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La soglia
La soglia
La soglia
E-book759 pagine11 ore

La soglia

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Info su questo ebook

In nome di Dio e del guadagno: ovvero, tra cenci e cantuccini, il mito della frontiera, secoli prima di un certo West a stelle e strisce.
Aprire un vecchio baule di famiglia, rompere il sigillo funesto dell’oblio, riavvolgere il filo della memoria: lettere, cartoline, biglietti di auguri e condoglianze, partecipazioni di nozze e battesimi, buoni del Tesoro fuori corso e quaderni di squola con qualche q di troppo.
Mettere ordine nei propri affari, nella presunzione di essere il ragioniere della partita doppia aperta tra la propria stirpe e un ipotetico dio, forse non troppo interessato ai fatui splendori e alle agrodolci miserie degli umani.
All’ombra del pulpito di Donatello, tra il baccano dei telai e la peluria volteggiante che odora di morchia, nel tempo scandito dall’orologio del collegio Cicognini e dalla danza voluttuosa della Salomè di Filippo Lippi: cinque generazioni in bilico tra la volontà di non finire minoritari e incompresi e la tentazione di cantare fuori dal coro belante di chi dalla vita si fa macellare senza mai porsi un solo perché.
Non però solo a Prato la condanna della conoscenza si sconta vivendo.
Siamo, ovunque, tutti sulla stessa pazza giostra: chi salito prima, chi poi, in ordine sparso; senza biglietto da obliterare e per un numero di giri non contrattualmente garantito.
 
LinguaItaliano
Data di uscita30 giu 2014
ISBN9786050310696
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    Anteprima del libro

    La soglia - Alessandro Golin

    Alessandro Golin

    LA SOGLIA

    ROMANZO

    Copyright © 2014 Alessandro Golin

    e-mail: golinale@yahoo.it

    www.facebook.com/alessandro.golin.52

    Copertina: Daniela Minutoli

    Edizione digitale: facilebook

    e-mail: info@facilebook.it

    www.facilebook.it

    Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata

    Personaggi, situazioni, accadimenti e dialoghi di questo romanzo sono immaginari.

    Con riferimento alle persone storicamente esistite – escluse le esplicite citazioni, sempre virgolettate e in corsivo – i dialoghi che le riguardano sono da intendersi come frutto della fantasia dell’autore.

    ISBN: 9786050310696

    L'AUTORE

    Non ero io il cinquanta milionesimo cittadino italiano ma venivo al mondo in quel 1961, centenario della nostra unità nazionale: mentre si firmavano le cambiali per la Millecento, ci si contentava di girare in Lambretta e le ragazze, in attillate calze di nylon, andavano a fare la spesa al negozietto all’angolo, sognandosi maggiorate.

    Nascevo a Prato, mentre il boom economico sfornava chilometri di tessuti e centinaia di marmocchi: veneto per parte di nonno paterno, che arrivò da Schio alla fine dell'800 per lavorare come capo operaio al Fabbricone.

    Nascevo sotto la benedizione di un altro mezzo tedesco, che a Prato era tornato per l'estremo riposo sulla cima dello Spazzavento, così da poter sputare da morto sui pratesi: i più maledetti fra tutti i toscani.

    Sono appassionato di storia locale e mi diletto a scrivere di arte per una testata giornalistica on line.

    La soglia è il mio primo romanzo.

    Alessandro Golin

    LA SOGLIA

    Al fantasma che si aggira in casa mia,

    con affetto,

    regalo una vita da sognare.

    Uno

    Un brivido sottile ha preso l’ascensore e si diverte a salire e scendere gli scalini sconnessi delle mie vertebre: su e giù lungo la schiena, rapido e leggiadro, come in una danza macabra medievale.

    Col digiuno e le preci approntata ch'avrete l’anima vostra, essa in buona letizia accoglierà l’angelo alato quando ad annunziarvi s’appressi, come già il profeta Isaia al re Ezechia: «Presto, ordina i tuoi affari, perché oggi tu morirai!»

    Alla mia stanca senilità non resta più di una biblica profezia, nelle fosche parole restituite da un vecchio cimelio di famiglia, dimenticato in cantina.

    Convenientemente disponetevi a lasciare la casa rovinosa del corpo, destinato ai vermi vilissimi della terra, per trovare miglior albergo nella dimora eterna della Gerusalemme celeste. Che il passo estremo non vi sorprenda nelle preoccupazioni del mondo o nelle gozzoviglie del peccato! Apparecchiatevi per tempo: come foste veramente in punto di morte. Giacché, se non oggi domani, un giorno verrà l’inesorabile Atropo a recidere con lucide cesoie il filo della vostra esistenza.

    Quel pio esercizio spirituale il libriccino lo raccomandava ai buoni cristiani dell’Ottocento: una volta il mese, come viatico per un trapasso in grazia di Dio. Quattro generazioni di miei avi hanno custodito, sfogliato, letto, forse baciato questi fogli logori datati MDCCCXLIX: affidandovi speranze, trepidazioni e dolori; attingendovi ora conforto ora forse solo illusioni. Su queste pagine essi hanno palpitato, pianto, pregato, magari anche bestemmiato.

    Non mi ero mai dato molta pena per saperne di più di costoro: di pene ne avevo già, d’avanzo, dai miei tempi per aver voglia d’indagare quelle dei loro giorni andati. Eppure, anch’essi furono: carne viva, pensieri, parole, azioni; passi e voci di uomini e donne fra torri e campanili instancabilmente rivali. I loro occhi videro l’ocra delle nostre terre di Toscana: verdi d’olivi e cipressi, digradanti da selve da lupi a spiagge da triglie, dove tutto si disegna e trova il giusto spazio. Pellegrini e viandanti anch'essi, sull’antico crocevia di genti, merci, raziocini e tendenze di gusto, che molti nel mondo ci invidiano e dove si rintracciano tutte le declinazioni del godimento: materiale e spirituale, culturale e culinario, estetico ed estatico. La Tagliata Etrusca e la bistecca alla fiorentina, la Torre Pendente e quella del Mangia, il cacciucco e l’acqua cotta, il Brunello e il Morellino, la pappa col pomodoro e la polenta di castagne, la Venere di Botticelli e il David di Donatello, il Ponte Vecchio e quello del Diavolo, i soffioni boraciferi e le periclitanti Balze di Volterra: che al malvagio Signore delle Mosche sembrano servire da sulfurea anticamera, calati come per spregio in un paesaggio che della misura si è fatto sinonimo.

    Mi chiamo Italo e sono figlio della terra dove i supremi principi filosofici, etici e religiosi si sono calati nel tempo e nella Storia. L’idea stessa della bellezza, incarnata nella gloria e nello splendore delle sembianze umane, in quel brivido divino che chiamiamo Rinascimento. Nessuno più di un toscano - curioso e caparbio, ispido e sagace, laborioso e irriverente - può comprendere lo sforzo, titanico e superbo, di voler imitare Dio. Se non creatore, almeno cesellatore del mondo: la tentazione che fu di Giotto, Masaccio, Pier della Francesca, Leonardo e Michelangelo. Io, loro indegno erede, l’insondabile mistero che unisce presente, passato e futuro l’ho voluto rintracciare anche altrove: in Italia e in Europa, nelle vetrine dei musei, sugli scaloni dei palazzi nobiliari e tra le navate delle cattedrali. Invano. Siamo nati per viaggiare, sortire e rientrare, attraversare curiosando le porte del mondo; eppure, sono nella propria terra natia le radici di ciascuno.

    Adesso che le gambe non mi obbediscono più e il cervello sta finendo murato vivo in una carcassa degna dello sfasciacarrozze, nella mia Toscana ritrovo il fango che mi ha generato e gli artisti che mi hanno plasmato: come un vasaio modella l’orcio di cotto in cui qualcun altro pianterà una pianticella d'olivo, per farla centenaria e lasciarne il godimento a chi verrà.

    Artista: ovvero la fine ingloriosa del mio talento personale. Poiché non è sufficiente una felice e innata manualità con il pennello, lo scalpello o il bulino per aver qualcosa di originale da rappresentare: che non sia stato già dipinto, scolpito, inciso. Elevare la propria creatività al di sopra dell’artigianato comporta tormento, sofferenza, emarginazione: è il pubblico a volere il qualificativo di maledetto ancor prima di geniale da accostare al sostantivo artista.

    A forza di schiaffi della vita, ho imparato che è più facile essere un vero genio che trovare chi sia così lungimirante e scevro di preconcetti da accorgersene. Davvero avrei voluto sfinirmi d’arte? Essere un visionario ribelle, un profeta perseguitato, un martire tisico o un estenuato esteta? Oppure contentarmi di stazionare sotto i loggiati degli Uffizi, a catturare scorci noti e meno noti in piccoli bozzetti seriali a olio o a tempera da vendere ai turisti avidi di souvenir? Un simpatico caricaturista, magari: che dei suoi volti schizzati a carboncino, curati sin nel dettaglio di capelli troppo crespi o nasi esageratamente adunchi, fa il proprio lavoro e non un hobby. O, chissà, un onesto madonnaro: che accetta di consegnare alla polvere e alla pioggia i suoi guizzi di colore, pur di far assaporare alla pietra del selciato il piacere inebriante della creatività.

    Eppure a questo mondo, l’ho capito troppo tardi, esistono solo due tipi di creatori: l’uno opera con gli oggetti e lo s’incensa come artista e genio; l'altro, invece, lavora sul proprio essere, per fare di se stesso il capolavoro che già è, e lo s’irride come mistico un po’ pazzoide.

    Come si dice dalle mie parti, la vita l’è come un bacchio da pollaio: corta e piena di merda! Però avrei potuto almeno provarci: a tentare di diventare qualcuno; a vivere e non solo sopravvivere; a trarre l’inedito dal nulla, a plasmare la materia bruta; a somigliare a Dio.

    Secondo l’evangelica parabola dei talenti mi attende la più dura delle punizioni: quella riservata al servo infingardo. Il servo che si reputa fedele perché non ha dissipato il patrimonio del padrone: né in gozzoviglie con le prostitute, né in spericolate acrobazie da borsa valori. Il servo caparbiamente convinto di aver adempiuto al proprio dovere nel conservare ciò che gli fu affidato e nel restituirlo intatto, senza interessi e senza ammanchi. Io sono quel servo: che non ha osato sperimentare l’esercizio del rischio nella libertà; fosse anche per sfida o ritorsione al dono non richiesto di esser stato recapitato per sette decadi filate su questa palla bistonda, sparata a velocità supersonica nell’universo.

    Se come servitore ho clamorosamente fallito e mi accingo a tornare al padrone a mani vuote, vorrei almeno capire perché implorare misericordia. Quel perché sono andato a cercarlo indietro nel tempo, rovistando nella putredine di parole lasciate da chi mi ha preceduto con il cognome Mugnaini.

    Il buon Foscolo, con tutto il suo poetare di Sepolcri vani ai defunti, forse non dissentirebbe dall’impietosa opera di pietà che ho intrapreso: come quando, mineralizzate le spoglie, si scoperchiano le tombe per dissotterrare i miseri resti e convenientemente sistemarli altrove.

    Il manualetto dei miei avi raccomandava quelle nere meditazioni sulla morte a coloro, giovani e sani, cui il Cielo ancora nascondeva l’ora fatale; ma io, vecchio e malandato, da quell’ora so di non essere troppo distante.

    È giunto il momento di mettere ordine nei miei affari.

    Due

    «All’ultimo che arriva al fosso gli puzzano!»

    «Icchè?»

    «Le mele!»

    Nessuno di noi tre, piccole pesti, voleva averle puzzolenti, le mele: quelle, tonde e lisce, dei nostri bei culetti sodi. E allora via, a darcela a gambe levate, per gli stradelli impolverati, lungo i campi biondi di grano. E il nonno Alfredo, buonanima, a sgolarsi che non ci allontanassimo, mentre arrancava nel correrci dietro, tentando di non perderci di vista. Ardua impresa, la sua: fatte poche decine di metri, l’età e la sua buzzetta tonda, per cui lo chiamavamo nonno Buzzino, gli mozzavano il fiato e doveva fermarsi.

    Nascosti a debita distanza, dietro un canneto o una fila di cipressi, io, mia sorella Rachele e mia cugina Littoria ce la ridevamo di gusto. Pronti a scommettere se avremmo sentito prima il fabbro o il treno: perché il nonno, chino in mezzo alla carrareccia, con i palmi delle mani sulle ginocchia, paonazzo dallo sforzo, imitava nell’ansimare talvolta il soffio di un mantice, talvolta il fischio di una locomotiva.

    «Lazzaroni!», protestava, «O dove vi siete infrattati? Eh, ma stasera… giuro che questa birbonata gliela racconto!»

    Minacciava tutte le volte, ma la spia non la faceva mai. Erano i grandi di casa a intuire del nostro biasimevole comportamento in quegli interminabili pomeriggi di giugno dell’anno di guerra 1942: quando ancora l’unica battaglia combattuta sotto casa era quella del frumento; e reduci erano solo i campi da mietere, affascinanti scenari delle nostre infantili scorribande.

    «Alfredo, o che v’hanno dato retta oggi i figlioli?» gli chiedevano, rincasando. E il nonno Buzzino ci guardava di sbieco, dondolava la capoccia, allargava le braccia e si trincerava in un generico «Insomma, si sa, e son figlioli…» che rivelava assai più di quanto lui, in fondo, desiderasse far sapere.

    A ripensarci adesso, mi accorgo che era tutta una pantomima, un gioco delle parti. I nostri genitori, quando ne avevano abbastanza di monellerie casalinghe, ci rifilavano alle cure del nonno Alfredo e facevano la voce grossa nel raccomandarci di ubbidirgli; sul serio, però, non come la volta precedente. Sfoderando i nostri migliori musetti compunti, noi tre birbanti solennemente promettevamo; e ancora non s’era oltrepassato l’uscio di casa che già ci scambiavamo occhiate d’intesa per architettarne di peggiori.

    Bofonchiava, Alfredo, appoggiato al suo bastone: recitava il suo ruolo, fingendo di lagnarsi che doveva sciropparseli sempre lui quei tre angioletti scatenati. Poi però, paziente più di Giobbe, accettava le nostre monellerie con la bonarietà comprensiva del vecchio saggio.

    Adesso che sono nonno anch’io, comprendo: quel suo borbottare come una pentola di fagioli sul fuoco, che allora ci pareva degno solo dei nostri sberleffi, era invece il canto dolcissimo del più autentico rispetto per la vita che germoglia e cresce. Era il suo il traboccare d’affetto di chi scusa ogni marachella; quasi a voler, ancora per un po’, risparmiare all’infanzia gli insulti e le crudeltà che la vita s’incaricherà di riservare a chi s’incammina, a piedi nudi, sul sentiero spinoso che chiamiamo maturità.

    Adesso che l’ora è fuggita, e sono vecchio come lui, capisco quanto non gli importasse nulla d’essere costantemente canzonato da tre monelli alti come un soldo di cacio. Se sorrideva beato, anche quando avremmo meritato sul serio una bella sculacciata, rideva dell’indisciplinato se stesso di settant’anni prima. Consapevole che siamo tutti sulla stessa pazza giostra: chi salito prima, chi poi, in ordine sparso, senza biglietto da obliterare e per un numero di giri non contrattualmente garantito.

    Caro nonno Buzzino, che mai ti ho visto davvero arrabbiato! Dove sarai adesso? Ricordi ancora di quella volta che te la facesti sotto in piena campagna?

    Accadde nel bel mezzo della solita corsa a rompicollo cui lo costringevamo. Sorpreso da violenti dolori al ventre e incapace di trattenersi, fosse l’età o l’urgenza del bisogno, fatto sta che si riempì le braghe. Lo spettacolo di quel vecchierello, immobile sotto il sole, con la cacca che gli colava lungo le gambe, stuzzicò la nostra ilarità. Invano il malcapitato, che non osava muoversi per non inzaccherarsi anche le scarpe, si raccomandava al nostro buon cuore: «Per piacere, figlioli, correte a pigliarmi du’ pampini di vite in quel filare laggiù!»

    Sì, come dire al muro! Noi tre restavamo ben nascosti nell’erba alta sull’argine del fosso, tappandoci l’un altro la bocca per non farci localizzare. E lui, invece d’infuriarsi e minacciare delazioni serali, seguitava a implorare: «Ovvia su, birbanti! Non è il momento di ruzzare! O come dovrei fare, a vostro giudizio, a tornar a casa in queste condizioni? E son tutto merdoso…»

    Non avemmo alcuna compassione dell’incontinenza del nonno: anche i bimbi sanno essere crudeli. Se l’infanzia fosse davvero l’età dell’innocenza, Santa Romana Chiesa non si affannerebbe a prescrivere il battesimo ai neonati. La mela che ci andò di traverso nel giardino dell’Eden è restata indigesta a tutta l’umanità. Di fronte a Dio siamo tutti colpevoli: pure i fanciulli.

    La mia, d’innocenza, l’avevo persa ben prima: all’epoca in cui qualcuno ancora s’illudeva su una certa guerra lampo, le misere grammature della tessera annonaria non pesavano come macigni sul morale delle famiglie e ci si poteva permettere qualche leccornia per i bambini. No, non il dolcetto scherzetto di Halloween: quello era di là da venire; poco frequentato anche dagli anemici pargoletti dei milordi delle ville con vista panoramica su Firenze, dove le domestiche del contado avevano inventato la ricetta della zuppa degli inglesi con i biscotti un po' raffermi e la crema avanzata. Niente zucche, streghe e maghetti, allora, nella notte di Ognissanti.

    In Toscana una festa pagana l’avevamo già allora: la Befana. Alzi la mano chi, da bambino, non abbia trepidato nell’appendere al camino la calza vuota: timoroso di trovarla, al mattino, piena di carbone, anziché di biscotti e cioccolate. La sera della vigilia non si facevano capricci e si filava a letto di corsa: a spiare, immobili, nel buio, ogni ombra, ogni più piccolo rumore del passaggio, sui tetti e giù per i camini, della buona vecchierella, curva sotto il peso del suo sacco. Nella famiglia Mugnaini era d’uso, subito dopo cena, una prima rapida offerta di doni. Un frettoloso scalpiccio ci faceva correre nel salone, sotto la volta dipinta con il Tempo che comanda alla Vecchiaia di distruggere la Bellezza. Lassù, graffiato sul soffitto, un ometto triste e canuto con le ali spennacchiate e una clessidra in mano, cioè il Tempo, indicava a una vecchiaccia rugosa, che sarebbe poi sua sorella, di allungare le dita ossute sulle guance rosate di una bella ragazza per sfregiarle la Bellezza della gioventù. Me lo aveva spiegato l’altro mio nonno, Arrigo, che cos’è un affresco. A naso all’insù, ignorando il Tempo e la Vecchiaia, con trepidazione attendevamo la cascatella di dolciumi: che tutti gli anni, per la nostra stupita gioia di fanciulli, si materializzava davanti al grande camino, troneggiante tra alari di ghisa.

    Accadde però, quel cinque gennaio del Quarantadue, che un improvviso starnuto mi facesse repentinamente piegare in avanti. I bambini, si sa, hanno la schiena bella snodata e riesce loro facile cacciare il capo tra le gambe. Una rapida sbirciatina: eppure bastò a segnare la fine dell’età dell’oro. Sullo schermo inquadrato dalle mie cosciotte grassottelle, vidi i grandi di casa che si davano un gran daffare, con le mani piene di caramelle e pepite di carbone dolce: intenti a lanciarle in aria sopra le nostre testoline, verso quello stupido impassibile camino. Mi raddrizzai di scatto. Le due femminucce non si erano accorte di nulla e ballavano contente, battendo le manine in un applauso giulivo alla generosa Befana. Avrei dovuto spifferare la verità e rovinar loro la festa, povere piccole ingenue? Tacqui. L’imbroglio degli adulti, però, mi parve insopportabile. Spudorati: loro, che si seccavano la gola a forza di ripeterci di dire sempre la verità! E se anche i grandi mentivano, di chi avrei potuto fidarmi?

    Aveva dunque un bell’implorare, il nonno Buzzino pieno di cacca! Un filo di sottile perfidia si srotolò nell’erba alta sull’argine del fosso, sgusciando via come una serpe. Neppure lui era venuto a dirmi che la Befana era tutta un’invenzione dei grandi. Chissà quante altre volte mi aveva ingannato, bugiardo lui al pari degli altri! Ridevo, ma ero furibondo. Stavo imparando la loro cattiva lezione sul come si diventa adulti: dissimulare, mascherarsi, truccare le carte.

    Il nonno Alfredo dovette cavarsi d’impiccio da solo: barcollando e concimando il terreno a ogni passo, si avviò verso il filare d’uva fragola appena allegata, a strappare quanto gli occorreva per pulirsi alla bell’e meglio. Prima dei pampini di vite, però, trovò il fosso. Mi sembra di risentire il suono sordo di quel tonfo in acqua e la scenetta che ne seguì, degna di un numero da circo. Lui con il culo a guazzo e le gambe per aria, che pareva un grosso rospo rivoltato; noi sul bordo del fosso, con le piccole braccia tese nel tentativo di tirarlo su; e tutti e quattro, noi bimbi e il vegliardo fradicio e inzaccherato, con i lucciconi agli occhi, dal tal ridere a crepapelle.

    Chissà se, sulla via del ritorno, guardandomi negli occhi, il nonno abbia scorto la traccia della mia camuffata crudeltà.

    Chissà se mai abbia avuto il presentimento che il buon Dio, o chi per Lui, altre occasioni per ridere al suo amato nipotino le avrebbe centellinate con il contagocce.

    Tre

    Un osservatore anonimo lo noterebbe subito, tra la gente che cammina spedita su un qualunque marciapiede di una delle nostre caotiche città: il baricentro della postura, intendo; costantemente sbilanciato in avanti, come atleti ai blocchi di partenza dei cento metri.

    Si vive di corsa: ansanti, trafelati; arrancando, sgomitando; e senza riflettere che il traguardo cui spasmodicamente tendiamo sia, in effetti, ciò che più ci spaventa. Eppure, si dovrebbe imparare a non perdere mai l’occasione d'imparare l'arte di morire; e a reputare il più gran timore della morte quello di temerla. E se il trapasso fa orrore, altrettanto disgusta il doversi arrendere all’ineluttabile per i propri cari. Ecco perché si è disposti a compatire chi proprio non ce la fa a presidiare quei dolenti corpi di guardia in cui si accampano amici e congiunti dei malati senza più speranza. Li conosciamo tutti, almeno nei film. Sono corridoi lunghi e disadorni: dove ogni bisbiglio amplifica il segno più recente spiato al capezzale del malato o l’ultimo consulto dei sanitari; e ogni parola, gesto o movimento li s’interpreta come fausto o infausto presagio. Sono anditi bianchi e silenziosi: dove l’ostinazione degli umani affetti giunge a invertire l’ordine naturale dei sentimenti. Mentre la razionale speranza vorrebbe gettare il malato incurabile nelle braccia pietose della morte, ci si rassegna alla sua caparbia vita di sofferenza, al cuore che ancora non cede alla devastazione del corpo martoriato. Finché un sintomo inatteso o un anomalo bollettino medico non sconvolgono la fatale attesa, instillando in chi veglia dietro la porta la folle convinzione che l’assurdo resistere della vita possa avere una prodigiosa e soprannaturale soluzione: il miracolo.

    Soltanto un miracolo, ormai, avrebbe potuto salvare mio padre Amedeo dal cancro che lo divorava; ma i miracoli non esistono. Mi feci coraggio ed entrai. Giaceva sprofondato nel candore accecante del suo letto, come già nella fossa che presto lo avrebbe accolto: le metastasi si erano diffuse alle ossa e al fegato.

    «Babbo, sono qui. Come stai oggi?» dissi, odiando l’assurdità di quelle parole. E lui, fradicio del sudore freddo dei moribondi, aveva spalancato quei suoi occhi magnetici di un colore inquietante, né azzurro né grigio, guardandomi fissamente in un dolce rimprovero.

    «Ti ho sempre voluto un gran bene, figliolo», la sua voce gorgogliava come acqua scura nel fondo di un pozzo, «ma non ci siamo intesi molto, io e te. Siedi e ascoltami. Forse, dopo, mi disprezzerai di meno».

    Egli, dunque, sapeva. Sapeva di morire circondato dal mio disprezzo. Tuttavia, quale rivelazione avrebbe mai potuto discolparlo? Sperava forse in un’estrema riconciliazione sul letto di morte, con tanto di coreografia strappalacrime da drammone cinematografico? Non ero certo disponibile a sentimentalismi dell’ultima ora. Se per lui era giunto il momento di crepare, pover’uomo, che si facesse assolvere dal prete in cotta viola o da san Pietro in persona sull’uscio dell’aldilà. Eppure, fosse vile curiosità o perfido desiderio di accumulare altri capi d’accusa per poi lordarne la memoria, accostai una sedia e mi disposi ad ascoltarlo. Con la voce che continuamente gli s’incrinava per lo sforzo e l’emozione, mi parlò di sé come mai aveva fatto, in tutti gli anni che avevamo vissuto sotto lo stesso tetto.

    Incredulo di udire davvero quelle parole, seppi dei tempi lontani del suo fidanzamento: quando anche soltanto una temporanea assenza, una lontananza fisica di poche ore della sua adorata Ludovica lo faceva sentire un individuo senza meta, un uomo senz’iniziativa, uno scapolo senza risorse. Seppi della serata in cui mia madre lo aveva folgorato. La loro via di Damasco era stata la sala delle feste al circolo esclusivo dei Misoduli, anche se mancava un cavallo da cui cadere e a lui pareva una mezza bestemmia vestire la sua bella con i panni di Nostro Signore. Tuttavia, l’effetto apparizione celestiale c’era stato: eccome!

    La signorina Ludovica, ultimogenita di una delle famiglie più in vista della città, si era affacciata nell’ampio salone delle feste, illuminato a giorno da un lampadario a dodici braccia, in legno intagliato e dorato, nello stile di un tempo ormai andato. Di gran moda, invece, il morbido abito che ella indossava: un charleston in tulle bianco tutto ricamato, che quasi le copriva mani e caviglie, ma ben lasciava indovinare le forme procaci. L’acconciatura era vezzosamente raccolta in una calottina del medesimo tessuto, trapunta di piccole gocce che le scendevano sulla fronte e sul collo. La profonda scollatura, non troppo castigata, adorna di una collana di perle. Si muoveva con grazia civettuola, perfettamente consapevole della sua bellezza in fiore, nel malizioso intendimento di farsi notare; e non tardò a cogliere nel segno. Descrivendola come se di lei si fosse innamorato appena il giorno prima, il volto emaciato di mio padre, consumato dalla malattia, tornava a sorridere.

    Il circolo dove avevano piroettato quel loro primo ballo era nato nel Settecento come Accademia degli Infecondi: vale a dire piccoli fiori bisognosi di più nobile impollinazione. Denominazione sottilmente adulatrice e di barocca finezza per la prudente risposta borghese alla blasonata Accademia dei Semplici, il club dell’oligarchia nobiliare delle antiche famiglie dei Vai, dei Migliorati, dei Verzoni, dei Bizzocchi, dei Novellucci. I palazzi ove esse vissero ne riportano i casati sulle targhette turistiche, oggi affisse a lato dei portali a cura dell’ufficio provinciale per il turismo. Ferree leggi salvaguardavano i loro patrimoni e li tramandavano ai soli maschi primogeniti; i minori si arrangiavano con l’esercito, le femmine con il velo. Apparentemente indiscusso, il potere aristocratico di chi sfoggiava lusso e manteneva una carrozza era in effetti, quando nacque il mio trisavolo, già minato nelle sue stesse basi economiche. Favorire il dinamismo della borghesia della lana, del legno e dei metalli fu il preciso disegno del giovane Granduca Pietro Leopoldo di Lorena: il quale, quando si trattò di far visita a Prato, preferì il circolo borghese all’analogo sodalizio nobiliare. Per ingraziarsi i sudditi che contano, insomma, meglio i rampanti Infecondi degli inetti aristocratici: Semplici solo di nome, ma di fatto tromboni imparruccati, pettegoli e improduttivi.

    Le fortune economiche della mia famiglia datano a quei tempi lontani. I Mugnaini portavano nel cognome, da secoli, tutta la modestia del loro operoso lavoro alla macina. Tuttavia, giudiziosi come formicuzze, centesimo su centesimo, erano arrivati a gestire un terzo dell’intera molitura nella valle lungo il fiume. Un buon risultato, ma incerto quanto la farina che ti scappa tra le dita: più di castagne che di frumento. In estate, poi, quei mulini rischiavano di non mettersi neanche in moto per mancanza d’acqua. Tra bozzolo e spolvero, ai poveri clienti che si rompevano la schiena a portare alla macina pochi sacchi di granaglie restava giusto il necessario per non morire di fame, e ai Mugnaini mugnai l’ennesima occasione persa di tirar su un po’ di bei soldi sonanti. Da una rapa, si sa, non si cava del sangue: con la molitura impossibili ulteriori guadagni. Bisognava osare di più. L’occasione venne con Napoleone: le sue sistematiche soppressioni di pievi e monasteri avevano immesso sul mercato proprietà immobiliari bloccate da secoli.

    Il mio bisnonno crebbe nel palazzetto medievale che suo padre Pietro aveva comprato, a prezzo di realizzo, da certi marchesi con la puzza sotto il naso ma senza più il becco d’un quattrino. Sin da bambino gli fu familiare la vastità smisurata dello spazio oblungo su cui, già prima dell’anno Mille, si teneva il mercato dei prodotti del contado. Era stato l’abitato circostante quel prato di proprietà imperiale, cresciuto tanto da sopravanzare il vicino e più antico Borgo al Cornio, che aveva finito con il dare il nome alla mia città, posta allo sbocco della valle onde Bisenzio si dichina. Già, perché quel signor-so-tutto di Dante Alighieri non poteva essersi dimenticato di citare anche il corridoio nell’Appennino tra Toscana ed Emilia: stretto e lungo, che sembra fatto apposta da un dio bizzoso per incanalarvi il tramontano strapazzone. Anche se, a onor del vero, Dante in val di Bisenzio non si è mai fermato. I conti Alberti, feudatari dei luoghi, rei d’avergli negato ospitalità, lui li ha inchiodati alla gogna eterna del più orrido cerchio infernale per pura licenza poetica e risentimento personale.

    Partito dalla Toscana l'ultimo Granduca di Lorena per non più tornare, i borghesi Infecondi, seppur non tutti così infervorati di Risorgimento, si erano votati al Vittorio Emanuele piemontese, primo sovrano dell’Italia unita: il quale, graziosamente, col naso rubizzo di Barolo, consentì loro di fregiarsi dello stemma reale, a condizione di assumere un nome più consono alla mutata condizione politica. Fu così che gli Infecondi si riciclarono come Misoduli: ovverosia, alla greca e molto coloritamente, gli odiatori della schiavitù.

    Mutato il nome, il sodalizio aggiunse la pubblica beneficienza ai tradizionali ritrovi e divertimenti. Si largheggiò, con prudenza ma buon senso liberale, in ammissioni di soci e inviti particolari, a tutto vantaggio della solidità finanziaria del circolo: tanto da poter discutere d’introdurre la luminosa fiaccola del progresso tecnico, il gas, per rischiarare i convegni e le feste danzanti del bel mondo cittadino e poi di diventare padroni in casa propria. E mentre papa Pio IX escludeva i cattolici italiani dalla vita politica del giovane Stato unitario, mio nonno Arrigo era tra chi giudicò inopportuno che i Misoduli continuassero a pagare la pigione ai Semplici. Così, in una ventosa domenica di gennaio del 1876, in grande spolvero di crinoline e mantelle, i nuovi padroni di Prato lasciavano la vecchia sede di palazzo Dragoni per il più prestigioso palazzo Vaj. Fu proprio in quella mondanissima occasione, tra odore di legni pregiati e sigari toscani, che Arrigo conobbe la sua futura sposa Livia.

    Sessant’anni dopo, in quei medesimi saloni, Cupido avrebbe dardeggiato anche l’erede Amedeo: mio padre, colui che stava agonizzando di fronte ai miei occhi.

    Quattro

    Nella camerata dell’ospedale di Prato gli infermieri andavano e venivano, indaffarati al capezzale degli infermi. Nessuno badava più di tanto a noi: un padre e un figlio, che non avevano trovato altro modo d’incontrarsi che su quel letto estremo. Lo ascoltavo e mi appariva, vivido, il ritratto di una serata di febbraio del Trentasei.

    Il signor Amedeo si era messo elegante, come l’occasione esige e il portafoglio consentiva. Indossava un abito da fumo - sgradita al regime fascista l’espressione inglese smoking - in tessuto gabardine di lana nera, con risvolto della giacca in raso lucido; una camicia bianca di cotone, con lo sparato plissettato e i polsi doppi, rivoltati verso l’esterno e chiusi con i gemelli; la cravatta a farfalla in raso di seta nero, ben tesa tra il colletto ad ali rovesciate. Morbidi i guanti neri, di vitello: uno calzato sulla mano destra, il sinistro afferrato con piglio deciso.

    Così, strascicando le parole, descriveva se stesso, con abbondanza di dettagli e un pizzico di vanità; e i suoi occhi esultavano nel volto dolente, disfatto dalla malattia.

    Trentacinque anni prima quegli occhi, incorniciati da fitte ciglia scure, scandagliavano i saloni dei Misoduli, mentre una chiostra bianchissima di denti perfetti faceva capolino da labbra sottili, lievemente dischiuse in un sorriso accattivante. L’entrata della signorina Ludovica aveva calamitato la sua attenzione. Mentre la grande pendola batteva le ore troppo in fretta, il profumo della pelle di lei lo inebriava nel vortice delle danze, prima di scivolargli via dalle braccia come la Cenerentola della fiaba.

    Mi sussurrava, perché di fiato non ne aveva più, del suo sentimento: da subito grande, incontenibile, di tenere voluttà e imperiture felicità. Lo ascoltavo, ma avrei tanto voluto tacesse. Sulla tenerezza di quella voluttà le mie riserve erano serie e motivate. Di quanto poi la loro felicità fosse tutt’altro che imperitura s’incaricava di dimostrarlo egregiamente la sua sposa stessa: che stazionava a pochi passi da noi, nel corridoio dell’ospedale, intenta più a spettegolare dei difetti di mia moglie che a rammaricarsi per la situazione ormai senza speranza del suo Amedeo. Povero babbo! Si era incaricata la vita, con tutte le sue ingiurie, di ridimensionare drasticamente il suo idilliaco programma d’amore eterno. Tuttavia, contro ogni evidenza, lui aveva conservato puro quel sentimento e me lo consegnava intatto.

    «E se pur tutti, non io, Italo. Rammentalo! Il resto sta nel baule di ferro, giù in cantina. Ci troverai tutto il nostro passato, e più di una sorpresa».

    A fatica aveva sollevato la mano e con la punta delle dita scheletrite mi sfiorava i capelli, la guancia, le labbra. Una carezza da mio padre! L’avevo tanto e inutilmente agognata che mi parve una pantomima tardiva e patetica. Mi scostai. Un amaro sorriso gli piegò la bocca riarsa. Poi, per due volte, lentamente, serrò la mano su se stessa e la riaprì, in un saluto di addio. Arretrai, barcollando. Un medico mi afferrò per le spalle: «Non resti qui a veder morire suo padre».

    Seguii quello scellerato consiglio, senza nemmeno voltarmi indietro. Corsi ad affogare il mio sgomento su per il sentiero dei Cento Pini, che sale zizagando le coste dei monti della Calvana che sovrastano la mia città. E non riuscii a pensare altro che all’incongruità del nome: perché quei pini sono, in effetti, dei cipressi. Codardo, anestetizzavo il dolore occupando la mente con delle assurde banalità. Mio padre aveva assistito al mio primo vagito, io mi perdevo il suo ultimo respiro. Non potevo accettare una definitiva separazione, quando c’eravamo finalmente incontrati.

    Lo rividi sul catafalco della camera ardente, nella bellezza cruda e crudele del volto spento, su cui finalmente alberga il riposo: corpo corruttibile che ha già ceduto tutti i suoi diritti all’anima immortale. Non piansi, ma ero come crollato dentro. La struttura portante del mio fragile equilibrio cedeva allo schianto di quella perdita: irrimediabile, perché aveva parlato solo lui.

    Rientrando dal cimitero, con in testa il tonfo sordo delle zolle che cadevano sulla bara, volli scendere in cantina. Stava là dove mi aveva indicato: un grosso baule di metallo brunito. Ero convinto contenesse l’occorrente - pallini di piombo e polvere pirica - per fabbricare le cartucce per la caccia alla selvaggina cui, una volta in pensione, si era appassionato. Esitai un attimo di troppo ad aprire la caverna di Alì Babà e l’improvvisa urgenza di sapere si smorzò in un’altra ignava fuga.

    Il turbinio oscuro e impetuoso dell’esistenza, i festival delle ovvietà e i balli in maschera delle umane convenzioni mi travolsero, nell’illusione di poter accettare la mistificazione del nostro inconsistente vivere e convivere: ora per ora, giorno dopo giorno, rotolando gli anni. Ne passarono undici. Mio figlio si era laureato, con il massimo dei voti: gli avevamo fatto la bella festa che suo nonno, fosse stato vivo, non avrebbe mancato di godersi. Fu proprio il giorno in cui lui ci annunciò la sua intenzione di sposarsi che mia madre cadde rovinosamente dalle scale: si fratturò un femore e per la grave età si allettò. Lieta fu mia moglie di restituirle, servito ben freddo sul piatto della vendetta, il garbo di quel suo sparlare nel corridoio dell'ospedale. Con il mio silenzioso avallo, la signora Ludovica fu sistemata in un bel gerontocomio. Di quel parcheggio di vite sbertucciate la mamma aveva giustamente orrore: così organizzò di procurarsi, presto e bene, l’infarto miocardico che la togliesse dall’imbarazzo di dover, lei così superba, dipendere dagli altri in attesa del fotofinish. Fu riordinando le sue carte per la successione che, per la prima volta, ripensai al baule e tornai a scendere in cantina.

    Accattivante nella sua untuosa modestia, un libriccino rilegato in cuoio vi troneggiava: quasi fosse stato messo lì apposta per attirare la mia prima attenzione. Nel frontespizio, arricchito di elementi decorativi in xilografia, stavano il titolo Manuale cristiano con molte preghiere ed istruzioni utilissime a ogni genere di persone e occorrenze e l’edizione A Maria Santissima Annunziata, Prato, per Ranieri Guasti, MDCCCXLIX.

    Reso larva di se stesso dal Tempo, il medesimo che comandava a sua sorella Vecchiaia di sfregiare la giovanile Bellezza, un cordino nero segnapagine mi aveva guidato a quel perentorio avvertimento: Ordina i tuoi affari, perché oggi tu morirai!

    Vecchiume, terrorismo spirituale: così, sbrigativamente, avrei voluto etichettare quel pezzo d’Ottocento che mi scottava le mani. I miei occhi però indugiavano tra le righe del capitolo intitolato Pel giorno di ritiro mensile a uso d’una santa morte.

    Considerate le opere che vorreste aver compiute nel tempo del vostro vigore, per ignavia o più grave colpa trascurate; e quelle che meglio sarebbe stato evitare, per la vostra e l’altrui salute. Piangete il fatale periglio cui vi siete stoltamente esposto. Doletevi amaramente della vostra ottusa cecità. Inorridite d’aver trascinato gli anni a guisa di dovervene rimproverare. Valutate in sommo grado le vostre omissioni, che sono falli dell’anima anch’esse.

    Buoni cristiani, dunque, sino alla mortificazione dello spirito, i miei avi: sorprendente. Ancor più lo fu scoprire che il mio babbo conservava, come santini in quel libriccino, la foto del Duce appeso cadavere per i piedi a piazzale Loreto e una pagina strappata dal Popolo d’Italia con un articolo del 1919 intitolato Trincerocrazia.

    C’erano nel baule anche diversi taccuini rilegati in pelle. Ne sfogliai uno a caso: come chiamando un numero dal sacchetto del gioco del lotto, durante gli interminabili pomeriggi delle noiose riunioni familiari nelle feste comandate. La sorte volle estrarre per me un paio di curiose rime in lingua siciliana, vergate in una grafia curiosamente sghimbescia: Franciscu era ’nfamiu, e chistu Vittoriu cchiù. Va a’ spugghiaru ‘a Trinacria, e 'un si nni parra cchiù.

    Che strano! Mi pareva di aver letto da qualche parte, non ricordavo dove, di quel mesto canto popolare che, nell’autunno del 1860, aveva percorso i latifondi riarsi della Sicilia: figlio delle disillusioni seguite agli entusiasmi per l'arrivo dei garibaldini e della rinnovata consapevolezza che laggiù nell'isola, ancora una volta, cambiava il padrone e nulla più. Ma che ci facevano tra le memorie di una famiglia toscana quei versi da puparo triste? Mistero!

    Slegai il cordino che impilava delle vecchie lettere ingiallite. Nell’inchiostro un po’ stinto d'una di esse riconobbi l’elegante calligrafia di mio padre.

    Prato, 9 febbraio 1936 - XIV E.F.

    Gentilissima Signorina Ludovica,

    oso scriverVi, non per giuoco o peggio celia, perché me ne obbliga un sentimento puro e sincero, che saperne non vuole della ragione e mi rende impossibile il lavoro e il riposo.

    Io Vi amo, Signorina: sin da quando, l'altra sera, ebbi l’alto onore di conoscerVi e condurVi nelle danze. Voi sola potete farmi il più infelice o il più misero dei mortali.

    Qualora condiscendiate alla mia richiesta, sarò onorato di palesare i miei serissimi propositi a mio padre, affinché s’apparecchi quanto conviene per il nostro fidanzamento.

    Vostro devotissimo

    Amedeo Mugnaini

    Irriconoscibile, invece, la grafia adolescenziale della destinataria di cotali ardori.

    Prato, 12 febbraio 1936

    Egregio Signore,

    dei Vostri buoni sentimenti e serie intenzioni nei miei riguardi abbiate la compiacenza di riferire al Vostro caro genitore. Quand’Egli fosse contento d’un nostro fidanzamento, potrò parlarne a mio padre, per ottenerne il consenso e autorizzarVi una visita.

    Perdonatemi se non oso rispondere direttamente alla Vostra accorata domanda. Vi lascio indovinare, con la Vostra esperienza maschile, ciò che la mia penna non ardisce rivelare.

    Ludovica Tintori

    Repressi a stento un gesto di stizza. Se potevo sorridere dei rossori dell’adolescente, come dimenticare il gelo funesto della sposa e della madre? La rabbia e il risentimento incenerivano sul nascere ogni possibilità di comprensione e perdono della poco cara e defunta genitrice. Il baule restò nell’angolo più remoto della cantina e finsi di dimenticarmene.

    Ho poi vissuto come ho potuto. Se merito o no almeno la sufficienza s’incaricherà di valutarlo chi ha avuto l’ardire di spedirmi, mio malgrado, su questa pianeta bistondo sparato nel cosmo a velocità supersonica. Lustri e decadi sono rotolati via, come un sasso da una ripa scoscesa. È giunto il momento di rompere il sigillo funesto dell’omertà. Prima che sia troppo tardi, io devo sapere.

    «Apriti, sesamo!»

    Non mi sono più fermato. Lavorando di bisturi come un anatomopatologo sul freddo marmo dell’obitorio, disseziono con meticolosa perizia le vite dei Mugnaini prima di me: lettere, cartoline, biglietti d’auguri e di condoglianze, partecipazioni di nozze e battesimi, fatture e cambiali, buoni del Tesoro fuori corso, quaderni di squola con qualche q di troppo.

    Un lungo viaggio a ritroso nel tempo, frugando nelle storie di chi mi ha preceduto: per restituire vita a quelle carte di morti; per cercare di dar un senso al loro e mio peregrinare.

    Lo so: è un estremo tentativo di salvarmi, se non la pelle almeno l’anima. E un altro peccato da aggiungere alla lista. Peccato di presunzione: essere io il ragioniere della partita doppia aperta tra Dio e la mia stirpe.

    Se un Dio c’è, da qualche parte, saprà perdonare la mia ostinazione di volergli rifare i conti in tasca. Senza sapere se ciò possa in alcun modo giovare: né alla memoria di coloro che furono e più non sono, né alla mia stanca senilità.

    Cinque

    In nome di Dio e del guadagno: così, sul finire del Trecento, il concittadino Francesco di Marco Datini, mercante di successo, siglava le sue lettere d’affari dirette agli empori di mezza Europa ed oltre.

    La Chiesa non l’ha ancora fatto santo perché manca il miracolo a sancire l’eroicità delle sue virtù cristiane. I pratesi però lo venerano comunque, laicamente e senza timore di scomunica. Forse che non fu abbastanza devoto in vita e grande benefattore degli indigenti da morto? O gli si vorrebbe rimproverare di aver compiuto un percorso diametralmente inverso a quello del Poverello di Assisi: clamoroso successo imprenditoriale e enorme accumulo di ricchezze, piuttosto che spoliazione di ogni bene materiale e pubblica mendicità?

    Il Datini piace tanto a noi pratesi perché incarna alla perfezione il mito della frontiera, secoli prima di un certo West a stelle e strisce: l’uomo nato di modeste condizioni che si fa da sé, con talento e un po’ di spregiudicatezza. Qui a Prato lo hanno imitato un po’ tutti. La sua lezione l’abbiamo imparata a memoria e ad essa devono essersi rifatti anche i miei avi mugnai.

    A dar retta alle carte del baule, fu il mio trisnonno Pietro a fare il gran passo di trasferirsi in città. Era nato giusto nell’anno in cui una concessione granducale assegnava a un pratese l’assegno di una lira per ogni dozzina di berretti rossi alla levantina confezionati e consegnati alla dogana marittima di Livorno. Anagrafe alla mano, Pietro non poteva ricordare quell’epoca di buon governo e, in età matura, ne favoleggiava come di un Eden perduto. Fosse stato lui intenditore d’arte, avrebbe potuto rapportarne gli effetti di pace e prosperità con quelli che, quattro secoli e mezzo prima, il pittore Ambrogio Lorenzetti aveva affrescato nel Palazzo Pubblico della sua Siena.

    Ma sto già divagando. Improbabile che il sor Pietro si sia mai recato nella città del Palio e abbia visto quegli affreschi: a quell’epoca viaggiavano per diletto soltanto nobili e signoroni. Intendiamoci, non che lui avrebbe avuto torto a mitizzare il governo illuminato del primo Granduca Lorena. Di storia patria m'intendo abbastanza da conoscere la sua politica riformatrice: liquidazione delle corporazioni e della manomorta ecclesiastica, accatastamento degli immobili e revisione del sistema fiscale avevano spianato la strada allo sviluppo economico della Toscana.

    Il piccolo Pietro, mi racconta il baule, cresce come vengono su tutti i figlioli dei mugnai: impolverato di farina da capo a piedi, da parere una statuina di gesso; tale e quale una di quelle che, anni dopo, serviranno da modelli di scultura al marmocchio del fabbro Liborio. Con quel Lorenzo, che di cognome fa Bartolini, si sono conosciuti alla scuola dei poveri di Savignano ed è già molto che le rispettive famiglie si preoccupino di dar loro un minimo d’istruzione. Si dà il caso, però, che l’indole ribelle del figlio di Liborio, svogliato garzoncello di mantice quanto poco solerte scolaro, non regga alla disciplina. La traiettoria balistica di un calamaio di piombo, lanciato a tutta forza contro il maestro, procura a Lorenzo un’immediata espulsione. Non per questo l'amicizia tra i due s’interrompe. È forse il mio avo Pietro il primo a intuire l’artista di respiro internazionale che quel compagnuccio discolo e impertinente, che sogna la fama a onta della fame, sarà? Che sia dei Mugnaini tutti un certo saper leggere dietro le facce e le maschere?

    Ebbi anch'io un Lorenzo, al tempo della mia gioventù: un amico fraterno, l’unico degno di un tale nome. Perché si fa presto a dire amico, banalizzando in un sostantivo abusato un mondo di emozioni e di affinità elettive rare come i cani gialli. Oggigiorno, poi, l'amicizia la si pretenderebbe addirittura virtuale: chiesta e concessa con un click, in quelle diavolerie elettroniche figlie della rivoluzione informatica.

    Lorenzo amico, e fraterno, lo fu davvero. Gli altri, pochi e distratti conoscenti, erano soltanto sodali di serate futili e di goliardie falsamente divertenti. Si chiamava proprio come quel Bartolini, figliolo del fabbro Liborio di Sofignano; ma io, allora, non potevo saperlo. Un ben diverso destino attendeva gli omonimi del santo martire sulla graticola: a fare pratica di scultura all’Accademia fiorentina di Belle Arti, per poi trovar fortuna e gloria a Parigi, l’amico d'infanzia del mio trisnonno; la putredine d'una troppo precoce fossa, l'amico mio carissimo.

    Accadde in un pomeriggio primaverile di vacanza scolastica. Sdraiati sull'erba, all’ombra di una rovere secolare, io e Lorenzo fischiettavamo un motivetto orecchiabile, alternando strofe e ritornello. Il rio Buti scorreva gorgogliando, non ancora pronto a mescolare le sue acque sorgive a quelle del sottostante fiume Bisenzio. Una pace perfetta ci attorniava, dopo tanti fracassi e sventure della guerra. Forse per gioco o per un perfido scherzo del destino, fu lui a riparlare della vecchia giostraia del tiro a segno: zingara sicuramente, strega d’aspetto, ciarlatana quanto bastava. Chi non si lasciava convincere a farsi scucire qualche spicciolo per provare a vincere un premio lanciando palle di cencio contro dei barattoli di latta, lei lo tentava con la lettura della mano. Nonostante il mio schernito dissenso, Lorenzo aveva sguaiatamente spalancato il palmo della sinistra: la mano diabolica. La vecchia aguzzò lo sguardo, aggrottò le ciglia e un fremito quasi impercettibile scosse il suo ossuto indice puntato su un groviglio inestricabile di linee. Lorenzo sorrideva, attendendo il responso, e non si curò del subitaneo pallore che aveva slavato il grigiore dal volto della vecchia. Qualcuno la chiamò e la vidi sgonnellare svelta dietro il suo misero baraccone. Il mio amico chiuse lentamente la mano, scosse le spalle e, a torto, credetti fosse finita lì.

    Appoggiato sui gomiti, a quasi un anno di distanza, con un filo d'erba in bocca, Lorenzo mi raccontava un seguito che non conoscevo. Era tornato dalla giostraia e, a forza d’insistere, le aveva estorto qualche vago cenno a una grande sventura, entro il giro della terra attorno al sole. Lui ancora ne rideva, un capolino di margherita che gli danzava dal labbro: esuberante di vita, inconsapevole che in quella caduta di stelle che segnava la sua mano stava scritta la sua fine. Lo vidi alzarsi, stirando pigramente il corpo tornito da giovane atleta. Le acque fresche del rio Buti lo chiamarono e d’un tratto, ma forse soltanto ai miei occhi, il pallore della vecchia stinse i colori del bosco. A fermarlo esitai, come poi dinanzi al baule di mio padre e tante altre volte nella vita. Lorenzo si tuffò, in un tripudio di schizzi, giù nella grande pozza sotto la cascatella: e il grigiore calò sul nostro pomeriggio di pace. Ce lo restituirono il giorno seguente i palombari, gonfio e orribile. Vomitai. Qualcosa di lui mi è rimasto dentro, indimenticabile.

    Chi muore giace, chi vive si dà pace. Il peggio del proverbio è l'oscena verità: gira e rigira la terra attorno al sole e ogni dolore stempera, diluisce, scolora.

    Passano le stagioni e fanno crescere Italo e Pietro: entrambi con un Lorenzo da rimpiangere; ma anche senza volere, e contro ogni logica, si dimentica.

    L’insofferente Bartolini, figliolo del fabbro Liborio, al mio trisavolo mugnaio ha lasciato in eredità il gusto dell’avventura, l’insofferenza alle consuetudini, l’odio per la menzogna. E così lo trovano, infarinato d’idealismo, le truppe rivoluzionarie francesi che si presentano in armi per liberare la Toscana dalla sbirrocrazia dei Granduchi di Lorena. Anche nella val di Bisenzio si vede innalzato qualche Albero della Libertà sormontato dal berretto frigio e qualche villico ballarvi in tondo con i francesi, inneggiando Libertè Egalitè Fraternitè. Il mio avo Pietro è tanto entusiasta da volerne ritrarre uno in un ingenuo schizzo a carboncino. Non altrettanto i suoi parenti e sottoposti, addetti alla macina: che si rifiutano, loro così fedeli alla tradizione cattolica, di venerare quel simbolo di ateismo.

    I francesi, da parte loro, non ci mettono molto a farsi detestare dai toscani: a forza di tasse, spoliazioni di chiese e leva militare obbligatoria. Si mugugna e il malcontento serpeggia. Qualcuno, nottetempo, si azzarda a imbrattare gli editti affissi sulle cantonate e finanche pisciare ai piedi dei troppi Alberi di una non troppo compresa Libertà. Di aizzare all’aperta rivolta contro i senz’Iddio venuti di Francia, insolenti sovvertitori dell’ordine morale, s’incarica un fratacchione zoccolante che di nome fa Bortolo: impugna un’enorme croce di legno di sughero e, con poche ferventi parole, si fa presto un grande seguito popolare nel contado di Arezzo.

    «Viva Gesù! Viva Maria!», vocia quella raccogliticcia armata Brancaleone di bigotti campagnoli, turbolenti disertori, esaltati fanatici, volgari banditi da strada, ufficialetti legittimisti d’ogni risma e nazionalità. Di borgo in borgo, di contrada in contrada, s’infittisce: invero più di falci, zappe e forconi che di rosari e crocefissi.

    «Viva Gesù! Viva Maria!»: pia la giaculatoria, serafici i nomi acclamati; preludio, tuttavia, di un battesimo di sangue. Sangue caldo, rosso vivo e soprattutto vero: sangue di poveri uomini e donne. Non il sangue finto, cerasuolo e lacrimatorio, che qualche anima bella pratese crede di veder sgorgare dalle occhiaie di terracotta della nostra Madonnina del Giglio: dolente e piangente, sempre per chi è disposto a crederci, per l’ira dei Cieli contro i giacobini toscani come Pietro, empi schernitori della religione e dei santi ministri d’Iddio.

    «Viva Gesù! Viva Maria!», e intanto i bottegai più accorti replicano «Sì, sì, ma questa l’è roba mia!», borbottando per farci la rimetta, mentre tirano via le loro mercanzie dai banchi e le nascondono. Della plebaglia affamata e cialtrona, insomma, fidarsi è bene e non fidarsi è meglio.

    La controrivoluzione salmodiante giunge alle porte di Prato, accompagnata da suadenti squadroni di cavalleria austriaca, e si mette in caccia dei sovversivi. Chi perde paga e i cocci sono suoi, come dice un altro nostro proverbio. Tra gli illusi, foss’anche in perfetta buona fede, dagli ideali di Libertà Uguaglianza Fraternità sono in parecchi a finire nei guai. In quei giorni convulsi, poi, bastano un discorso imprudente, un abito troppo alla francese o, appunto, uno schizzo a carboncino. Si ritrova in gattabuia anche quel mugnaio Pietro neppur ventenne: un paio dei mulini di famiglia confiscati, affinché si raffreddino i suoi ardori giacobini.

    Alle patrie galere fiorentine è già stato associato, per empietà e cospirazione, un certo Monsignor de’ Ricci, già contestatissimo vescovo di Pistoia e Prato. È da quel prelato caduto in disgrazia che il mio trisavolo conosce certe tesi in odor di eresia?

    Se l’indole umana è intimamente corrotta, e quindi votata al male, qual beneficio potrà mai venire all’anima dal sedersi al banchetto della Chiesa Cattolica? Se non ci si salva che per grazia divina, a che giovano le buone opere e il culto pio?

    Che il travaglio spirituale del giovane Mugnaini sia effettivamente avvenuto dietro le sbarre, se non addirittura nel medesimo carcere dove sta Monsignor de’ Ricci, le carte del baule non me lo dicono e, in fondo, poco importa: è comunque di quel periodo il sentimento polemicamente laico che gli segnerà la vita.

    Amnistiata la pena, Pietro torna alla sua valle e rientra in possesso dei molini. Di Francia e di rivoluzioni liberali non parla più apertamente. Tuttavia il furore antipapalino, che ha imparato a occultare, gli annebbia la realtà. I suoi amati ideali già sono stati traditi dai francesi stessi: ghigliottinati con il colpo di Stato che ha travolto i rivoluzionari più intransigenti; imbellettati, già cadaveri, nei ricchi salotti parigini arredati all'ultima moda. Avrà presto ad accorgersene, il mugnaio Pietro, e amaramente dolersene: quando, di lì a non molto, i francesi ricompaiono in armi; nascondendo stavolta, sotto le mentite spoglie dei sostenitori di una repubblica, le ambizioni da imperatore del giovane generale Bonaparte. Insomma, sor Pietro, ben facevate voi a borbottare tra i denti: «Accio accio, mi par che gli era meglio i’ nostro Granducaccio!»

    Intanto che i richiamati alla leva, carne toscana da macellare sui campi militari di Austerlitz per la gloria di Napoleone imperatore, con maggior motivo si rammaricavano cantando: Partire, partirò, partir bisogna, si prenderà la strada per Bologna al rullo dei tambur, a suon di banda ci batteremo e finirem la vita, Gigina cara ecco l’ultima partita.

    Comunque, come dicono i nostri cugini d’Oltralpe, tout se passe dans la vie: il male, il bene e ogni umana cosa. Tutto passa nella vita: senza lasciare traccia più incisiva del fumo nell'aria, del naviglio sul mare, del serpe nell’erba, dell'uomo sulla donna. Anche l’aquila imperiale di Napoleone passò e ci lasciò le penne.

    Ei fu, siccome immobile, dato il mortal sospiro, corse a poetarne il nostro Manzoni dopo il fatale Cinque Maggio nel triste esilio a Sant’Elena dell’imperatore sconfitto, inzuppando il cattolico pennino nell’inchiostro del dubbio: Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza.

    Nella mia Toscana tornarono i Lorena, ma di Napoleone rimasero le soppressioni ecclesiastiche e molte leggi civili e commerciali. Restò pure l’obbligo di quel nuovo vaccino che risparmiò dalle orride deturpazioni del vaiolo i visetti vispi delle tre frugolette del mio Pietro mugnaio: il quale, intanto, aveva messo su famiglia, sebbene non di fronte a Dio e al Granduca. Quella di non sposarsi davanti al curato della pieve di San Lorenzo a Usella era stata, con il senno del poi, una scelta polemica e avventata, figlia delle mai rinnegate simpatie giacobine. La sua rubiconda Maddalena, tutta puppe e giudizio, ingravidata senza alcuna cattolica benedizione, gli aveva partorito, una dopo l’altra, tre paffutelle femminucce. Uno scandalo: con i pubblici concubini segnati a dito per tutta la valle e le beghine che, incrociandoli, chinavano il capo e si facevano il segno della croce, quasi avessero visto Satanasso e Satanassa a braccetto per la strada.

    Al sor Pietro di quelle chiacchiere di paese non importava granché. Con i suoi mulini aveva lavorato sodo: mazza e stanga, come si diceva allora e oggi non si dice quasi più. Qualche quattrino l’aveva messo in saccoccia, ma le sue mire lo facevano volare più lontano del piccolo borgo incassato nell’Appennino dov’erano nate e morte le generazioni che lo avevano preceduto. Il mondo non finiva allo sbocco della valle di quel fiume impertinente, magro d’estate e rovinoso d’inverno; proseguiva oltre le mura della città, in una piana di terreni irrigui, dove il vivere era meno duro e si poteva godere di qualche svago. No, non si trattava di favole riportate da chi a Prato ci andava una volta la settimana a far mercato: aveva visto lui stesso le zolle grasse dei campi di Grignano e Cafaggio.

    Quella fertile piana diventò il suo chiodo fisso e la svolta nella strada di noi Mugnaini.

    Sei

    Ci sono strane convergenze nelle vicende umane, che annodano i capi di corde di differenti consistenze, materiali e colori. Alcune sembrano ordite dagli angeli: per favorire, promuovere, sviluppare processi benevoli e produttivi. Altre, invece, tramate dai diavoli: per frenare, intralciare, sabotare e insomma rendere tutto più complicato e difficile.

    Quello con Giovan Battista Mazzoni fu per il mio trisavolo un incontro davvero fortunato. Gli investimenti fondiari nei poderi della piana il sor Pietro li aveva azzeccati, e così la scelta di una signorina di buona famiglia come legittima sposa e l’acquisto del palazzotto dentro le mura dove sistemarsi con lei. Ogni sera, prima di smorzare il moccolo nella nuova camera da letto, rivolgeva una preghiera di ringraziamento ai suoi Lari protettori, per avergli ben consigliato di fare il gran balzo: da valligiano mugnaio a signorotto di città. Tuttavia, passata l’euforia della nascita del tanto sospirato erede maschio, a quarant’anni suonati lui si ritrovava pur sempre uno zotico arricchito. Chi, con garbo e misura, gli suggerì il modo di affrancarsi dall’ignoranza più becera fu proprio l’ingegner Mazzoni, cui non erano mancati buona educazione e studi appropriati.

    Avendo ben chiaro che non deve dormire chi vuol campare, quel figlio di pura razzaccia pratese, dopo la laurea in ingegneria, si era finto reduce dai campi di battaglia di Waterloo: per farsi assumere a Parigi come operaio e carpire la segretissima meccanica dei nuovi macchinari per la filatura del cotone. Di ritorno in patria, il Giovan Battista aveva concordato un affitto trentennale del dismesso convento di Sant’Anna in Giolica; e là, dove in un tempo lontano visse da eremita il Beato Bruno, egli provava e riprovava a tradurre in trama e ordito quel suo bagaglio di conoscenze acquisite.

    Sant’Anna, oggi contigua all’edificato urbano, era all'inizio dell'Ottocento immersa in una campagna di viti e olivi, punteggiata di rare ville signorili e torri di avvistamento, che invitava alle passeggiate fuori porta. Un terrazzo a mezza costa sulla piana, detto appunto Giolica: antico toponimo che, pare, deformi popolarmente il termine giolito, ovverosia ameno. Conosco però una più romantica leggenda, che anche il mio trisavolo potrebbe aver rintracciato in quei suoi anni di letture disordinate. Vi si narra di una tale Giolica, avvenente fanciulla contesa tra due pretendenti e segregata in un’alta torre sul fiume Pescara e di là misteriosamente scomparsa. Dei monaci seguaci del Beato Bruno, originari di quei luoghi d’Abruzzo, chiamarono forse il declivio Giolica in ricordo della vezzosa fanciulla?

    Sapesse o no della novella medievale, niente di strano che il mio avo, andandosene bel bello per uno di quegli stradelli come un Don Abbondio senza tonaca, adocchiasse in un tiepido pomeriggio d’aprile proprio chi si augurava d’incontrare. Da secoli la devozione popolare attirava alla chiesa di Sant’Anna le anime pie, ma il sor Pietro non era certo venuto per genuflettersi: di più laico prodigio, di perizia tecnica, era curioso. Delle tante dicerie che circolavano sulle strane macchine del Mazzoni, il

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