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Fantasmi d'Italia
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E-book391 pagine5 ore

Fantasmi d'Italia

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Info su questo ebook

Un itinerario suggestivo sulle tracce dei fenomeni più misteriosi e inspiegabili del Bel Paese

Il 1857 segna la nascita in Francia di un fenomeno nuovo, destinato a scuotere animi, suscitare interesse scientifico e culturale: lo spiritismo. L’Italia di fine Ottocento, con la nascita di discipline scientifiche e movimenti letterari, seguirà con interesse il mondo del paranormale: case private e circoli culturali ospiteranno sedute spiritiche, innescando un sempre maggiore coinvolgimento destinato a dilagare tra il grande pubblico. Questo libro traccia un itinerario ideale, regione per regione, dei luoghi che ancora oggi sono ammantati dall’aura del mistero e del fantastico: un viaggio tra le storie e i personaggi, le loro vite e gli eventi rimasti senza spiegazione. Da Villa Foscari e Ca’ Dario di Venezia alla Villa delle Streghe in Lombardia; dal fantasma torinese di Camillo Benso di Ca­vour passando per il celebre castello di Montebello, teatro delle apparizioni recenti del fantasma di Azzurrina. Un vademecum per conoscere non solo leggende e narrazioni antiche, in compagnia di antichi e moderni iniziati e di maghi, esoteristi e medium celebri, ma anche un diario di viaggio per percepire bellezza, fascino e storia di luoghi a volte dimenticati.

Antichi demoni, folletti, spiriti e stregonerie, dalle Alpi alla Sicilia

Tra i fantasmi d’Italia:

In Valle D’Aosta tra castelli e dame, amori e tradimenti
In Lombardia sulle tracce di dipinti e pittori
A Trento dove lo spiritismo è in rima
Genova, tra roghi, streghe e vendette d’amore
Il fantasma, gli spettri innamorati e la serendipità fiorentina
A Narni, l’alchimista delle segrete
Abruzzo: in giro andiamo tutta la notte e veniamo consumati dal fuoco
Campania: la rosa alchemica
Due demoni incatenati in Calabria
Nel rifugio dei Beati Paoli in Sicilia
In Sardegna: il fantasma del mistico cabalista
Pierluigi Serra
È nato a Cagliari nel 1960. Giornalista e autore, ha collaborato con diverse testate giornalistiche, scritto per antologie e riviste e ha realizzato documentari per la televisione. Si occupa da diversi anni di esoterismo e dei fenomeni legati alla magia e alla spiritualità. Attualmente scrive per il quotidiano «L’Unione Sarda» nella pagina della cultura. Con la Newton Compton ha pubblicato anche Sardegna misteriosa ed esoterica, Storia e storie di magia in Sardegna, I racconti segreti della Sardegna e Fantasmi d'Italia.
LinguaItaliano
Data di uscita17 set 2021
ISBN9788822760029
Fantasmi d'Italia

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    Anteprima del libro

    Fantasmi d'Italia - Pierluigi Serra

    Piemonte

    Sotterranei delle Porte Palatine di Torino

    Dietro il portone malconcio di via Porta Palatina non si avvertiva solo l’odore di umido e stantio: sembrava in realtà che oltre le imposte di legno del palazzo situato a metà della strada si fosse concentrato il ricordo di qualcosa che irritava il naso e metteva in allarme i sensi, rimandando al cervello tutta la negatività delle sensazioni scaturite dal luogo. La strada era incuneata secondo la logica della viaria romana e in passato rappresentava il cardo massimo della Augusta Taurinorum in diretto collegamento con il decumano massimo dalla via Garibaldi, già via Dora Grossa. Una strada antichissima nella quale si erano sedimentate storie e vicende di vita, frammenti di esistenze che avevano lasciato una loro traccia: amori e tradimenti, nascite e morti a volte violente. Le pietre e i muri scrostati sembravano tenere memoria dei fatti che si erano consumati tra i palazzi, nelle abitazioni e tra le stanze a volte oscure, rilasciando occasionalmente agli animi dotati di sensibilità la testimonianza delle vite trascorse. Si raccontava di un antico manicomio, di un luogo di detenzione per i malati di mente e per gli schizofrenici, una sorta di carcere ospitato in quello che poi sarebbe divenuto un edificio destinato ad accogliere famiglie bisognose. Non una struttura riconosciuta dal punto di vista medico ma un qualcosa di parallelo dove confinare segretamente chi era affetto dal mal della mente. Sull’intero isolato, compreso tra le odierne vie Palazzo di Città, via xx Settembre, via Cappel Verde e via Porta Palatina, sembrava gravare un’atmosfera pesante e cupa, forse retaggio di eventi lontani che avevano avuto luogo nel Medioevo. Chi, agli inizi del 1900, raccontava di oscure ombre e rumori notturni, di urla e tonfi sordi provenienti dal sottosuolo, veniva spesso considerato come un visionario o, nel caso più benevolo, come un burlone: eppure, al calare del sole, la strada dopo essersi svuotata dal normale viavai di gente e di commercianti assumeva un’aura più tetra, resa maggiormente densa dalla fioca illuminazione. Il viandante che transitava per quella via lo faceva con circospezione e con fretta, attento a ogni movimento sospetto, a ogni ombra, cercando soprattutto di non prestar fede alle voci e alle narrazioni che vedevano uno di quei palazzi popolato di spiriti e anime irrequiete. Una delle poche persone a non nutrire dubbi sulla reale esistenza di un’atmosfera negativa imbrigliata tra le mura dell’edificio antico era Enrichetta Naum. Di lei si conosceva ben poco, ma le scarne notizie che circondavano la sua persona bastavano a renderla speciale e unica. Così come unico era il suo ruolo nel quartiere, forse nell’intera città. Nella sua abitazione, al numero 6 di via Cappel Verde, transitavano le speranze di malati, di oppressi, di presunti o reali indemoniati, di posseduti da spiriti maligni o afflitti da grandi maledizioni: per lei, nata nel 1843, era stato riservato un posto speciale nella comunità, unica donna a essere ammessa tra le fila degli esorcisti autorizzati dalla diocesi piemontese. Il dono, che lei affermava essere arrivato direttamente dal Cielo, l’aveva resa unica e famosa, così come era nota la sua casa, meta di ogni sorta di disperazione. Cinquantadue anni appena compiuti, nel 1895 Enrichetta Naum decide di trasferirsi a poca distanza dalla prima abitazione di via Cappel Verde: a detta di molti la casa era divenuta oramai invivibile per le troppe energie negative accumulate, per le anime che venivano richiamate durante gli esorcismi che la donna praticava. Cambia residenza subito dopo la morte del marito e sceglie come abitazione l’ultimo piano di un palazzo situato a poca distanza, appena dietro l’angolo di via Cappel Verde. In via Porta Palatina prosegue la sua attività di esorcista, accogliendo tra le mura domestiche anche chi era realmente posseduto da entità soprannaturali. Compie numerosi riti che le comportano sempre un grande affaticamento e un impegno fisico e mentale enorme. Forse è anche questo il motivo del suo lento distacco dagli esorcismi, non prima di aver lasciato nell’abitazione energie e residui delle attività soprannaturali. Il palazzo, così come era già accaduto per la sua prima abitazione, è il catalizzatore di eventi che si protrarranno negli anni, anche dopo il nuovo trasloco di Enrichetta Naum. Non solo gli appartamenti del palazzo, dislocati lungo i quattro piani angusti, erano più volte il teatro di accadimenti particolari, tra rumori sordi e lamenti che parevano provenire dal sottosuolo: tra le fondamenta del palazzo si apriva un mondo quasi sconosciuto e poco frequentato, negli scantinati antichi ricavati dagli infernotti⁶ torinesi. Anche il palazzo di via Porta Palatina conservava sotto il manto stradale una tessitura di cunicoli, alcuni dei quali erano stati murati nel corso degli anni: i più anziani tra gli abitanti ricordavano quanto fossero estesi i percorsi ricavati nella roccia, profondi a volte decine di metri e costruiti su più livelli. Nel 1950 l’ultimo piano dello stabile venne dato in affitto a una famiglia numerosa, governata da una madre ferrea e rigorosa: lei, originaria dell’Ungheria, era fortunosamente scampata ai disastri della guerra restando orfana dei genitori. Il matrimonio nel dopoguerra con un italiano sembrava il ripiego di una vita incerta, vissuta all’insegna dell’arte dell’arrangiarsi e consumata senza speranze di futuro. Schiva di carattere e poco propensa a familiarizzare con gli altri inquilini dello stabile, Johanna Üldözni aveva trasformato gli ambienti domestici nel suo mondo, un pianeta dal quale raramente usciva. Unica sua confidente una vicina di casa che, almeno una volta alla settimana, si intratteneva con lei per raccontarle le vicende del quartiere. Più volte, durante le chiacchierate e le confidenze, le due donne avevano parlato dei rumori incomprensibili e dei suoni che la notte si avvertivano con un’eco proveniente dal sottosuolo. Tonfi sordi e bisbigli, passi e stridio di ferro: il ferro della cancellata che immetteva direttamente negli infernotti del palazzo. I più scettici non davano adito alle voci che parlavano delle anime irrequiete, degli spiriti richiamati dalle pratiche di Enrichetta Naum; altri ben più sensibili affermavano di aver visto ombre e bagliori di luce provenire dalle cantine. Restava ben chiaro che gli inquilini avevano preso l’abitudine di evitare quei luoghi, ritenendoli – nel migliore dei casi – il rifugio oramai incontrastato di grandi ratti.

    Johanna Üldözni, dal passato fumoso e annebbiato da mille ombre, aveva un trascorso di vita con contorni talmente indefiniti da essere incomprensibile ai suoi stessi parenti più stretti: rimasta forse orfana nel corso della Seconda Guerra Mondiale, si era trasferita fuori dal suo paese d’origine per non meglio precisati guai giudiziari. Affermava di essere in contatto con gli spiriti, soprattutto con una presenza che durante la malattia del marito – costretto a letto da un male incurabile – girava nella stanza a vegliare la sofferenza dell’uomo. Certamente l’animo di Johanna, l’essere così cruda nei confronti della vita e verso l’educazione dei figli, aveva trovato terreno fertile nell’abitazione che era stata vissuta dalla medium torinese, da Enrichetta Naum. L’atmosfera domestica, pesante e opprimente, aveva dei picchi impossibili da comprendere: così come erano orribili i racconti di uno dei figli, ossessionato dalle visioni notturne e da un demone che usciva improvvisamente da un armadio. La casa, oggi abbandonata, sembra risuonare ancora dei rumori inspiegabili, pare avvertire ancora il fruscio di pagine che vengono sfogliate da mani invisibili. Quando l’ultima affittuaria dell’appartamento lasciò la terra, addormentandosi per sempre nella sala da pranzo, nei sotterranei del palazzo vennero avvertiti chiaramente i rintocchi sordi di una campana che suonava a morte. Erano gli stessi lugubri suoni che avevano accompagnato altre morti, altri decessi. Qualche anno dopo, forse per una prova di coraggio, uno dei nuovi giovani inquilini dello stabile aveva accettato la sfida lanciata dagli amici: percorrere i corridoi bui delle cantine non appena fosse passata la mezzanotte. Lo videro riemergere, accompagnato da risate orribili e profonde, con il volto contratto, alterato in una smorfia di orrore e dolore. Raccontò, diversi anni dopo, in uno dei rari momenti di lucidità, dell’incontro sotterraneo: le sue mani, che nel buio cercavano il contatto con la roccia, avevano afferrato qualcosa di umido, di viscido e gelato. Una luce era stata accesa improvvisamente, illuminando una mano in decomposizione e – nel tempo necessario per darsi a una fuga disperata – una serie di volti ghignanti, miseri resti di vite passate.

    Ancora oggi quei luoghi sono cosparsi di energie, di quelle forze nascoste richiamate da altri livelli temporali e vitali dalle attività dell’ultima esorcista di Torino.

    Alla ricerca del quadro perduto

    Viaggiare nei secoli e attraverso ciò che l’uomo definisce tempo. Elisabetta Sirani aveva ricevuto il dono, un prezioso regalo che le garantiva la possibilità di spostarsi liberamente in epoche differenti, secondo un’unica clausola: quella di non interagire con gli eventi e con le persone per mutare il corso della storia. Lei era una spettatrice molto particolare impegnata nella ricerca dell’ultimo tassello della sua vita. Torino era una città particolare e lei, che aveva vissuto in una Bologna lontana oramai duecento anni, era rimasta sbalordita dal cambiamento di costumi della società. Come erano differenti le mode, così mutevoli e civettuole, così soggiogate al volere umano che per molteplici motivi modella non solo gli abiti ma si mette a plasmare anche gli animi delle persone. Fu una sera sul tardi, che si ritrovò nella città piemontese, tra palazzi nobiliari e grandi costruzioni che davano l’idea del fasto e della ricchezza. Elisabetta, pur abituata a frequentare la nobiltà del suo tempo, era rimasta colpita dalla magnificenza dei luoghi di ritrovo, delle grandi sale da musica dove risuonavano arie completamente differenti rispetto alle melodie dei suoi tempi. Richiamata, come spesso avviene, dalla presenza di altre anime erranti, la pittrice bolognese si era ritrovata nella grande piazza Castello: leggeva con attenzione i nomi delle vie così come nella penombra era rimasta incuriosita dalla bellezza del grande palazzo reale. Sentiva le forti vibrazioni e le energie che provenivano dal sottosuolo, laddove un tempo avevano lavorato alchimisti e cercatori dell’occulto. Lei, anima di luce, stava sempre alla larga dalle cose negative, cercando di scansare in ogni modo gli spiriti avvolti nell’ombra, i cui percorsi per conquistare la luminosità del bene erano ancora molto ardui. Il richiamo arrivava da una delle vie che s’inoltravano verso oriente. Sentiva il vociare degli umani, il loro confabulare, così come ne percepiva ansie e turbamenti, gioie e spensieratezza: un brusio più forte arrivava da un locale, uno di quei luoghi nei quali i vivi amavano trascorrere il tempo in chiacchiere e pettegolezzi. Lesse l’insegna colorata che spiccava nella via Po: Caffè dei Fratelli Fiorio. Mille profumi e aromi la accolsero prima ancora di notare le delizie sparse sul grande bancone della sala, in un campionario di dolci, sorbetti e cioccolato. Rimpianse per un attimo di essere un fantasma e di non poter allungare la mano per assaggiare uno dei biscotti che un compassato cameriere stava disponendo su un piattino di finissima ceramica. Certo, lo avrebbe fatto sparire in un battibaleno, così velocemente che neppure l’occhio attento del proprietario avrebbe notato quel furto gastronomico. Lei, pittrice raffinata ma capacissima di stare a proprio agio tra le chiacchiere di bottega e le confidenze delle lavandaie, sentiva in quelle sale, zeppe di specchi che riflettevano la luce di grandi candele disseminate tra i tavolini, frammenti di discorsi e mezze frasi: capì, in un batter d’occhio, di non essere l’unico fantasma presente in quel locale. Lo notò, in quella che era stata la sua fisionomia in vita, seduto in uno dei tavolini più defilati: pensieroso e immerso in un mondo tutto suo doveva avere – quando era passato a miglior vita – una cinquantina d’anni. Sinceramente mal portati a giudicare dalla pancetta prominente, dal doppio mento e da quei curiosi occhialini tondi che sparivano in un viso rubicondo. Si presentò come Camillo Benso conte di Cavour, esibendosi in un inchino e nel tentativo di un baciamano mal gradito: Elisabetta aveva già sentito parlare, da altre anime, di quello spirito che girovagava ancora per Torino, lungo le strade principali della città che lo aveva visto nascere, diventare potente e importante e poi strapparlo alla vita per le complicanze di una malattia polmonare. I suoi funerali, di cui Elisabetta aveva avuto informazioni da altre anime sue confidenti, era stato così imponente che il 6 giugno del 1861 la città intera si era fermata per scortare il lungo corteo che dal palazzo di famiglia, nella via Arcivescovado più tardi chiamata proprio via Cavour, aveva accompagnato il nobile defunto fino alla chiesa di Santa Maria degli Angeli. Nonostante la scomunica che il papa Pio ix gli aveva riservato per l’impegno che lo statista aveva profuso nel far approvare la legge sui conventi, con l’allontanamento degli ordini religiosi dalle loro proprietà, la messa venne celebrata con una grande partecipazione di popolo.

    Loquace e brillante in vita, come fantasma il Cavour sembrava in realtà molto più taciturno: le poche parole che avevano scambiato mostravano tutta la fretta di quello spirito nel volersi separare da Elisabetta. Notò con una certa ironia che l’antico uomo politico era poco disposto a farsi interrogare, a mostrare i lati del suo carattere meno esaltanti: nel mondo dei defunti tutti i titoli, le cariche, le ricchezze vengono azzerate ma rimangono ben visibili i vizi e le virtù della vita passata. Timoroso di essere interrogato e giudicato da una donna, lui così spavaldo in vita e a suo agio nel correre tra letti femminili e sottane di donne maritate, con fretta e imbarazzo accennò un saluto di convenienza, un commiato veloce e poco fine. Lei lo guardò andar via dalla sala del Caffè Fiorio, con una movenza lenta e sospettosa, osservando con sguardo torvo gli avventori seduti ai tavolini: non era certamente un modello di bellezza, con quella barbetta a incorniciare il viso d’un personaggio che in vita doveva amare molto la cucina e il buon bere. Goloso di dolci ma non solo. Lo vide fermarsi di colpo e girarsi di scatto andando a urtare una tazzina che, sotto gli occhi increduli di un cameriere, finì per terra senza che – all’apparenza – nessuno l’avesse urtata. Il conte a quanto pareva non gioiva solo dei banchetti, dei vini e delle carni: quell’essenza ormai invisibile ai più, sollevandosi per quanto la sua statura lo permettesse, aveva gettato i propri occhi su altre forme, altre sue prelibatezze della vita passata. Carni vive in questo caso, attraenti più d’un piatto raffinato. Con un’aria e sguardi che parevano più degni di un battelliere del Po piuttosto che di un aristocratico, fissava con altrettanta golosità la scollatura generosa di una gentildonna impegnata a mescolare un bicerin⁷: l’abito scuro da mezza sera, contornato di pizzi delicati, metteva in risalto quelle delizie sulle quali il Cavour si sarebbe gettato volentieri, se solo avesse avuto corpo e sangue da portare in giro. Il soggetto di tanti e tali sguardi avidi dovette per un attimo provare la strana e curiosa sensazione di essere osservata da occhi invisibili; giusta percezione di una presenza visto che, con movimenti veloci e precisi, la donna tirò leggermente verso l’alto la scollatura del proprio abito, abbassando il sipario sugli occhi dello spettatore indiscreto. Gli occhi di Elisabetta e di Camillo per un attimo si incrociarono, giusto il tempo in cui il conte vide lo sguardo di rimprovero e di sarcasmo della fantasma.

    Impegnata nell’osservare il guardone blasonato mentre si avviava, paonazzo in viso per la figuraccia, verso l’uscita del locale, Elisabetta sentì una voce dal timbro dolce e vellutato che la chiamava per nome. Giusto il tempo di girarsi leggermente e la vide: seduta nella stessa sedia occupata poco prima dal Cavour, una ragazza – anzi il suo fantasma – le faceva cenno di sedersi al suo fianco, con un’aria complice e divertita, impaziente di parlare con una sua simile. Simpatie e affinità d’animo esistevano anche nel mondo dell’oltre e così, istintivamente, Elisabetta mostrò felicità nell’accettare quell’invito inatteso. Se tra gli avventori del locale vi fosse stato qualcuno dall’animo più ricettivo verso il mondo impalpabile dell’oltre, avrebbe sorriso alla vista di quelle due donne, di quei due spiriti, così intente a confabulare e a raccontar vicende sconosciute ai più. Come le loro storie e il trascorso di quella donna.

    Capelli lunghi e biondi che parevano in costante movimento, agitati, come il suo animo, da un vento leggero: lei in vita era Anna, ma amava essere chiamata Nina. Nina Schiaffino Giustiniani. Forse era trascorso molto tempo dall’ultima confidenza fatta a un’amica, una di quelle coetanee che frequentava durante la sua esistenza. Nina, avvicinandosi a Elisabetta, la guardò con occhi profondi trasmettendole una immediata affinità d’animo. Giusto un cameriere sgranò gli occhi nel vedere una delle due sedie dell’ultimo tavolino muoversi leggermente: strizzò gli occhi, guardando meglio e, osservando un nuovo movimento dell’oggetto, si ripromise in cuor suo di lasciar stare ogni bevanda alcolica durante il servizio. Troppe tentazioni nella sottostante dispensa del locale, così come divinamente buono era il vinello che non mancava d’assaggiare a insaputa dei suoi titolari. Nina, accostandosi, iniziò a parlare, raccontando a Elisabetta del suo incontro con Cavour. Oramai nel suo pellegrinare anche da defunta inseguiva i passi di quel fantasma, senza poterlo mai avvicinare. Camillo, suo amante, invaghito di tante e troppe donne. Lei, nata a Parigi la mattina del 9 agosto del 1807, aveva vissuto nel vasto palazzo nobiliare di Rue des Moulins per trasferirsi poi a Genova dove il padre Giuseppe era stato nominato console generale di Francia da Luigi xviii. Il clima liberale parigino e l’educazione dei nonni paterni avevano lasciato in lei una traccia profonda, tanto da farne una fervente ammiratrice e sostenitrice di Giuseppe Mazzini. Era stato poi il nonno Luigi a guidarne l’educazione facendole amare la musica, l’arte e la cultura liberale in genere: così poliedrica e appassionata quanto distante e differente da colui che sarebbe divenuto suo marito, portandola all’altare all’età di diciannove anni. Il consorte, Stefano Giustiniani, era un esponente di spicco della nobiltà genovese: reazionario e acerrimo nemico delle idee liberali, impegnato in quel rapporto coniugale a ostacolare in ogni modo le idee della giovane Nina. Il 29 marzo del 1830 l’incontro che avrebbe stravolto la vita della ragazza: in città, nel salotto culturale di palazzo De Mari dove si riuniva la comunità altolocata di fede repubblicana, venne presentata a un giovane ufficiale piemontese, Camillo Benso di Cavour, le cui idee e il fervore politico l’attrassero non poco. Anche l’arrivo di due figli non placò né le idee rivoluzionarie di Nina e neppure la sua passione per Cavour. Lettere e incontri fugaci, ingredienti di un amore folle e non corrisposto dall’uomo che facilmente s’era lasciato trascinare dalla passione per altre donne: tante ne aveva contato Nina, fin troppe per potersi fidare delle parole effimere di colui che era diventato uno dei più importanti uomini dell’Italia che si stava costituendo. Clementina Guasco di Castelletto, Emilia Gazelli Pollone, Melanie Waldor, Hortense de Meritens e tante altre ancora, forse meno note ma altrettanto presenti nella vita privata di un uomo che giocava, non solo ai tavoli del whist⁸, divertendosi nel corteggiare donne coniugate. Nina lo sottolineò: per quell’uomo la donna maritata creava meno problemi ed era una preda più facile, da circuire e da lasciare con disinvoltura.

    Dal carattere irruento e anticonformista, capace di presentarsi a teatro con un bellissimo abito azzurro quando era stato prescritto il lutto per la morte di Carlo Felice, Nina raccontò di essere stata osteggiata dalla famiglia, maltrattata e additata come folle: una saggia follia però, capace di schierarsi apertamente con un fronte antimonarchico nella città di Genova, crocevia di idee liberali. La sera tra il 23 e il 24 aprile del 1841 Nina Schiaffino Giustiniani decise di abbandonare questa terra, troppo disadorna per l’arcobaleno di sentimenti che aveva in corpo: al Caffè Fiorio raccontò a Elisabetta dell’ultima lettera indirizzata a Camillo Benso di Cavour, scritta con il cuore strappato e le dita rattrappite dalla rabbia. Erano le ultime parole che lo statista avrebbe letto, tracciate da un animo così puro da meritare ben altre vite e altri amori. Oggi, come accade a ogni ricorrenza della sua scomparsa, il marciapiede antistante il palazzo Lercari di Genova si tinge del rosso del suo sangue, nel punto in cui Nina precipitò salutando con occhi fieri da combattente una vita che voleva costringerla tra le sbarre di un manicomio.

    Quella sera al Fiorio qualcuno si chiese da dove provenissero le risate, quelle voci femminili che risuonarono nel punto più nascosto del locale: Nina, nel dare un bacio sulla fronte dello spirito della bolognese, le confessò che il Cavour non era dotato solo di ragionamento sottile. Altrettanto sottile era ciò che nascondeva abitualmente tra il vestiario basso, fugace oggetto di satira femminile che – alla sua vista – a stento tratteneva la risata.

    Andarono via separandosi all’ingresso del Fiorio.

    Triangolazioni nefaste

    Via Garibaldi risuonava, anche nel sottosuolo, delle antiche storie e delle genti che si erano succedute nel corso dei secoli: Elisabetta Sirani ne percepiva la memoria, quel ricordo che rimbalzava nel suo animo come un’eco composta da mille voci e da tanti idiomi. Sussurri che arrivavano come richiami di vite ormai disperse; comminando verso il punto dove il sole era tramontato da tempo vide nuovamente, immerso nei suoi pensieri e impegnato in un dialogo solitario, lo spettro di Camillo Benso di Cavour. Sarebbe apparso in continuazione negli anni a venire ai propri concittadini, nelle vie centrali della sua città e tra i colonnati del Municipio per predire fatti e avvenimenti futuri. Elisabetta si spostò veloce verso il grande slargo che segnava il limite dell’abitato romano, di quella porzione della città conosciuta con il nome di Quadrilatero. Piazza Statuto già nei secoli passati godeva di una fama nefasta, per via della sua destinazione d’uso come luogo delle esecuzioni, dei supplizi e anche cimitero. Lei percepiva tutta l’energia negativa del luogo che i vivi conoscono ancora come centro nevralgico delle sventure. A pochissima distanza, nel sito che alla fine del 1600 ospitava il magazzino delle polveri della Cittadella, una violenta esplosione aveva distrutto le abitazioni vicine uccidendo più di cento persone e facendo crollare l’antica chiesa dedicata a santa Barbara: in quel disastro furono numerosi i feriti e ingenti i danni alle abitazioni vicine. Un sito permeato da morti inspiegabili, uccisioni rimaste senza un colpevole ed eventi nefasti più noti, come l’utilizzo in questo slargo urbano della ghigliottina che dal 1865 aveva decretato la morte di dissidenti, carcerati, ladri ma anche di tanti innocenti.

    La piazza era stata progettata dall’architetto Giuseppe Novati, già docente nell’università torinese, per accogliere i grandi palazzi ideati per dare lustro alla città: in quell’anno, all’avvio dei lavori, Torino era stata scossa dalla rivolta di popolo, insorto all’indomani del trasferimento della capitale a Firenze. 52 morti e centinaia di feriti erano stati il pesante bilancio delle giornate del 21 e 22 settembre del 1864, un funesto momento che aveva segnato l’inizio del progetto. Una rivolta che aveva lasciato una traccia profonda nell’antica capitale, il centro abitato da quasi duecentomila anime. Neppure la costruzione del monumento al Frejus aveva avuto un battesimo felice: i numerosi incidenti che si erano verificati nel cantiere montano aleggiavano tragicamente sulla statua eretta nella piazza Statuto. Inno all’ingegno umano, così era stato definito inizialmente l’angelo posto in cima all’opera in pietra, effigie che ben presto era divenuta l’emblema del maligno e dell’oscuro. Raccontavano di botole e ingressi verso l’oltretomba, di varchi presenti vicino alla statua il cui sguardo andava verso l’occidente, volgendo le spalle in segno di sfida alla luce nascente. Nel corso degli anni su piazza Statuto si erano sedimentate storie e leggende nere, permeate di personaggi noti e di viaggiatori sconosciuti. Qui aveva camminato Nostradamus⁹, l’esoterista Michel de Notre Dame, ospitato nella Cascina Morozzo, arrivato a Torino attratto da quella notorietà magica di cui era ammantata la città: del suo soggiorno e delle sue ricerche era rimasta una traccia scritta in una lapide, collocata nel 1556, nell’anno in cui si svolse il suo viaggio alchemico. La scritta, enigmatica come il suo compilatore, pareva un ammonimento e un lugubre messaggio dedicato al luogo della magia:

    nostre damvs aloge ici

    on il ha le paradis lenfer

    le pvrgatoire ie ma pelle

    la victoire qvi mhonore

    avrala gloire qvi me

    meprise ovra la

    rvine hntiere¹⁰

    Le anime antiche raccontavano del luogo carico, anche a giudizio di Nostradamus, di energie e di forze sconosciute: era il punto geografico nel quale molti anni dopo sarebbe stato posizionato l’obelisco noto con il nome di Guglia Beccaria, in onore del fisico Giovanni Battista¹¹, incaricato da Carlo Emanuele iii di Savoia di misurare il meridiano di Torino, il Gradus Chevalierrinensis. L’obelisco, inaugurato il 7 dicembre 1808, ricordava un’antenna in grado di captare le energie negative provenienti da altri due centri noti per la loro aura nefasta, Londra e San Francisco, città quest’ultima ben conosciuta come sede di una delle Sette Torri del Diavolo¹². Il diavolo, il guardiano di quegli inferi i cui accessi erano situati in differenti parti della terra: piazza Statuto era una delle tante porte, uno dei varchi sotterranei noti ai molti adepti delle scienze oscure.

    L’obelisco e la raffigurazione del genio alato rappresentavano uno degli enigmi della città, un gioco oscuro che si svolgeva sopra l’ipotetica scacchiera sulla quale il diavolo e gli spiriti nefasti giocavano – coinvolgendo gli umani – la partita con la morte. 64 caselle, tante quante le case lungo le quali si muovevano le fila dei destini e delle avversità, come i pezzi degli scacchi mossi da una mano invisibile ai più. Il numero 64 sembrava essere una costante di cifre nefasta, così come lo spirito errante di Elisabetta Sirani percepì. Il tempo le portò il suono lancinante delle sirene delle autobotti dei Vigili del Fuoco, chiamati per domare le fiamme divampate nel vicino cinema Statuto. Nel rogo della sala situata in via Cibrario avevano perso la vita 64 persone: 31 donne, 31 uomini, una bambina e un bimbo. 64 morti violente, causate da una serie di negligenze e di imperizie, che avevano lasciato uno strascico profondo nella popolazione: la tragedia immane del 13 febbraio del 1983 scuoteva ancora gli animi dei cittadini, alcuni dei quali, più propensi a scandagliare nel profondo degli eventi, avevano ricollegato le fila di un disegno che pareva architettato da una mente maligna. Nel cinema, nei giorni di un carnevale torinese che aveva come tema la maschera del diavolo, veniva proiettata una pellicola dal nome emblematico: La Capra¹³. Un’analogia ben chiara all’essere cornuto, al demonio. Non parevano coincidenze, così come non era fortuito il nome della strada, intitolato allo storico Luigi Cibrario autore di uno studio accurato sui cavalieri Templari: era il giorno 13, di ottobre, quando i monaci guerrieri vennero arrestati in Francia per essere destinati a morire tra le fiamme dei roghi. Fato, coincidenze? La mano misteriosa che guidava gli avvenimenti umani tracciava segni incomprensibili, così come

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