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Energia verde? Prepariamoci a scavare: I costi ambientali delle energie rinnovabili
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Energia verde? Prepariamoci a scavare: I costi ambientali delle energie rinnovabili
E-book395 pagine4 ore

Energia verde? Prepariamoci a scavare: I costi ambientali delle energie rinnovabili

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Una decarbonizzazione rapida e profonda in tutto il mondo è lo scenario elaborato dalla IEA (International Energy Agency) per riuscire a contenere l’aumento delle temperature medie nel modo più rapido possibile, e prevede l’impiego massiccio delle tecnologie conosciute come green: pannelli fotovoltaici, impianti eolici, sistemi di accumulo e mobilità elettrica. 

La costruzione di questi dispositivi richiederà enormi quantità di risorse non rinnovabili. Per sostenere la richiesta la World Bank stima che nei prossimi 25 anni sarà necessario estrarre 3,5 miliardi di tonnellate di metalli, una quantità colossale: estrarremo più rame nel prossimo quarto di secolo che in 5000 anni di storia dell’umanità. La carenza di efficaci tecnologie per il riciclo dei materiali provenienti dall’obsolescenza dei dispositivi comporterà inoltre la produzione di enormi quantità di rifiuti.

L’autore analizza gli impatti di simili obbiettivi su più livelli. Dal punto di vista estrattivo realizza un percorso attraverso il Pianeta per descrivere gli impatti ambientali e sociali dell’industria mineraria, dai boschi dell’Alaska alla foresta andina ecuadoregna, dal deserto di Atacama all’isola di Sulawesi, fino a prendere in considerazione l’intenzione, già avanzata da più parti, di sfruttamento minerario dei fondali oceanici. Descrive quindi le principali conseguenze legate all’attività estrattiva: dal drenaggio acido, che contamina le risorse idriche, ai potenziali disastri legati alle dighe di sterili, come quelli avvenuti di recente in Brasile, alle diverse conseguenze dell’estrattivismo sulle popolazioni locali. 

Ma in particolare la verità scomoda è che la maggior parte dei metalli viene e verrà consumata dai cittadini di una manciata di nazioni ricche, mentre le conseguenze ambientali, sociali e culturali, ricadono e sempre più ricadranno sulle popolazioni delle nazioni povere da cui vengono estratti. 

Completano l’analisi considerazioni di carattere geopolitico, che evidenziano come queste materie prime critiche, fondamentali per centrare gli obbiettivi degli Accordi di Parigi sui cambiamenti climatici, comportino una dipendenza nelle forniture da Paesi in diretta competizione per i medesimi obiettivi, come la Cina, evidenziando come la dipendenza attuale dai combustibili fossili verrà sostituita da una dipendenza dalle materie prime.
LinguaItaliano
Data di uscita17 mar 2021
ISBN9788898186501
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    Anteprima del libro

    Energia verde? Prepariamoci a scavare - Giovanni Brussato

    bibliografici

    Prefazione

    di Rosa Filippini

    (direttrice de L’Astrolabio, giornale di Amici della Terra)

    E il nucleare no, i fossili no, e adesso nemmeno le rinnovabili… Se siete fra quelli che pensano che agli ambientalisti non va mai bene niente, beh…avete ragione.

    In principio, è il loro mestiere quello di denunciare gli squilibri determinati dalle attività umane sulla natura. I movimenti ambientalisti sono nati nel ventesimo secolo nella parte più ricca del mondo e poi, via via, un po’ ovunque, dove disastri ambientali e sociali si manifestavano come contropartita negativa di un veloce sviluppo tecnologico ed economico che, per la prima volta nella storia del pianeta, aveva portato la specie umana a dominare la natura e non a esserne dominata.

    Fortunatamente, lo sviluppo economico ha contribuito e contribuisce anche alla diffusione del benessere, della cultura e, in misura non lineare e controversa, all’affermazione dei diritti e delle libertà. Ovvero a quei benefit indispensabili – fra l’altro – a comprendere e proteggere gli equilibri naturali, a porre termine alle attività dannose, a riconoscere le minacce future e a trovare, con l’aiuto delle tecnologie, nuovi traguardi per uno sviluppo equo e meno distruttivo possibile.

    L’asticella è sempre più alta non perché gli ambientalisti non sono mai contenti ma perché i problemi si presentano con sempre maggiore complessità, e le soluzioni non sono a portata di mano, ammesso che lo siano mai state.

    Oggi più che mai i problemi non si esauriscono nella messa a punto di singole tecnologie, ma devono trovare soluzioni per l’applicazione di queste ai cicli di produzione e consumo, per la loro compatibilità con i sistemi economici e con i mercati. L’impatto ambientale di ogni nuova soluzione tecnologica deve – dovrebbe – essere misurato con attenzione in ogni fase del ciclo di vita dei manufatti e delle infrastrutture necessarie alla filiera. E, siccome tendiamo a società in cui non ci siano più sudditi né schiavi, occorre – occorrerebbe – risolvere anche i problemi di accettabilità sociale delle nuove produzioni, per ciò che riguarda sia i lavoratori che i consumatori, che i cittadini. Ognuno di questi aspetti dovrebbe essere valutato in relazione alle alternative, per essere certi di progredire nel cammino verso la sostenibilità dello sviluppo, e prima ancora, nel cammino della civiltà, e non di tornare indietro.

    Quando dunque gli ambientalisti si fanno interpreti di questa consapevolezza e della correttezza di queste valutazioni, non dovremmo lamentarcene troppo. Quest’azione di sorveglianza locale e globale – a livello politico ma anche amministrativo, lì dove i sistemi di governo lo consentono – porta a procedure più lunghe e accurate sia per la definizione delle strategie sia per la realizzazione delle opere. Diffusione delle informazioni, dibattiti pubblici, confronti anche serrati con tutti i portatori di interesse fanno sicuramente perdere molto tempo agli imprenditori, ma portano anche a decisioni migliori e durature, a strategie più efficaci, alla condivisione di scelte e responsabilità.

    Il problema, semmai, nasce quando l’ambientalismo cede ad approcci ideologici – succede anche questo, visto che stiamo parlando di un fenomeno politico e non di una comunità di asceti – quando adotta messaggi semplificati per denunciare problemi complessi, quando si fa vettore di una unica proposta tecnologica.

    Sta succedendo ora. La bella immagine di migliaia di studenti mobilitati per la salvezza del pianeta sta spingendo governi e istituzioni internazionali ad accelerare, in modo irragionevole, l’adozione di una mobilità elettrica privata basata sull’uso di batterie.

    Noi sappiamo – lo dicono gli operatori stessi del comparto – che in assenza di innovazioni decisive questa trasformazione della mobilità privata potrà riguardare solo l’Europa e, parzialmente, qualche altro paese ricco. Che le emissioni evitate grazie all’esercizio delle auto elettriche in Europa saranno largamente sostituite da quelle provocate dalla filiera produttiva cinese delle batterie, alimentata dal carbone. Che dedicare più attenzione e risorse all’efficienza della mobilità collettiva e del trasporto merci darebbe migliori risultati rispetto a bonus come il monopattino elettrico (sic!). Ma questi ragionamenti non riescono a scalfire le ottuse decisioni prese nella convinzione di assecondare la bella immagine dei ragazzi che protestano.

    Grazie allo stesso meccanismo mediatico, l’opinione pubblica mondiale è portata a credere che oggi pale eoliche e grandi estensioni di pannelli fotovoltaici possano sostituire tutte le fonti fossili nell’alimentazione dei sistemi energetici in tempi brevi, addirittura rinunciando alla transizione assicurata dal gas.

    Dati ufficiali e agenzie esperte mostrano che non è così, che dopo venti anni di sforzi – costosissimi! – il mondo è ancora alimentato per oltre l’80% da fonti fossili (l’Italia per il 79,3%) e la percentuale restante è largamente assicurata dall’idroelettrico tradizionale, dai biocarburanti e dal nucleare. Enormi quantità di pale e pannelli hanno deturpato paesaggi – ovunque ma specialmente in Italia – per un misero 2% del totale mondiale.

    Ora, il problema posto da Giovanni Brussato in questo libro, non tanto attraverso le sue personali opinioni, ma attraverso un’importante raccolta, organizzazione ed elaborazione di dati e di documenti, riguarda un elemento della realtà ancora più radicale: a oggi non ci sono riserve mondiali di metalli e terre rare in grado di soddisfare la domanda di mobilità elettrica e fonti rinnovabili elettriche ipotizzata dagli scenari di decarbonizzazione al 2030. E quelle oggi identificate sono in gran parte opzionate dalla Cina, con tutti i problemi geopolitici che questo comporta. Occorre inoltre sottolineare che sono molteplici i settori dipendenti dalla disponibilità di questi materiali, oltre a quello green: telecomunicazioni, militare, costruzioni e digitale solo per citarne alcuni.

    Per finire, quello descritto potrebbe essere solo l’ennesimo capitolo di decisioni avventate, di turbolenze che agitano comparti strategici e di giganteschi sprechi di risorse pubbliche. Potrebbe. Se non fosse anche il retroscena della profonda ingiustizia che sorregge la rappresentazione di un green deal per soli paesi ricchi: lo sfruttamento delle nuove e delle antiche miniere di minerali indispensabili alle tecnologie pulite, si annuncia distruttivo e feroce per i popoli del sud del mondo, in misura inversamente proporzionale alla scarsità di queste risorse.

    Ma non dovevamo costruire un mondo migliore?

    Roma, 12 febbraio 2021

    «.. l’argomento più forte dei detrattori è che i campi sono devastati

    dalle operazioni di estrazione…

    Inoltre, quando i minerali vengono lavati, l’acqua che è stata usata avvelena i ruscelli e i torrenti e distrugge i pesci o li scaccia. Pertanto gli abitanti di queste regioni, a causa della devastazione dei loro campi, boschi, ruscelli e fiumi, trovano grandi difficoltà a procurarsi le necessità della vita e, a causa della distruzione del legname sono costretti a maggiori spese per la costruzione di edifici. Così si dice, è chiaro a tutti che il danno all’ambiente creato dalle miniere è maggiore del valore dei metalli prodotti dall’estrazione.»

    G. Agricola, De re metallica,1556

    1

    L’età dei metalli tecnologici

    Molte persone sono dell’opinione che le industrie metallurgiche siano occasionali e che l’occupazione sia di lavoro squallido e nel complesso un tipo di attività che richiede non tanto abilità quanto manodopera.

    Agricola

    La coltivazione mineraria

    Un vecchio detto minerario recita «se non è cresciuto, è estratto», intendendo che la società ha da sempre bisogno di materiali forniti dalle miniere, tanto quanto ha bisogno di cibo e acqua.

    Il mondo moderno richiede all’estrazione mineraria di fornire tipologie di materie prime sempre più complesse: dal ferro per l’acciaio, ai metalli di base, come alluminio, rame, zinco, nichel, ai cosiddetti metalli critici, cruciali per la tecnologia moderna e noti comunemente come ‘terre rare’ (rare earth elements, REE): indio, litio, tellurio, cobalto e molti altri. Crescita della popolazione e sviluppo economico in tutto il mondo, e in particolare l’aumento dei consumi e dell’urbanizzazione, portano a una domanda sempre crescente delle materie prime fornite dall’industria estrattiva.

    La ricerca di minerali è un’attività piena di rischi finanziari e ambientali: trasformare le risorse minerali in materie prime consiste in una serie di processi che separano il minerale dalla matrice rocciosa che lo contiene per trasformarlo in elementi di uso industriale, di purezza e composizione chimica specifici. Il ciclo di vita dell’industria mineraria inizia con la prospezione, cioè la fase in cui si cerca di individuare un deposito sufficientemente ricco per valutare la convenienza economica del costoso processo di estrazione, continua attraverso la costruzione e gestione della miniera e termina con la chiusura e, in taluni casi ma purtroppo non sempre, con il ripristino ambientale del sito utilizzato. In realtà queste tre fasi, esplorazione, estrazione e recupero, nella tempistica si sovrappongono: identificato il deposito attraverso la prospezione, l’industria deve fare un investimento considerevole nello sviluppo già prima che inizi l’estrazione mineraria. Ulteriori esplorazioni nei pressi dell’area estrattiva e altre operazioni di sviluppo all’interno del sito vengono poi eseguite mentre l’estrazione è in corso: non è infrequente, per esempio, che la coltivazione di una miniera iniziata a cielo aperto prosegua poi in sotterraneo.

    In genere, il prodotto di una miniera è in realtà un semilavorato, cioè non ancora un prodotto commerciale, ma semplicemente un minerale concentrato che richiede un’ulteriore trasformazione in una fonderia e/o in una raffineria per produrre un materiale adatto per la vendita all’industria. Fonderie e raffinerie sono spesso molto lontane dalla miniera, a volte in un altro paese o continente.

    Tra tutte le attività industriali, l’attività estrattiva di minerali solidi da miniere e cave è quella che maggiormente può generare un rilevante impatto ambientale e sociale, ma è anche il fondamento di moltissime altre attività produttive e, di conseguenza, dello sviluppo e del benessere della popolazione. Ogni ciclo dell’evoluzione dell’uomo è strettamente connesso con la disponibilità di minerali, così come ogni rivoluzione industriale è stata permessa dall’approvvigionamento di nuove risorse.

    D’altro canto l’industria mineraria prevede attività di pericolosità intrinseca, che comportano da un lato incidenti sul lavoro e malattie professionali per il personale, oltre a modifiche del paesaggio e della sua percezione visiva, con alterazioni della morfologia del territorio, che sono solo gli aspetti più evidenti e comuni. Come vedremo più avanti, spesso comportano anche la sottrazione di terreni all’agricoltura e all’allevamento, modifiche alla stabilità geologica delle aree interessate e di quelle adiacenti con pericoli di frane e smottamenti, interferenze con le falde acquifere e in generale con l’assetto idrologico della zona, inquinamento acustico e dispersione di polveri dovuta alla movimentazione dei mezzi meccanici, tutti fenomeni collaterali all’attività estrattiva che sono presenti nella quasi totalità degli impianti. Un ulteriore grave pericolo è la dispersione nell’ambiente di elementi tossici, i cosiddetti metalli pesanti, un termine che comprende metalli veri e propri come rame, piombo, zinco, cadmio, mercurio e cromo ma anche non-metalli o semimetalli quali selenio, arsenico, antimonio, bismuto e altri.

    È stato calcolato[1] che l’estrazione mineraria potenzialmente influisce su 50 milioni di km² di superficie terrestre, un’area superiore a quella dell’intero continente asiatico, in cui l’8% coincide con le aree protette, il 7% con le principali aree di biodiversità e il 16% con aree ancora incontaminate. La maggior parte delle aree minerarie considerate, l’82%, estrae metalli necessari per la produzione di tecnologie destinate alle energie rinnovabili. Le minacce dell’attività mineraria alla biodiversità, senza una pianificazione volta a tutelarla, potrebbero dunque superare quelle evitate dalla mitigazione dei cambiamenti climatici.

    Riserve e Risorse

    La prospezione mineraria è un’attività complessa, basata su una profonda conoscenza delle caratteristiche geologiche dei depositi ricercati e del processo che ha portato alla loro formazione in tempi remoti, e richiede alle società di esplorazione interventi talora pesantemente invasivi per l’ambiente, anche per il semplice fatto che aree anche dapprima considerate promettenti possono risultare non interessanti economicamente.

    Le nuove forme di prospezione ad alta tecnologia riducono molto questi rischi. Molte scoperte minerali dagli anni ’50 possono essere attribuite a tecnologie geofisiche e geochimiche, ma dagli anni ’90 il GPS e la tomografia, tecnica spettroscopica mirata alla rappresentazione a strati, mutuata dalla medicina, sono stati applicati all’esplorazione mineraria. Le aziende di prospezione hanno grandi database, che naturalmente, a causa della concorrenza a livello industriale, non sono disponibili per la comunità scientifica. Resta evidente che sebbene la prospezione non comporti gli stessi impatti di una coltivazione mineraria il danno ambientale che comunque produce può essere rilevante: l’esplorazione di una concessione mineraria può comportare il disboscamento, spesso di zone molto ampie, per consentire l’ingresso di pesanti attrezzature necessarie ai sondaggi sul campo mediante perforazione per l’estrazione di carote[2] da analizzare, o per il rilevamento di siti idonei allo sviluppo di infrastrutture, come i serbatoi di sterili, con potenziali danni anche per le specie animali autoctone.

    Quando un composto chimico nella crosta terrestre si deposita in concentrazioni superiori alla media e in aree sufficientemente estese tali da apparire in condizioni tali da essere economicamente sfruttabili, viene chiamato giacimento. Le risorse minerarie sono non rinnovabili, cioè non possono essere ricostituite quando vengono consumate. O meglio, non possono essere ricostituite con la stessa velocità con cui vengono consumate: per la loro rigenerazione sono richiesti periodi lunghissimi. Basti pensare, per esempio, ai tempi richiesti per la formazione dei giacimenti di carbone e di petrolio.

    Le riserve di tali risorse, cioè le quantità presenti in giacimenti sfruttabili con le tecnologie di cui oggi disponiamo e in considerazione degli attuali livelli dei prezzi di vendita, non sono illimitate e, supponendo che i consumi proseguano ai livelli attuali, in molti casi più o meno noti potrebbero esaurirsi in tempi relativamente brevi.

    I dati delle riserve sono dinamici, ovvero possono diminuire durante lo sfruttamento del giacimento o diminuire la fattibilità tecnica dell’estrazione; oppure, più comunemente, possono continuare ad aumentare a mano a mano che vengono individuati depositi aggiuntivi, conosciuti o scoperti, o nel caso in cui i depositi attualmente sfruttati vengano esplorati più approfonditamente e nuove tecnologie o condizioni economiche migliorino la loro fattibilità economica.

    Le riserve possono essere considerate un inventario del minerale estraibile economicamente per le compagnie minerarie. L’entità di tale inventario è pertanto necessariamente limitata da molte considerazioni, tra cui il costo della coltivazione, le tasse, il prezzo del minerale estratto e la sua domanda. Per esempio nel 1970 si stimò che le risorse mondiali di rame identificate e non scoperte fossero 1,6 miliardi di tonnellate, con riserve di circa 280 Mt (milioni di tonnellate). Da allora, sono state prodotte quasi 560 Mt di rame in tutto il mondo, ma le riserve mondiali nel 2019 sono state stimate in 870 Mt, più del triplo di quelle del 1970, nonostante l’esaurimento causato dall’estrazione. Le future forniture di minerali proverranno da riserve e altre risorse identificate, risorse attualmente sconosciute, in depositi che verranno scoperti in futuro e da materiali che verranno riciclati dalle attuali scorte di minerali in uso, o dai minerali nei siti di smaltimento dei rifiuti. I depositi non scoperti di minerali costituiscono una considerazione importante nella valutazione delle forniture future.

    La pianificazione a lungo termine deve essere basata sulla probabilità di scoprire nuovi depositi, sullo sviluppo di processi di estrazione economicamente sostenibili per depositi attualmente impraticabili, e sulla conoscenza di quali risorse siano immediatamente disponibili.

    Le risorse devono pertanto essere continuamente rivalutate alla luce delle conoscenze geologiche che si vanno progressivamente acquisendo, del progresso tecnologico e dei cambiamenti nelle condizioni economiche e politiche.

    Alla luce di queste esigenze di pianificazione le risorse conosciute dovrebbero essere classificate da due punti di vista: il primo puramente geologico o per le caratteristiche fisico-chimiche, come tenore,[3] qualità, tonnellaggio, spessore e profondità del materiale in posto; ed il secondo basato sull’analisi della redditività relativamente ai costi di estrazione e commercializzazione del materiale in una data economia e in un determinato momento. Il primo costituisce un’importante informazione scientifica obiettiva della risorsa e una base relativamente invariata su cui fondare il secondo, che definisce l’effettiva disponibilità del minerale in posto.

    L’ossimoro della miniera sostenibile

    Il termine minerale viene spesso utilizzato per definire vari materiali naturali estratti dalla crosta geologica della Terra. Tuttavia, per questioni di sostenibilità, dobbiamo differenziare i minerali metallici da quelli non metallici, perché l’agognata rinnovabilità per i nostri scopi operativi sarà definita dal livello di entropia che l’uso dei minerali andrà a generare. La questione della rinnovabilità dal punto di vista chimico è semplicemente quella di spendere una quantità accettabile di energia per riportare il materiale da un livello di entropia più elevato a uno tale da consentirne il riutilizzo o il riciclo.

    Il principale criterio per valutare la sostenibilità di un materiale è l’energia necessaria per contrastare l’entropia generata dal suo utilizzo. Operativamente i minerali metallici vengono utilizzati restando nei livelli di entropia più bassi, ed è questo il motivo per cui di solito siamo in grado di riciclarli, mentre con minerali come il carbone l’uso stesso converte il materiale in un livello di entropia così elevato (sotto forma di anidride carbonica) che è essenzialmente non rinnovabile.

    Se siamo in grado di progettare prodotti in grado di recuperare minerali in una forma utilizzabile con un dispendio energetico relativamente basso e un impatto ambientale ripristinabile, ad esempio utilizzando per il riciclo energia proveniente da fonti rinnovabili, l’utilizzo dei minerali può ritenersi con buona approssimazione sostenibile. Dal punto di vista economico, il processo di estrazione di una risorsa limitata dalla crosta terrestre può condurre ancora a uno sviluppo sostenibile solo fintanto che il capitale generato viene investito nella costruzione di un’economia diversificata. Questo aspetto, indice di una scarsa sostenibilità, si applica anche alle economie di estrazione di combustibili fossili, quando vengono ritenute non rinnovabili ma sostenibili.

    In effetti, alcuni paesi potrebbero utilizzare i profitti derivanti dalle attività minerarie delle proprie risorse naturali come catalizzatore per un percorso di sviluppo a più lungo termine.

    Piuttosto che un rifiuto semplicistico dei minerali come non sostenibili, gli ambientalisti devono essere disposti ad affrontare le sfumature chimiche, ecologiche ed economiche dell’estrazione dei materiali.

    Questo meccanismo di compensazione degli impatti ambientali e sociali, simile a quello della water neutrality,[4] esprime un concetto intuitivamente attraente perché fornisce una direzione generale o un obiettivo aspirazionale per le industrie minerarie e di trasformazione dei minerali verso cui tendere.

    Rendere water neutral un’attività mineraria significa ridurne l’impronta idrica (WF, water footprint), l’indicatore della quantità di acqua dolce utilizzata, compensando economicamente le esternalità negative attraverso investimenti in progetti che promuovano l’uso equo e sostenibile dell’acqua presso l’ambiente e le comunità coinvolte.

    Naturalmente si potrebbe scoprire che la definizione, oggi particolarmente utilizzata, di ‘miniera sostenibile’ si riveli in realtà come un ossimoro poiché la propagandata sostenibilità l’espone al rischio di un crescere dei costi economici che rendono insostenibile o non competitiva l’attività estrattiva dal punto di vista finanziario.

    Allo stato attuale delle cose per l’ambiente biofisico l’estrazione mineraria è però intrinsecamente insostenibile e distruttiva: i suoi contributi al benessere umano sono disomogenei e spesso sopraffatti dal danno sociale ed economico che inevitabilmente provoca. La coltivazione mineraria deve essere ridimensionata drasticamente, non espansa. E dove viene intrapresa deve essere eseguita con cura e coscienza.

    Esiste una teoria sovente proposta dall’industria mineraria secondo cui, sebbene insostenibile, la crescita del settore minerario può contribuire alla sostenibilità fornendo materie prime per società umane più pulite, più efficienti e più prospere, e generando ricchezza e occupazione che possono servire da ponte verso la sostenibilità.

    Questa teoria, tuttavia, dipende dal soddisfacimento di una serie di condizioni non realistiche, dato il contesto globale che vede un sistema economico orientato al profitto, in cui una contabilità imperfetta tratta i beni collettivi ed ecologici come esternalità, ovvero come un insieme di effetti esterni connessi all’attività produttiva, che possono essere positivi (per esempio una maggiore formazione dei lavoratori) oppure negativi (per esempio l’inquinamento), che appare condizionato dall’elusione fiscale e dal segreto finanziario, e in cui le governance sono spesso molto più deboli rispetto al potere delle società estrattive.

    Se per certi versi si può vedere che l’estrazione ha contribuito allo sviluppo, ciò ha sempre avuto un costo ecologico e umano considerevole. Più la pianificazione dell’estrazione per lo sviluppo è completa e ponderata, più è chiaro che tali obiettivi sono irraggiungibili.

    Il percorso verso la sostenibilità? Passa dal ridurre la domanda, riutilizzare i manufatti e riciclare i materiali. Occorre progettare ottimizzando la riciclabilità. E soprattutto dobbiamo integrare i costi reali di estrazione e trasformazione delle materie prime nel processo decisionale.

    La pianificazione dell’approvvigionamento di materie prime, particolarmente per quei metalli necessari per la futura diffusione di tecnologie a basse emissioni di carbonio, dovrebbe essere formalmente inclusa nella pianificazione climatica. I Contributi Nazionali Determinati (NDC, Nationally Determined Contributions), al centro dell’accordo di Parigi e del raggiungimento dei suoi obiettivi, incarnano gli sforzi di ciascun paese per ridurre le emissioni nazionali e per adattarsi agli impatti dei cambiamenti climatici; pertanto potrebbero includere i necessari impegni sull’approvvigionamento di minerali. Questo introdurrebbe anche i paradigmi necessari alla tutela degli abitanti di quelle zone del Pianeta particolarmente soggette alle attività minerarie e per la valutazione dell’impatto e sostenibilità dell’industria estrattiva nel reperimento delle materie prime necessarie, concorrendo a formare numericamente gli obbiettivi che vengono prefissati.

    Dobbiamo porre limiti rigorosi su dove e come vengono aperte nuove miniere, dobbiamo coltivare i depositi a un ritmo più lento per ridurre al minimo le perturbazioni ambientali e socioeconomiche e massimizzare i benefici. Dobbiamo essere in grado di identificare le aree ecologicamente e culturalmente sensibili come zone vietate.

    Le popolazioni indigene devono essere in grado di esercitare un consenso libero, preventivo e informato, e devono essere attori e non comparse di un processo decisionale partecipativo e democratico.

    Non dobbiamo costruire miniere che potrebbero richiedere cure perpetue, come avviene per far fronte alla contaminazione da metalli pesanti o radioattivi: acidità e presenza di contaminanti disciolti uccidono la maggior parte delle forme di vita acquatica, rendendo l’acqua inadatta al consumo umano e da parte di ogni essere vivente, e sterili i corpi idrici. E, una volta avviato, il processo di formazione degli acidi è estremamente difficile da arrestare.

    Dobbiamo riconoscere un valore reale alle nostre preziose risorse geologiche, lasciandole nel terreno e nella disponibilità per le generazioni future, fino a quando non saranno veramente necessarie: in una parola, estrarle con grande cura e rispetto.

    I metalli critici

    Sebbene il termine ‘materie prime critiche’ non abbia una definizione universale esso viene generalmente utilizzato per riferirsi a metalli e minerali che sono di grande importanza

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