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Una sottile vendetta
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E-book135 pagine1 ora

Una sottile vendetta

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Info su questo ebook

Il

protagonista è un uomo maturo, arrivista e spregiudicato. Due fatti,

apparentemente scollegati tra loro, quali Il ferimento del figlio

nell'attentato alla stazione di Bologna del due agosto del 1980 e

l'assunzione di una nuova domestica, faranno riemergere fantasmi del suo

passato e la sua vita, attraverso una sottile vendetta, verrà

lentamente, ma inesorabilmente stravolta. Troverà la luce alla fine del

buio tunnel che sarà costretto a percorrere?
LinguaItaliano
Data di uscita4 feb 2021
ISBN9791220316507
Una sottile vendetta

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    Anteprima del libro

    Una sottile vendetta - Claudio Todesco

    info@youcanprint.it

    1

    Il treno rapido, proveniente da Roma, iniziò a rallentare dolcemente; era a pochi chilometri dalla stazione di Bologna Centrale. In uno scompartimento di prima classe Carlo era seduto vicino al finestrino e da quando era partito non aveva mosso neppure un muscolo. Il suo sguardo cadeva nel vuoto, sebbene i suoi occhi fissassero, con insistenza, un quadretto sulla parete opposta che riproduceva una veduta della città eterna. Questo suo strano atteggiamento, unito al suo abbigliamento, che definire di cattivo gusto era un eufemismo, avevano attirato l’attenzione degli altri passeggeri dello scompartimento. In particolare quella di due signore diversamente giovani, che imbellettate e ingioiellate come la Madonna di Loreto, lo guardavano insistentemente con finta discrezione, per lanciarsi, poi, occhiate che esprimevano, contemporaneamente, stupore e ilarità.

    Giovanna, invece, questo era il nome della donna seduta di fronte a Carlo, non faceva mistero nel fissarlo incalzante con un’espressione di sfida, mentre sfogliava svogliatamente una rivista. Pareva volesse succhiargli dalla mente, come se avesse una cannuccia tra le labbra, ogni suo più intimo intendimento.

    Nella testa del pover’uomo i ricordi di frammenti della sua vita si sovrapponevano, scomposti, alla velocità della luce ed erano in stridente contrasto con l’immobilismo del suo corpo. Una forte angoscia, provocata da atroci incubi, lo attanagliava e lo faceva terribilmente soffrire.

    A tutti i presenti nello scompartimento fu presto chiaro che Carlo e Giovanna viaggiassero insieme e che i loro rapporti fossero tutt’altro che distesi.

    Il treno rallentò maggiormente ed entrò nella stazione a passo d’uomo percorrendo il primo binario, poi si fermò definitivamente.

    Dal finestrino si vedeva di fronte, a pochi metri, un grande squarcio nel muro, testimone del grave attentato terroristico del due agosto 1980 che aveva provocato una moltitudine di vittime innocenti e lasciato una profonda ferita nelle coscienze.

    In quel preciso istante Carlo modificò quella sua condizione di immobilità e, come se fosse una statua di cera che prendeva il soffio della vita, mosse lentamente una mano infilandola in una cartella di pelle nera, che aveva tenuto sulle ginocchia per tutto il viaggio ed estrasse una pistola.

    Un colpo sordo rimbombò assordante e un copioso fiotto di sangue imbrattò il vetro del finestrino tingendolo completamente di rosso. Improvvisamente i dorati raggi di sole che lo attraversavano diventarono vermigli e, insieme alle urla di terrore dei passeggeri, in un battere di ciglia, lo scompartimento si trasformò in quello che l’immaginario collettivo cristiano definisce inferno.

    Poco meno di un anno prima, in una soleggiata mattina di fine luglio del 1980, Giovanna stava apparecchiando la tavola per la colazione. Era il suo primo giorno di servizio presso i Sereni, una ricca famiglia che viveva in una lussuosa villa dell’Olgiata a Roma.

    Amore mio, le disse Roberto, il maggiordomo della casa, mentre la osservava con attenzione, devi mettere le posate ben allineate, la signora Silvia è maniaca per queste cose. La donna sorrise, si avvicinò e lo baciò sulle labbra. Subito l’uomo si irrigidì come se fosse stato colpito da un’improvvisa paresi. Sul lavoro non possiamo permetterci intimità, le spiegò con tono gentile, ma fermo. Giovanna annuì con il capo e senza ribattere proseguì nel lavoro, ma pensò che il suo uomo fosse veramente troppo bacchettone. Sbirciando dalla finestra vide Lorenzo, il figlio dei Sereni, fermarsi improvvisamente mentre faceva footing nel parco della villa e lasciarsi poi cadere sull’erba del prato appena rasato. Ho l’impressione che quel ragazzo non stia bene, disse, come se stesse pensando ad alta voce.

    E’ solo stress dovuto agli esami di maturità che ha appena sostenuto, la rassicurò Roberto.

    In quel preciso istante fece capolino nella sala la padrona di casa, la signora Silvia Sereni. Era una donna non troppo bella, sulla cinquantina, emotivamente molto fragile che mimetizzava la sua debolezza facendo leva sulla sua immensa ricchezza. Apparteneva alla famiglia Maliberti proprietaria, da molte generazioni, di un importante calzaturificio che esportava in tutto il mondo. Aveva sposato Carlo Sereni, un dipendente dell’azienda, di qualche anno più giovane. L’uomo era tanto affascinante e bello quanto arrivista e di umili origini. Aveva trascorso la sua infanzia e giovinezza al Prenestino, un quartiere popolare della città, con un chiodo fisso in testa: sfondare nella vita a tutti i costi e con ogni mezzo. La sua carta vincente fu quella di fare cadere tra le sue braccia Silvia che sposò sinceramente innamorato del suo conto in banca. Entrò così in quel mondo dorato che da sempre aveva tanto bramato. Anche per lui, però, non fu tutto oro ciò che luccicava. Sua moglie, pur avendolo voluto con tutte le sue forze e anche contro la volontà della famiglia, lo soffocava con la sua gelosia che rasentava il patologico. Lo amava sì, ma non perdeva occasione per ricordargli che in caso di tradimento l’avrebbe lasciato in braghe di tela, esattamente come l’aveva trovato. Questa prospettiva ossessionava Carlo che aborriva la povertà e amava la bella vita, ma, pur cosciente dei rischi che correva, non resisteva al fascino delle belle donne, insomma voleva la botte piena e la moglie ubriaca. La sola cosa che accumunava i due coniugi era l’amore incondizionato per Lorenzo, il loro unico figlio che avevano avuto con grande difficoltà dopo una gravidanza a forte rischio.

    Silvia fece un giro completo intorno al tavolo osservandolo con una meticolosità quasi maniacale, come fosse un caporale quando passa in rivista le reclute prima della libera uscita. Raddrizzò una forchettina che era leggermente inclinata, poi si allontanò per dare un’ultima occhiata di insieme e assicurarsi che tutto fosse veramente in perfetto ordine. Bene, disse, rivolgendosi a Giovanna accennando ad un sorriso di approvazione. Il suo sguardo passò, poi, in rapida successione, dal grosso pendolo in stile barocco, che segnava le otto e cinquantanove minuti, alla porta del salone e, lì, rimase fisso in attesa. I nove rintocchi non erano ancora terminati, quando Lorenzo e Carlo entrarono nel salone, uno appresso all’altro, e si sedettero a tavola con Silvia.

    I tre iniziarono a mangiare senza dire una parola, pareva facessero il gioco del silenzio e fu la donna a perdere la partita. Come vi avevo preannunciato, domani Lorenzo ed io partiremo per la villa di Riccione, esordì, terminati gli esami mi pare inutile rimanere qui a soffrire il caldo opprimente di Roma.

    Sul viso del ragazzo apparve subito un’espressione irritata. Sai bene che non posso, giovedì ho la cena di classe, replicò.

    La madre, seppur dispiaciuta non insistette e si rassegnò all’idea di fare il viaggio da sola. Per il padre, invece, la notizia rappresentava un possibile intralcio al suo piano di passare un fine settimana completamente solo. Potresti partire con il treno sabato, gli propose allora, per tentare di sistemare la situazione. Il ragazzo arrossì e mostrando un certo imbarazzo rispose che aveva un impegno con Giada, una sua compagna di scuola.

    Carlo stentò non poco a nascondere il suo disappunto vedendo il suo progetto svanire, definitivamente, come nebbia al sole.

    Bene, Giada è una ragazza di ottima famiglia. Suo padre l’avvocato Bellìa è un principe del Foro, esultò Silvia andando ad abbracciare il figlio che rimase sorpreso dall’eccessivo entusiasmo della madre di cui non ne comprendeva assolutamente la ragione.

    Guarda che non deve mica sposarla, si lasciò scappare Carlo con tono ironico, sebbene fosse cosciente che mettersi contro sua moglie non fosse mai conveniente.

    Che sciocco che sei. Lo so bene. Semplicemente sono felice per Lorenzo, replicò lei senza, stranamente, far polemica.

    Carlo, approfittando della tranquilla reazione della moglie, disse che anche lui era felice, ma doveva andare in azienda dove gravosi impegni lo attendevano. Sfiorò con le labbra quelle di Silvia in una sorta di surrogato di bacio, abbracciò Lorenzo e si congedò.

    Poco dopo anche madre e figlio lasciarono la sala da pranzo.

    Giovanna, che come una bella statuina aveva avuto modo di osservare il bel quadretto famigliare, lanciò immediatamente un’eloquente occhiata a Roberto. L’espressione del suo viso, come un libro aperto, riprodusse esattamente il pensiero che in quel momento occupava la sua mente. Altrettanto velocemente l’uomo la fulminò con lo sguardo. Il messaggio era inequivocabile: Non si fanno commenti sui padroni di casa.

    2

    Carlo alla guida della sua Porsche 911 sc nuova fiammante si fermò di fronte ai cancelli del Calzaturificio Malimberti. L’addetto alla portineria gli aprì con celerità e lo salutò ossequiosamente, ma, come se fosse stato l’uomo invisibile, non ottenne cenno di risposta. L’auto entrò sgommando nell’ampio piazzale di fronte allo stabilimento che, a quell’ora, era già pieno di macchine e si diresse verso la palazzina uffici, fermandosi a ridosso del portone d’entrata quasi volesse infilarsi all’interno dello stabile. Carlo scese, prese la valigetta di pelle nera ed entrò.

    Come sempre il suo abbigliamento era curatissimo e alla moda: indossava un completo gessato scuro, una camicia azzurrina con il collo bianco e una cravatta arancione tendente al marrone con un nodo alquanto vistoso, mentre i calzoni erano sorretti dalle immancabili bretelle. Era, insomma, un vero yuppie che, nonostante i suoi cinquant’anni, si presentava ancora molto bene grazie al suo fisico asciutto e muscoloso. Le piccole rughe che segnavano il suo bel viso incorniciato da una folta capigliatura sale e pepe e i suoi occhi azzurro cenere lo rendevano un uomo veramente affascinante.

    Carlo era cosciente del fascino che emanava e, ogni qual volta che si poneva al centro dell’attenzione, il suo ego diventava smisurato, facendogli provare un piacere quasi perverso. Questa sollazzante sensazione la cercava ogni mattina quando, per recarsi nel suo studio, attraversava gli uffici come se facesse una passerella e godeva nel sentire gli occhi delle impiegate puntati su di lui. Per contro, come ogni uomo di quello stampo, si irritava quando una donna non lo considerava a sufficienza e per questo, senza rendersene conto, cadde, come un babbeo, nella rete che la scaltra e bella Deborah gli aveva teso. Era questa un’impiegata della ditta sulla trentina, bionda, con un fisico che ricordava le dolci

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