sonno universale. Letteratura è vocabolo inaudito.»

    Quel che m’ha preso del velenoso miele dei miei luoghi…

    Dopo chissà quanti anni sognai ancora quei luoghi, che non erano più miei. Forse non lo erano mai stati, però la memoria me li restituiva affinché in ognuno di essi ambientassi alcune ossimoriche, ma realissime fantasie suggerite dalla vita odierna. Lo facevo al fine di evadere da quel che era divenuta l’esistenza.

    Ogni luogo della mia terra ha raccontato storie introducendo un protagonista ideale da cui farsi interpretare. Erano gli attori a pretendere un luogo preciso dove agire o quello scenario nominava ineluttabilmente un preciso attore? Non c’è una regola fissa. So soltanto che in ognuno di quei luoghi, che potrei mostrarvi col dito, sarebbero potute accadere le vicende qui narrate, che hanno per protagonisti personaggi che potrei presentarvi di persona.

    Bastava immaginare le aspirazioni di quegli eroi per intuire le imprese che avrebbero potuto compiere in palcoscenici così suggestivi, che ammiravo morbosamente. Non riesco a dimenticare quasi nulla, né m’illudo di farlo.

    Prefigurando ciò che quei talenti avrebbero verosimilmente inscenato, non ho sopravvalutato la realtà ipotetica, ma ho soltanto svolto un processo alle intenzioni per individuare il movente delle azioni. La cronaca nera e rosa hanno collezionato ciò che vi riferirò accadde nelle nostre province e periferie. Gli acrobati e i pagliacci hanno onorato le aspettative che avevo riposto in loro sin da adolescente. Dunque provo orgoglio e paura!

    Spesso i veri istrioni abitano zone quiet issime. Più hanno potenzialità rocambolesche più scelgono ambienti appartati in cui operare e ciò che vedi compiere loro è nulla di fronte alle visioni che hanno e che potrebbero trascinarli ad agire l'inenarrabile.

    Per la riluttanza di mostrare le loro invenzioni, ho dovuto leggere nella loro testa quel che avevano intenzione di creare. Non tutto di quel che leggerete è stato realmente commesso, sebbene i protagonisti che qui appaiono avessero a lungo cullato il sogno di compierlo. Affiorano dunque recondite e deflagranti ambizioni, sopravvissute al crescente conformismo, che tentano di minarne lo slancio. Io ho solo mischiato tra loro episodi, attori e luoghi, come fossero carte da gioco, benché un due di coppe resti un due di coppe anche se rimescoli per mezz’ora il mazzo.

    La Marca Anconetana ha indiziato le marionette che ho trasposto dai loro teatrini in più liberi spazi, al fine di affidar loro gli arditi canovacci che prefiguravano anche a costo della rovina.

    I miei beniamini non sanno d’essere dei prodi, semidei in via d’estinzione. I luoghi cambiano e gli eroi s’estinguono; non c’è più tragedia, né commedia, ma solo tragicommedia. Il cabarettista ci fa piangere e l’attor drammatico è uno spasso, c’inteneriamo sino alle lacrime a vedere qualcuno che tenta di divertirci e non c’è più il genere impegnato perché ci farebbe sbellicare.

    Tutto m’è apparso come un dipinto del pittore Buonamico Buffalmacco, provinciale maestro del Trionfo della morte . Ne è invece uscito un affresco villano della vita minore, dove gli umani gesticolano sul palco come animali da circo accompagnati dalla melodia di una fanfara scordata da sagra di paese.

    Ingaggiati senza uno stabile credo, né una persistente fede, mentre centellinavano sigarette, bevevano o assumevano farmaci, i protagonisti si sono associati in anomali gruppi. In tal modo ogni verità, persino una verità assoluta, si sdoppia almeno.

    Ho voluto celebrare la fine della new wave italiana, che non è stata rimpiazzata da altro che un frullato di dejà vu .

    I

    Clonare il bene

    Monsignor Yàp tenne per molti decenni un sintetico diario redatto con la sua inconfondibile calligrafia. Scriveva mentre leggeva i misteri dolorosi, facendo spesso cenno all’usanza di castigarsi.

    Ebbe un figlio prima di prendere i voti. Sarà stato per tale colpa che Yàp auspicava una nuova evangelizzazione, poiché quel che capitava nel mondo non pareva niente di confortante.

    Aveva creduto strenuamente in Dio, prima che in ogni altra cosa, ma pure nella scienza. Di fronte al miracolo più grande della scienza – la Clonazione – s’era sentito un po’ in difficoltà, deponendo il tarlo medievale di credere per capire o capire per credere.

    Per una volta nella vita, voleva approfondire. La sorte gliene diede presto la possibilità. Laureato in medicina e scienze biologiche, presi i voti al termine della seconda facoltà, fu presto avviato a una brillante carriera scientifica in seno alla religione di Stato.

    Fu poi nominato membro della commissione che doveva operare una ricognizione sul Sacro Lenzuolo: analizzare nuovamente la Santa Sindone!

    Questo gli fece concepire un sogno: il ritorno del Messia! Così gli ebrei sarebbero stati contraddetti e ogni altra religione avrebbe accettato il Cristianesimo con genuflessioni e plauso generale. Non ci sarebbero più state guerre di religione.

    Replicare un comune individuo sarebbe stato un deprecatissimo anatema, ma clonare il Messia era per il bene dell'umanità. Quest’idea lo tormentava come l’uscio mal serrato scosso dal vento. Insomma volle clonare il Re di tutti i santi, colui che avviò la scuola dei santi e che vocò i santi stessi: volle clonare Gesù Cristo dalla Sindone.

    Aspirava ad incrinare quel regime di preti che l’aveva voluto sacerdote, poiché anche scienziato era, pure se sentiva di dover accertare l’imperfettibile credo, dimostrando appunto che nessun fenomeno scientifico poteva essere in disaccordo con quanto la Chiesa aveva disposto riguardo ogni aspetto della vita e dell’umano divenire.

    Il suo acuto cervello era una fonte di splendori, sempre più occupato in ricognizioni su cadaveri mummificati di santi e beati.

    Fu proprio in quel percorso che gli venne l’idea: raccogliere il necessario dai resti delle santità, sparsi e scompaginati nelle teche, per assemblarli nella forma organica di una perfetta replica.

    Sarebbe bastato un brandello di pelle, la cica incartapecorita di una velatura d’osso…La sua carriera era stata consumata dalla soda caustica delle gerarchie, che aveva corroso lo smalto del suo genio e, seppure fedele al messaggio d’umiltà, era stanco di vestire quella palandrana: né saio né clergyman. Senza porpora, mezzo levita e mezzo ricercatore, aveva la concessione di girare indisturbato, vestito in borghese, e di mangiare al refettorio stufato con uova e verdure. Quella fricassea era l’unico piatto commestibile dello chef del reparto vaticano, su cui gravava il più assoluto riserbo, anche riguardo alla ricetta. Fiasco dopo fiasco, a seguito di errori di datazione della clavicola di un martire, dopo un’eccessiva senescenza attribuita ad una santa impacchettata nel tufo di una catacomba, gli vennero ammonimenti severi sui suoi stessi fraintendimenti, che gli procurarono un certo scoramento. Di lui non si diceva gran che in quegli austeri corridoi. Addirittura lo mandarono per un po’ di tempo a servire presso l’ambulatorio dei focolarini, sebbene non si sentisse un seguace dei laici movimenti cristiani. Avrebbe dovuto riscattarsi. Impegnato nella ricerca, dimagrì e indossò giacche e camicie strette in vita, e capi d’abbigliamento sfiancati. Fece trovare un tralcio d’ogni varietà di rose rampicanti sulla scrivania del presidente della commissione per le beatificazioni e raddoppiò la sua disponibilità su tutto il territorio nazionale ad effettuare ogni sorta d’accertamento anatomico, su tronconi, falangette e scalpi d’ogni ritaglio di santità.

    Avreste dovuto vederlo: s’immergeva nelle cripte e, preso il fiato, annegava nei sarcofagi. Usava i suoi strumenti d’analisi e incideva stilando grandi referti osteologici.

    Mentre il Giubileo trionfava, lui concludeva l’ennesima ricognizione scritta e, grazie a quelle relazioni cliniche, divenne famoso in tutt’Italia. Intervistato in uno dei canali nazionali, disse:

    «Un buon santo, intendo dire, un buon cadavere, con tutti gli arti al loro posto, lo si trova di rado, quanto di rado si presenta in cielo la cometa di Halley…»

    «Che intende dire?», gli chiedevano servilmente i giornalisti televisivi più osservanti, e lui rispondeva: «Perché ho già settant’anni e non ho ancora ritrovato un corpo di santità su cui avviare la ricognizione perfetta...»

    «E dunque? Ci faccia capire!», lo incalzava ancora più confuso l’intervistatore.

    «Oh, scusi… intendo dire che mi resta sempre la grande curiosità d’immaginare, quando magari analizzo un teschio, la faccia che avrebbe mostrato quel sacro uomo a chi l’avesse visto al suo tempo… capisce?»

    «Intende dire che le resta il cruccio di non capire per intero l’aspetto di chi analizza i resti?»

    «Appunto. Per fare un esempio che tutti capiranno, immaginiamo: sulla sacra Sindone, che per noi credenti autenticisti è il sacro sudario in cui fu avvolto Gesù, dovrebbe essere stampato il suo volto, m’intende?»

    «Oh, sì… credo che adesso anche tutti i nostri telespettatori abbiano capito il difficile concetto che vuole esporci.»

    «Ecco, mi sono sforzato d’immaginare l’aspetto del nostro Signore Gesù Cristo… insomma tutti si sono sforzati di fare questo, ma nessuno ha ottenuto, neppure al computer, le sue sembianze certe…»

    L’intervista finì con Yàp che soffocava sommessi singhiozzi in un fazzolettino da educanda, molto ammirato dall’ufficio scientifico centrale. Le aspettative dei fedeli furono così alte che il prelato fu convocato per sovrintendere l’annuale ricognizione sulla Sindone di Torino.

    La gioia vinse sull’afflizione per i precedenti fallimenti: non esisteva esperto più avanzato di lui in materia.

    Negli ultimi cinque anni aveva segretamente alternato ardite ispezioni su santità eremite a fervide ipotesi di laboratorio sulla clonazione di soggetti umani.

    Quante ne aveva viste: peggio degli ufo precipitati. Lui indagava dalla giovinezza sui resti che la misericordia lascia integri all’avanzata dei vermi, ispezionando carcasse scuoiate nell'abbandono secolare delle polveri.

    Seppe tutto ciò che gli scienziati tentarono di attuare nel secolo XX. Fece crescere nella sua serra gli embrioni, forse al fine di creare nuovi schiavi senza doverli deportare. La scienza voleva sanare gli organi malati dell’uomo poiché la morte di quegli organi avrebbe posto la parola fine all’uomo stesso.

    Incontrò quei mostri, descritti con secoli d’anticipo dai visionaristi, e ora creati dall’uomo.

    Yàp avrebbe schivato i truculenti tentativi operati sui mortali, per compiere invece la grande opera: far rinascere Cristo, come lo aveva fatto nascere Dio stesso. Avrebbe compiuto un atto spirituale estremo: ridonare una santità al mondo. L'avrebbe materializzata, con un esperimento di laboratorio. Insomma: avrebbe clonato la trascendenza!

    Invitarono monsignor Yàp in America.

    Si era già recato negli Stati Uniti, ospite del governo, per accertare in orridi laboratori come cercassero di replicare pecorelle dai dolci nomi di bambola.

    Ora invece il laboratorio W. I. L. M. A. acronimo di World International Laboratories for Man Assistance era fuori Los Angeles, dove il deserto fa sentire il suo calore insopportabile e le case svaniscono come soffiate via da un ordigno nucleare.

    Lì dentro avevano tentato di ricreare il più vasto assortimento di esseri redivivi. Avevano reclutato a suon di migliaia di verdoni i luminari giusti per imprese del genere.

    Per un miliardario locale avevano tentato di clonare un cane chow chow a lui assai caro.

    Un altro magnate, Mister Hans Paer, perso un figlio, ne voleva uno nuovo, ma senza crearlo con lo sperma. Senza insulsa leziosaggine, aveva impetrato:

    «Voglio riabbracciare mio figlio, ricominciare ad imboccarlo...»

    Così l’équipe s’era messa ad armeggiare e, riesumato il cadavere – che non finì mai davvero sottoterra, ma riposava beato in una cella frigorifera – nottetempo, erano già pronti.

    «Nulla avrebbe riportato in vita mio figlio: la medicina tradizionale è impotente!», aveva urlato indignato il ricco padre alla stampa.

    La vettura su cui viaggiava il figlio era stata schiaffeggiata da due camion di una trentina di metri di lunghezza. Troppe tonnellate d’impatto perché il suo hard top reggesse.

    Il miliardario trovò ciocche di capelli del figlio e circa dodici altri reperti del suo corpo. Ora non restava che sperare nella scienz a. Nei laboratori W. I. L. M. A. furono informati sugli strumenti e sulle loro potenzialità, ed ebbero in consegna doviziosi appunti sugli esperimenti già effettuati. Quello che poteva sembrare a un occhio ingenuo un inventario d’aborti sotto formalina era in realtà una disastrosa sequela di tentativi. Pareva che la visione si sfocasse, che occorresse ridare il filo alle lame dello sguardo, al vedere mezza testa normalmente sviluppata e la restante metà sgonfia, come non fosse giunta a maturazione. Un forte odore di fienagione invadeva le sale e i disinfettanti facevano girare la testa.

    Tutto era conservato nelle teche, da cui emerse il fascicolo sul tentativo di clonazione del figliolo di Hans Paer. Fu Padre Gurla, l’assistente di Yàp, a rintracciarlo.

    «Nella sua valle Dio giudicherà le genti», mormorava Gurla, «Oh Giosafat, Giosafat!», e pareva piangere da un istante all’altro.

    Yàp invece pensò che, grazie ai fondi di Paer cui avrebbe clonato il figlio, sarebbe anche riuscito ad utilizzare il lembo della Sacra Sindone per compiere l’operazione nel laboratorio di Los Angeles.

    So benissimo, so benissimo della responsabilità che grava su di me… restituirò tutto alla fine dell’esperimento!, diceva a se stesso.

    Tutto in ordine: sulle cornici superiori delle porte erano stampati i numeri in progressione di ognuna delle stanze, e le insegne a colori tenui erano avvitate sui serramenti.

    «Una tecnologia tale non l’avrei trovata in nessun altro laboratorio abusivo!», ribadiva Yàp al suo aiutante, padre Gurla, frequentatore assiduo e compiaciuto d’obitori.

    Come l’ammirava il suo faccendiere! Come pregava Gurla, mentre fissava il cielo lunare, che il sogno del suo mentore si potesse avverare! Yàp, in abitino nero e impeccabile camicia grigia con collarino, sorrideva a Gurla che aveva l’alito da scolafritto.

    «Ha preso le chiavi?», chiese Yàp a padre Gurla e quello assentì con i follicoli in moto sussultorio. Si sentiva più alto e poteva vedere oltre. Avrebbe dormito quella notte, Gurla, avrebbe russato come il torchio geme nelle tipografie della cancelleria apostolica. Quel russare tanto piaceva

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