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La decarbonizzazione felice
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E-book172 pagine2 ore

La decarbonizzazione felice

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Info su questo ebook

Siamo abituati a vedere la lotta al cambiamento climatico come una sfida epocale, che ci imporrà sacrifici e stravolgerà il nostro modo di vivere. Ma se invece provassimo a trasformare questa sfida in un'occasione? Con la giusta dose di coraggio e ingegno la lotta al cambiamento climatico può diventare un volano di sviluppo per i territori, un moltiplicatore di opportunità per il tessuto imprenditoriale, uno strumento per mitigare le disuguaglianze economiche e per smorzare il conflitto sociale. Quello che serve non è una ricetta miracolosa ma una visione complessiva: la strategia ambientale va calata nel contesto economico, sociale e politico del nostro Paese. In questo libro l’autore abbozza uno scenario di contrasto al cambiamento climatico che spazia dalla gestione del patrimonio forestale alla finanza verde, dall'agricoltura alle filiere industriali, dai nuovi materiali alle smart cities, individuando alcune direttrici in grado di far diventare la politica ambientale un tutt'uno con quella industriale, sociale e culturale.

LinguaItaliano
Data di uscita12 nov 2020
ISBN9788863457773
La decarbonizzazione felice

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    Anteprima del libro

    La decarbonizzazione felice - Enrico Mariutti

    Capitolo 1

    Perché è necessario un nuovo modello

    Fino a pochi mesi fa nel futuro dell’Italia campeggiava la lotta al cambiamento climatico.

    Dopo decenni di furiose polemiche, finalmente, all’inizio del millennio la comunità scientifica, le istituzioni e l’opinione pubblica sono arrivati a condividere quantomeno tre punti riguardo al cambiamento climatico: esiste e peggiora molto rapidamente, è una minaccia epocale, è causato dalle attività umane.

    Nello specifico, gli scienziati hanno individuato nell’anidride carbonica (CO2), e più genericamente nei cosiddetti gas climalteranti, i principali responsabili del graduale surriscaldamento del pianeta. Centinaia di studi, infatti, hanno dimostrato che l’anidride carbonica è un gas a effetto serra: rispedisce nell’atmosfera terrestre parte della radiazione che colpisce il nostro pianeta e rimbalza, diretta verso lo spazio. Perciò, più aumenta la concentrazione di CO2 in atmosfera, più si inspessisce la serra che circonda il pianeta, maggiore è la quantità di calore che rimarrà imprigionata nell’atmosfera terrestre, invece che disperdersi nello spazio.

    Di conseguenza, almeno a parole, i grandi leader mondiali hanno concordato una roadmap per decarbonizzare le loro economie, e cioè azzerare le emissioni di anidride carbonica.

    Da una parte hanno preso l’impegno di ridurre e migliorare l’uso del suolo: bloccare la deforestazione, piantare nuove foreste, adottare modelli agricoli e zootecnici più sostenibili. Dall’altra, hanno programmato l’abbandono (phase out) dei combustibili fossili, quindi investimenti in nuove fonti di energia rinnovabile, la mobilità elettrica, il ripensamento dei cicli industriali.

    Il Covid-19, però, ha stravolto i piani dei governi e le roadmap delle organizzazioni intergovernative. Oggi in Italia, come nel resto del mondo, le priorità sono diventate improvvisamente altre: un rapido ritorno alla crescita economica, la tutela della coesione sociale, il rilancio della competitività industriale. E, se avanzano risorse, la lotta al cambiamento climatico.

    Quindi la transizione ecologica è accantonata?

    Dipende.

    Se con transizione ecologica si intende lo scenario proposto da alcuni utopisti inconsapevoli, quindi un percorso di decrescita economica volontaria, allora più che accantonata potremmo dire che non è mai partita. E difficilmente si imporrà in tempi come questi.

    Ma se la transizione green diventasse un volano per far ripartire l’economia, uno strumento per redistribuire benessere alle fasce sociali più colpite dalla recessione e per garantire prospettive di sviluppo al tessuto imprenditoriale?

    Quando ci sentiamo dire che se vogliamo combattere efficacemente il cambiamento climatico siamo chiamati a cambiare modello di sviluppo e a rivoluzionare il nostro stile di vita dovremmo avere la lucidità di visualizzare questo concetto sotto forma logico-matematica (implicazione):

    «se riusciremo a cambiare il nostro modello di sviluppo e se riusciremo a rivoluzionare il nostro stile di vita, allora riusciremo a contrastare efficacemente il cambiamento climatico».

    Solo questa prospettiva, infatti, restituisce un’immagine chiara del profilo di rischio insito in un approccio di questo genere: ogni se è un’incognita, una buccia di banana su cui le nostre strategie possono scivolare.

    Non solo. Ciascuna incognita si può declinare addirittura da più prospettive.

    Innanzitutto, c’è la prospettiva strategica: se la decarbonizzazione si trasforma in un vantaggio competitivo per qualcuno e in uno svantaggio competitivo per qualcun altro, chiaramente, incontrerà feroci resistenze da parte di chi rischia di venire penalizzato. A maggior ragione in un contesto internazionale come quello di questi anni, in cui sembra si vadano delineando nuovamente due blocchi in contrapposizione l’uno con l’altro.

    Poi c’è la prospettiva sociopolitica: il paradigma della sostenibilità ambientale deve essere, a sua volta, socialmente e politicamente sostenibile. A maggior ragione, una strategia che si articola su un arco temporale di decenni. La ripartizione degli oneri non deve creare uno spartiacque tra vincitori e vinti, che comprometterebbe il consenso elettorale necessario a riforme strutturali così profonde.

    E infine ci sono i cigni neri: una nuova, violenta, crisi finanziaria, un incidente nucleare, un’improvvisa accelerazione della stessa crisi ambientale, un conflitto armato su vasta scala. Tutte evenienze imprevedibili ma da tenere necessariamente in considerazione perché, come ci dimostra questa pandemia, un conto è il rischio, e cioè la probabilità che un dato evento accada, e un conto è il pericolo, e cioè la portata delle conseguenze nel caso in cui si verifichi. E gli eventi a basso indice di rischio ma a elevato indice di pericolo sono quelli che sottostimiamo con maggiore facilità.

    Credere di poter pilotare la Storia come una macchina telecomandata è un’illusione candida ma terribilmente pericolosa. Il rischio è quello di trovarsi completamente impreparati quando gli eventi vanno dove vogliono.

    Se vuole essere veramente efficace la lotta al cambiamento climatico deve diventare un processo che avanza per inerzia, deve essere lo sfondo incolore su cui va in scena il teatro delle relazioni internazionali, deve essere una nuova dimensione economica che si stratifica sopra alle altre, deve nutrire le speranze delle persone, non pretendere di cambiarle. Solo così possiamo sperare di centrare gli ambiziosissimi obiettivi che ci siamo dati a Parigi nel 2015 (zero emissioni nette entro il 2050).

    La pandemia, perciò, è un’occasione per guardare alle crisi ambientali con occhi diversi, per ribaltare quel paradigma a cui ci eravamo tanto affezionati, nonostante gli scarsi risultati: la lotta al cambiamento climatico deve produrre crescita economica, non decrescita.

    Si tratta di una grande occasione per chiunque saprà coglierla ma, in particolare, per il nostro Paese.

    Adesso più che mai, infatti, l’Italia si deve inventare qualcosa se vuole rimanere a galla.

    Siamo un Paese diviso, sfiduciato e indebitato, con una popolazione anziana e non particolarmente istruita, siamo tartassati, investiamo poco e abbiamo smarrito il senso di appartenenza a una comunità ben definita. Negli ultimi vent’anni abbiamo perso il treno dell’Information Technology (It), abbiamo perso il treno della digitalizzazione, abbiamo perso il treno delle nuove fonti di energia rinnovabile (Nfer). Questo non vuol dire che non dovremo recuperare il terreno perduto ma è illusorio pensare che questa crisi rimetterà in discussione la leadership tecnologica americana nell’It e nella fintech, quella giapponese nell’elettronica o quella tedesca nella meccanica di precisione. Anzi, al contrario: tutti gli Stati cercheranno di sfruttare la pandemia per aumentare la competitività del proprio sistema produttivo, mettendo in gioco tutte le risorse di cui dispongono. Sarà una sorta di corsa all’oro. E in un’economia globalizzata non si ridistribuisce solo la ricchezza, si ridistribuiscono anche, e soprattutto, le competenze produttive (trade in tasks): il confronto più serrato sarà quello per catturare le attività economiche a medio e ad alto valore aggiunto che durante gli anni delle vacche grasse si erano trasferite in contesti più dinamici, come il sud-est asiatico, ma che oggi sono sensibili alle sirene che chiamano dalle economie più stabili e resilienti, come le economie del nord Europa.

    Proprio per questo, l’Italia ha disperatamente bisogno di un modello di sviluppo innovativo, di un percorso alternativo a quello seguito dai Paesi dell’Europa settentrionale, che le permetta di accorciare la distanza accumulata negli ultimi vent’anni e tornare nel gruppo di testa delle grandi economie mondiali.

    Al contrario, se ci appiattiamo sul modello rinnovabili-mobilità elettrica, l’unica prospettiva realistica è il declino economico e sociale.

    Il caso tedesco e quello francese illustrano efficacemente i rischi correlati all’inerzia strategica delle istituzioni italiane.

    Negli ultimi 10 anni il costo dell’energia in Germania ha avuto un andamento ambivalente. Da una parte, grazie alla crescente penetrazione delle energie rinnovabili, il costo di produzione dell’energia è calato drasticamente: pale eoliche e pannelli solari non hanno bisogno di combustibili, la gran parte dei costi sono legati all’istallazione degli impianti. Dall’altra, però, il costo dell’energia per i consumatori e per le aziende (tranne le più grandi ed energivore, che godono di esenzioni) è aumentato di più del 50%, a causa del peso crescente della tassazione destinata a finanziare la riconversione del parco centrali.

    Germania

    Valore delle imposte dirette e indirette sull’energia

    (Iva esclusa)

    Dati: Bundesverband der Energie- und Wasserwirtschaft (Bdew).

    * Dati stimati.

    Il caso francese è speculare a quello tedesco, con l’unica differenza che interessa i trasporti invece che il settore elettrico. Non bisogna dimenticare, infatti, che il 75% del fabbisogno elettrico francese è garantito dall’energia nucleare, una forma di energia carbon neutral (che non produce emissioni di anidride carbonica).

    Per reperire risorse da destinare alla decarbonizzazione nel solo 2018 il prezzo del gasolio in Francia è aumentato del 18%, senza alcun tipo di esenzione per le categorie produttive la cui competitività dipende dal prezzo dei combustibili.

    Variazione percentuale della tassazione sul diesel

    Novembre 2015-Novembre 2018

    Dati: Commissione europea.

    Certo, in molte città della Germania e della Francia gli ambientalisti conquistano la maggioranza relativa ma si tratta di contesti economici in cui negli ultimi dieci anni i redditi sono aumentati consistentemente: ci sono ampie fasce sociali pronte a pagare qualcosa in più per la decarbonizzazione. Il tessuto produttivo di base e i territori, però, ribollono: in Germania le proteste per il prezzo dell’elettricità si moltiplicano, in Francia il movimento dei gilet gialli, al netto delle strumentalizzazioni e delle infiltrazioni, è nato come reazione spontanea degli agricoltori e degli autotrasportatori all’aumento del prezzo del gasolio.

    In Italia politiche del genere avrebbero conseguenze disastrose sul tessuto produttivo, composto per oltre il 90% da Pmi, e sui consumi interni, già prostrati dalla perdurante stagnazione dei redditi e dalla pandemia. Oltretutto, già oggi il prezzo dell’energia per usi industriali e il prezzo della benzina sono i più alti d’Europa, spingersi oltre significherebbe dare il colpo di grazia alla competitività del Paese.

    Inutile provarci: il modello franco-tedesco in Italia non funziona. Ma non per questo possiamo farci sfuggire un’occasione in cui gli equilibri globali, che vedevano l’Italia in fase declinante, vengono improvvisamente messi in discussione.

    Da un certo punto di vista, quindi, si può dire che il combinato disposto della pandemia e della crisi ambientale spinge l’Italia fuori dal dubbio amletico in cui era invischiata da almeno 20 anni: provare a risalire la china o vivacchiare? Ora non c’è più scelta.

    Anche per il tessuto produttivo si tratta di un passaggio critico ma, al contempo, ricco di opportunità.

    Da una parte c’è l’imponderabile: i meccanismi di governance internazionale saranno in grado di gestire una crisi sistemica globale? Il crollo della domanda nei principali mercati di consumo spingerà l’economia mondiale verso una nuova grande depressione? Dalla pandemia scaturiranno conflitti, imponenti ondate migratorie, tensioni sociali distruttive?

    Nessuno può prevederlo.

    Ma è facile prevedere che, se l’epidemia non si avviterà in qualcosa di peggio, quando l’emergenza sanitaria sarà finita i consumi torneranno a crescere rapidamente in tutto il mondo. La propensione al risparmio calerà, quantomeno nel breve periodo. E la domanda di beni, servizi ed esperienze green crescerà con più vigore di prima.

    Chi pensa il contrario confonde questa drammatica epidemia con una guerra. Durante una guerra la ricchezza si distrugge, durante una pandemia si redistribuisce.

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