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Fiori d’acciaio
Fiori d’acciaio
Fiori d’acciaio
E-book207 pagine2 ore

Fiori d’acciaio

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Info su questo ebook

Diana è un’adolescente che vive a Roma. Si è appena iscritta al primo anno di liceo e la sua vita sembra scorrere normalmente. Esce con le amiche, studia e dedica del tempo alla sorellina più piccola. I suoi genitori sono divorziati. All’improvviso, però, qualcosa cambia e la normalità viene interrotta. Il terrore di essere obesa e di non essere accettata dagli altri spinge Diana a una dieta pericolosa che la risucchierà in breve tempo nel vortice dell’anoressia. Iniziano così le visite mediche e psichiatriche e una guerra, forse infinita, nella quale forte è la tentazione di arrendersi. Una guerra nella quale sarà sempre presente al suo fianco un’amica speciale.

Alice Gaglio è nata a Macerata nel 1997, si è laureata in Filosofia presso l’Università Alma Mater Studiorum di Bologna. Da sempre appassionata di narrativa, teatro e cinematografia, nel 2017 ha lavorato come aiuto articolista pubblicando recensioni di film per la testata giornalistica Domani Press News. Dal 2018 al 2020 ha frequentato corsi di drammaturgia, regia e recitazione con l’associazione culturale Sblocco5 di Bologna, dando il suo contributo nella stesura di copioni di saggi teatrali.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2020
ISBN9791220105583
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    Anteprima del libro

    Fiori d’acciaio - Alice Gaglio

    fiori-piatto.jpg

    Alice Gaglio

    Fiori d’acciaio

    © 2020 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-0396-1

    I edizione novembre 2020

    Finito di stampare nel mese di novembre 2020

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Fiori d’acciaio

    Prefazione

    Mi sono ammalata di anoressia all’età di undici anni e ho combattuto per quasi due anni questa pericolosa malattia che si sta diffondendo sempre maggiormente, lottando con le unghie e con i denti per aggrapparmi a qualcosa che mi facesse realizzare di essere ancora viva.

    Ho atteso molto tempo, forse troppo, prima di scrivere questo romanzo, sia per la mia ancora precoce esperienza da scrittrice, sia, in particolar modo, per la paura di tirare di nuovo fuori tutto, per il timore di scoprire di non aver ancora metabolizzato pienamente la malattia.

    Ma non ho mai smesso di avere intenzione di scrivere ciò che io e tanti altri come me hanno vissuto, perché a questa problematica, grave esattamente come molte altre trattate continuamente dai media e da ogni mezzo di diffusione di massa, non viene mai attribuita la giusta importanza. Si tratta di una lacerante dipendenza, di un’asfissiante malattia, la quale, nonostante abbia origine e sede nella mente, è degenerante come lo sono molte malattie fisiche.

    Queste sono le principali motivazioni che mi hanno spinta a pubblicare un romanzo tanto intimo e vicino al mio vissuto.

    Prologo

    "Ali bloccate, sono una cosa rotta.

    Ho una voce ma non riesco a cantare.

    Tu mi tieni giù.

    Adesso fatico a volare.

    Ci mangia vivi.

    Cerchiamo di farcela ma non voglio morire, no.

    Non voglio morire. Non voglio morire."

    Continuo a cantare con una voce sussurrata, praticamente inesistente, rotta dalle lacrime e dai singhiozzi che mi invadono da almeno due ore, o forse tre. La lametta è stretta tra le mie dita piene di tagli, poiché non riesco ad allentare la presa. Il sangue sgorga dalle lievi ferite superficiali, semplice pelle lacerata, come quella che molte volte ho visto sul mio corpo, fin da quando ero piccola e cadevo dalla bicicletta ferendomi. È una sensazione piacevole questo dolore innocente e sopportabile: mi fa capire di essere ancora viva, quindi va bene. Voglio sentirlo. Finché sentirò, allora andrà bene.

    Arriva un singhiozzo più forte degli altri, insieme ad un verso rotto più acuto. Vorrei urlare, ma piangere fino a che il mio corpo non è sfinito e le lacrime non finiscono è ugualmente e immensamente piacevole.

    Come sono arrivata a questo punto? mi chiedo osservando i miei piedi candidi e nudi, contaminati solamente dallo smalto prugna sopra le unghie, che si muovono in preda a piccoli spasmi, sopra la superficie altrettanto bianca della vasca vuota e fredda.

    Nel mentre, Sia continua a cantare la sua Bird set free a ripetizione, come io ho impostato sul mio lettore musicale, finché non mi stancherò di ascoltare e di cantare con lei le strofe e il ritornello che tanto amo e odio.

    Fa male la superficie dura sotto le ossa piegate del mio fondoschiena. Fa male il freddo pungente che sento, nonostante sia estate. Fa male la mia codardia e la mia incapacità di porre fine a tutto questo.

    "Tu mi tieni giù.

    Adesso fatico a volare."

    Stringo ancora più forte la lametta tra le dita e riprovo, di nuovo, per la decima o la ventesima volta, a spingerla a fondo sulla pelle sottile del mio polso, solcata da tante piccole vene colorate. Forse questa è la volta buona continuo a ripetermi mentre applico una non tanto leggera pressione in più del solito. Poi, però, arriva quella parte della canzone.

    I don’t wanna die, I don’t wanna die…

    Allora tutto si ferma. Tutto svanisce e perde senso. La lametta cade sul fondo latteo della vasca e le mie dita, sporche del sangue, che ancora sgorga dai polpastrelli, stringono forte il mio polso ancora immacolato e inviolato, come se volessero stritolarlo.

    Urlo. Urlo al soffitto. Urlo al cielo anche se non lo vedo.

    Perché non ci riesco? Cosa mi ferma? Cosa mi trattiene ancora? Cosa mi sta ancora tenendo stretta, irrimediabilmente legata alla vita? Perché il mio corpo non risponde ai comandi della mente? Perché è così difficile? Io riesco a fare tutto, ma questo… questo è la sola eccezione.

    Cosa direbbero gli altri?

    Chi piangerebbe la mia morte?

    Chi si ricorderebbe di me anche dopo decenni dalla mia scomparsa?

    Chi lotterebbe per difendermi?

    Cosa sentirei dopo?

    Cosa proverei?

    Dove andrei senza più un corpo e, forse, neanche un’anima?

    Come potrei riuscire a raggiungere tutti gli obiettivi che mi sono prefissata e a realizzare tutti i miei desideri e sogni nel cassetto?

    Andrebbe bene rinunciare a tutto questo?

    Andrebbe bene farmi soffrire ancor di più di quanto ho fatto fino ad ora solo perché sono così debole?

    Oppure sono debole proprio perché non sono capace di porre fine alle mie pene?

    Perché devo rifiutare me stessa se tutto ciò che sono mi sta dicendo di non farlo, implorandomi pietà e facendomi capire in ogni modo possibile e immaginabile che è troppo presto?

    Tutta la mia vita scorre a rallentatore davanti ai miei occhi.

    È davvero questo quello che voglio?

    Poi comincio ad accarezzarmi i capelli lunghi, ridendo e piangendo mentre li guardo. Mi mancano già.

    Successivamente, passo a sfiorare le gambe bianche e ossute. Le mie gambe. Così comincio ad abbracciami da sola, cercando di inglobarmi tutta quanta e non trovando difficoltà in ciò, dato che c’è quasi solamente la pelle a coprire le mie ossa oramai. Indosso solo la mia felpa viola, calda, morbida e di almeno quattro taglie più grande, per coprirmi dal freddo che non viene da fuori, per coprirmi dagli occhi, anche se non c’è nessuno a guardarmi.

    Mi mancherebbe tutto di me.

    Forse non sarei più cosciente di nulla dopo, forse non esisterei più. Ma mi mancherei comunque.

    "Cerchiamo di farcela ma non voglio morire, no.

    Non voglio morire. Non voglio morire…"

    Capitolo 1 - Anime di cristallo in una bolla di sapone

    Correvo, correvo più veloce che potessi verso il mare e verso il rosso del tramonto dinnanzi a me. Era tutto perfetto. La mia bolla non era ancora scoppiata.

    «Sammie, sei lenta!!» le urlavo sorridendo e continuando a correre verso le onde della riva che si schiantavano contro di me.

    «Appena arrivo ti affogo!» rispose lei cercando di raggiungermi e di non precipitare a terra a causa delle onde.

    Samantha era la mia amica da sempre. Una di quelle amiche che, da bambina, rimane a tenerti la mano stretta alla sua quando piangi a squarciagola perché ti stanno medicando la sbucciatura sul ginocchio; mentre, quando sei più grande, rinuncia ad andare ad una festa per restare a casa con te a tenerti i capelli nel momento in cui vomiti tutto ciò che hai mangiato, perché è quello che preferisci fare piuttosto che andare a divertirti con i tuoi amici.

    I lunghi capelli bagnati mi andavano davanti al viso, scompigliati dal vento impetuoso che sapeva di mare e di libertà.

    «Bambine, non allontanatevi troppo!» la voce di mia madre risuonava come un’eco lontana dalla spiaggia che sembrava distante chilometri da noi.

    Mi fermai e aprii le braccia rivolgendo gli occhi al cielo, ascoltando il vento, le onde e il vociare di Samantha. Era tutto esattamente come doveva essere. Improvvisamente caddi in acqua, spinta dalla mia migliore amica che affondò con me.

    «Sei una…! Potevi almeno avvertirmi che stavi per saltarmi addosso!» esclamai cercando di rialzarmi in piedi.

    «Te lo avevo detto che ti avrei affogata! Ti ricordo che non sono ancora riuscita nell’intento!» mi disse sorridendo furba e piombandomi nuovamente addosso, facendomi cadere seduta sul letto d’acqua. Cominciò a prendere quanta più acqua possibile con le mani e a buttarmela sul viso.

    «Non mi arrendo!» le dissi liberandomi dalla sua presa e rialzandomi.

    Iniziammo a schizzarci a vicenda, tenendoci a debita distanza l’una dall’altra per non rischiare di ricadere prigioniere della nostra avversaria. Ad un tratto, Samantha mi schizzò talmente tanta acqua dritta negli occhi, da riuscire a non farmi accorgere dell’onda più alta delle altre che stava per colpirmi. Questa mi avvolse facendomi fare qualche capriola all’indietro e bere un po’ di quell’acqua calda e salata. Quando mi rialzai in piedi, ancora frastornata e con gli occhi che mi bruciavano come se immersi nelle fiamme, udii una risata limpida e contagiosa in lontananza. Quella stessa risata che tanto amavo udire ogni volta che ero con lei. Aprii gli occhi a fatica rendendomi conto che Samantha era piegata in due dal ridere, poiché l’onda aveva trascinato la parte superiore del mio costume blu chissà dove. Le mie mani scattarono a coprirmi il petto e la mia faccia divenne della tonalità di un pomodoro, mentre mi guardavo intorno spaurita sperando che non ci fosse nessun altro oltre noi.

    «Smettila di ridere e aiutami a cercare il costume!» la rimproverai avvicinandomi e continuando a guardarmi intorno sospettosa.

    «Oh, rilassati! Tanto ci siamo solo noi qui!»

    «Non puoi esserne certa! Parli così perché tu hai ancora un pezzo di stoffa a coprirtele!»

    «Eccolo!» esclamò trovando il pezzo superiore del mio costume galleggiante accanto a lei e afferrandolo vittoriosa.

    «Bene! Ora dammelo, Sam.»

    «Perché dovrei se posso contrattare? Vediamo…» disse riflettendoci su mentre lo faceva sventolare.

    «Puoi decidere: o ti inchinerai a me chiamandomi mia signora fino a quando non torneremo a casa, oppure mi lascerai tutta la tua collezione di cd per un mese!»

    «Scordatelo!» le dissi spingendola e rubandole dalla mano il mio costume. Andammo avanti in quel modo per un’ora o forse più. Non lo ricordo neanche. Il tempo volava e restava immobile in quei momenti di libertà, dentro la bolla. Giocammo, facemmo la lotta tra le onde nella riva, ridemmo fino a farci dolere la pancia, ci rincorremmo e urlammo come se fossimo presenti solo noi al mondo. Due bambine che stanno diventando adulte. Due giovani donne ancora piccole e ingenue, piene di vita e di luce con la quale invadere tutto ciò che le circonda, ancora ignare dell’inferno che le attenderà una volta giunte sulla soglia che permette di addentrarsi nell’angusta strada verso l’età adulta. Non sapevamo come sarebbe potuto essere diventare grandi. Era un mondo affascinante e sconosciuto per noi, quello dei grandi. Avevamo dodici anni, il nostro corpo aveva cominciato a farci capire che ci stavamo avvicinando e che, da quel momento in poi, avremmo potuto scorgere quella strada da più vicino. Avremmo potuto correre verso quella direzione o aspettare che il tempo facesse il suo corso. In ogni caso, ora avevamo qualcosa da nascondere sotto il costume, ed era meraviglioso sentirsi così diverse, ma così uguali a come eravamo sempre state, al contempo.

    Questa era la nostra bolla ancora intatta, anche se per poco. Quello era solo il preludio, l’ultimo indelebile istante di idillio incontaminato e perfetto: due creature ancora troppo piccole per essere chiamate donne e già troppo grandi per essere chiamate bambine, due anime libere che assaporano l’ultima goccia di immortalità rimasta sulle loro lingue.

    Capitolo 2 - Come tutto ebbe inizio

    Stava piangendo da ore e ore.

    Non credevo fosse possibile riuscire a piangere per così tanto tempo, a quell’età. Scesi dal divano nel quale ero sdraiata e intenta a finire di guardare un film per grandi, infilai le ciabattine a forma di muso di gatto e mi diressi velocemente verso la camera di mia madre. Udivo degli urli e il rumore di oggetti che si rompevano, come dei vasi. Rimasi nascosta dietro la porta, impaurita e incerta se entrare e controllare che i miei genitori stessero bene o attendere che i rumori svanissero.

    «Sono stanco del tuo continuo piangerti addosso!! Reagisci, diamine!!» urlava la voce potente di mio padre.

    «È tutta colpa tua!! Solo tua!!» gli gridava mia madre.

    Dopo qualche minuto in cui udii tutti i loro insulti, mio padre spalancò la porta della camera e uscì, facendomi letteralmente saltare sul posto per lo spavento. Non appena si accorse della mia presenza, temetti di essere punita e abbassai lo sguardo colpevole. Ma lui si accovacciò per essere alla mia altezza, nascose quel suo sguardo cattivo e ne assunse uno preoccupato, quasi allarmato. «Diana, tesoro, da quanto tempo sei qua fuori?

    «Da poco…» sussurrai alzando lievemente lo sguardo.

    «Va tutto bene, Diana. Ora torna a vedere i cartoni in tv» mi disse accarezzandomi la testa e sorridendomi dolcemente.

    «Papà, che è successo alla mamma…? Perché piange? Avete litigato?»

    «La mamma piange perché non si sente bene, piccola. È triste perché è malata. Quando guarirà non piangerà più. A volte, quando si è grandi si litiga, poi però si risolve tutto. Quando due persone si vogliono bene fanno sempre la pace.»

    Non era vero. Era una menzogna. Quante bugie ci vengono dette quando siamo piccoli?

    La mamma piange perché non si sente bene. Innumerevoli volte ho udito questa frase e ad ogni ripetizione della stessa, ci credevo, continuavo a credere che fosse colpa solo di una perenne e brutta influenza, di semplice e banale dolore fisico, perciò facevo tutto ciò che era in mio potere per farla stare meglio.

    È triste perché è malata. Quanto vorrei che mio padre avesse creduto davvero a quelle parole uscite dalla sua bocca. Se fosse andata così, ora sarebbe tutto diverso.

    «Posso curarla? Sono una brava infermiera, papà.»

    «L’infermiera di quattro anni più brava del mondo» disse lui sorridendo divertito, dandomi un bacio sulla fronte. «Ma è meglio che ora lasci la mamma un po’ da sola» aggiunse infine, alzandosi e uscendo di casa.

    Ma io non volevo lasciarla stare male. Era la mia mamma. Dovevo assolutamente alleviare quel dolore in qualche modo.

    A quel punto, entrai cautamente in camera e la trovai sdraiata sul letto matrimoniale, voltata dall’altra parte rispetto a me. Mi avvicinai senza fare rumore e appoggiai la mia manina sulla sua, che era a penzoloni oltre il bordo. La accarezzai delicatamente. «Mamma? Posso aiutarti, mamma?» le chiesi speranzosa.

    Ma non ricevetti alcuna risposta. A ciò, strinsi la sua mano

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