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La figlia silenziosa
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E-book370 pagine5 ore

La figlia silenziosa

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Info su questo ebook

Un grande thriller

Basta un attimo perché il mondo perfetto di Kat Cavanaugh vada in frantumi. Il vestito strappato, i bellissimi capelli biondi che ricadono lungo il viso pallido… E il cuore di una madre si spezza. Il dolore diventa persino più acuto quando la polizia classifica il caso di Grace come “suicidio”. Kat non è disposta a crederci. Neppure quando le viene mostrata la grafia della sua unica figlia sul biglietto inequivocabile che ha lasciato. E così comincia a frugare nella sua cameretta, rifiutando di accettare quell’ipotesi. Grace aveva dei segreti? Cercando tra le sue cose, Kat si rende conto di conoscere appena la giovane donna che Grace stava diventando. E, mentre prova a ricostruire ogni dettaglio della notte in cui è morta, deve accettare di fare i conti anche con il proprio passato oscuro. Ma più si avvicina alla verità, più è ossessionata da un interrogativo: avrebbe potuto proteggere meglio la sua bambina?

Autrice del bestseller Il bambino silenzioso
Uno dei thriller più venduti negli ultimi anni in Italia

Hanno scritto dei suoi libri:
«Una storia che fa presa sulle paure più ataviche delle donne: e cosa terrorizza una madre più della perdita del proprio figlio?»
Libero

«Autrice donna, protagonista femminile. In vetta alle classifiche la storia di una madre in lotta per recuperare suo figlio.»
Il Corriere della Sera

Sarah A. Denzil
Vive nello Yorkshire, dove si gode la campagna e il tempo imprevedibile. Sotto pseudonimo pubblica libri per ragazzi, ma ha una vera passione per i thriller e le storie di suspense. Il bambino silenzioso ha scalato le classifiche di vendita negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Australia e in Italia ed è stato l’ebook più scaricato dell’anno nel nostro Paese. La Newton Compton ha pubblicato anche April è scomparsa e La figlia silenziosa.
LinguaItaliano
Data di uscita8 gen 2020
ISBN9788822741257
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    Anteprima del libro

    La figlia silenziosa - Sarah A. Denzil

    Capitolo uno

    Una sola sensazione sovrasta tutte le altre. Un colore, in verità. Blu. Blu come lo smalto sfaldato sulle sue unghie. Blu come le sue labbra. Blu come l’alone della luce di questo ospedale, che tinge le lenzuola bianche.

    Un ciuffo di capelli biondi le è scivolato sul viso, lo scosto sistemandolo dietro l’orecchio. Mi aspetto quasi di vederla alzare gli occhi al cielo e dire: «Mammaaaa!», mentre sbuffa con un sorriso sbilenco. Ma per fare questo dovrebbe avere gli occhi aperti, e non è così.

    Non ho ancora versato una lacrima, e me ne stupisco. Forse l’odore d’ospedale mi annebbia i sensi, e scaccia il pianto con l’acre aroma di disinfettante. O forse è solo il medico legale che incombe educatamente sull’uscio della stanza, in attesa che riconosciamo il cadavere di nostra figlia. Aspetta di spuntare una casella e passare alla fase successiva. Ma dice che possiamo prenderci tutto il tempo che ci serve. Tutto quello che vogliamo. È così che fanno i genitori in lutto, no? Prendono tempo. Diventano delle spugne, assorbono tutto il dolore e poi lo rovesciano addosso agli altri. So già che è così che farà Charlie, mentre piange silenziosamente accanto a me.

    Ma io non riesco a trovare le lacrime. Mi concentro sulle dita di Grace, sullo smalto blu rovinato e sui graffi che le attraversano la pelle. Sulle unghie sporche. Quando è caduta nella cava era ancora viva e si è aggrappata al terriccio, cercando di risalire i gradini di pietra. Ha riportato una frattura scomposta alla tibia ed è morta dissanguata mentre cercava invano di abbrancare la terra con le dita. Il mignolo della mano sinistra non ha più l’unghia, non riesco a smettere di guardarlo. Mi fa arrabbiare. Sono così furiosa che nemmeno l’odore di disinfettante, l’aria di educata compassione del coroner o il ciuffo di capelli biondi e le labbra secche e morte di mia figlia riescono a placarmi. Provo una rabbia immane perché la mia bambina, la mia bellissima bambina diciassettenne, non dovrebbe starsene stesa senza vita sulla barella di un ospedale deserto. Dovrebbe essere cosciente, dovrebbe alzare gli occhi al cielo, arricciarsi i capelli, ignorarmi e continuare a fissare quel cellulare da cui non si stacca mai. È questo che dovrebbe fare mia figlia.

    «È lei». Charles ha la voce spezzata, si lascia sfuggire un gemito strozzato. Gli poso istintivamente una mano sul braccio, senza staccare gli occhi da quell’unghia mancante.

    «È vostra figlia? Grace?», chiede il medico legale.

    «Sì», rispondo mentre Charles cade a pezzi.

    Mi cerca, mi stringe, si aggrappa al colletto della mia camicia e mi affonda il viso nel collo. Le lacrime calde mi bagnano la pelle e il suo corpo si dimena e si scuote contro il mio. Perché non sono io quella distrutta dal dolore? Non dovrebbe essere la madre a disperarsi? A urlare e strapparsi i capelli? A battersi il petto e gemere? La verità è che sono troppo arrabbiata per provare dolore. L’agonia non è ancora iniziata, ma arriverà.

    Stringo mio marito mentre le luci intorno a noi vanno e vengono, saltano due volte. Lui mi affonda le dita nelle spalle, ma va bene: è un dolore fisico vero, su cui posso concentrarmi per ignorare la rabbia che mi monta dentro. Il medico legale prova a non fissarci, ma sono quasi certa che ci stia guardando con la coda dell’occhio, e temo di apparire troppo rigida, priva di emozioni, strana. Spesso non reagisco come fanno tutti, ma questo lo so. So chi sono.

    «Mi dispiace». Charles raddrizza la schiena, si sistema i capelli. Toglie gli occhiali e si asciuga le lacrime con un fazzolettino. Ma qualche secondo dopo nuove gocce di rugiada appaiono sulle ciglia grigio chiaro. Fa un passo indietro e abbassa lo sguardo su nostra figlia, costringendomi a imitarlo.

    È immobile. Senza vita. Provo a immaginare un’esistenza senza di lei, un’esistenza in cui non le preparerò più la colazione, in cui non mi sveglierà più nel bel mezzo di un pisolino esercitandosi con il violino, in cui non andrò a prenderla a scuola, in cui non mi beccherò risposte impertinenti quando le dirò di mettere via il telefono o le chiederò se ha un ragazzo. Per diciassette anni è stata il centro del mio universo. Ogni ora di ogni singolo giorno è stata in qualche modo legata a questa persona, che ho creato io, che è uscita dal mio corpo. E adesso, nel giro di qualche breve ora, il nostro legame è stato reciso, per sempre.

    Ecco. Arriva il dolore. E lo accolgo a braccia aperte.

    Ci hanno concesso tutto il tempo del mondo per riconoscere il corpo di Grace, ma non saprei dire quanto siamo rimasti in quella stanza. Charles le ha tenuto la mano per un po’. Verso la fine ho iniziato a camminare avanti e indietro, ripensando alla sua morte, a quanto sia giunta inaspettata. Non riuscivo a togliermi dalla testa l’unghia strappata. Per qualche motivo la gamba rotta è finita nel dimenticatoio. Forse per il lenzuolo che la copriva. Grace era davvero una femminuccia delicata: una volta è scoppiata a piangere perché si era scheggiata un’unghia dopo la manicure. E ora si era addirittura staccata… Quanto dolore deve aver provato.

    Ecco perché questa tragedia è ancora più ingiusta, ecco perché sono furiosa anziché triste. Grace ha sofferto fino all’ultimo istante. Ha sofferto più di quanto avrebbe dovuto una brava persona come lei. Una diciassettenne piena di talento, bellezza e cuore non dovrebbe essere strappata via dal mondo in questo modo. Dov’è la giustizia? Così è sbagliato.

    Ma poi mi torna in mente che la giustizia non esiste, non come vorremmo noi. L’universo non si piega ai nostri voleri, non raddrizza i torti che subiamo. L’universo ci è indifferente: siamo solo troppo arroganti per riconoscerlo.

    «Ora che succede?», chiedo.

    Seduti in una sala d’attesa, io e Charles parliamo con il poliziotto che sta indagando sull’improvvisa morte di Grace. L’agente Mullen mi sembra troppo giovane e inesperto per occuparsi di un caso come questo. Per scoprire perché la mia bambina è morta. Voglio assicurarmi che non venga tralasciato nulla – pretendo persone competenti, capaci di andare a fondo, di controllare ogni pista, di verificare ogni possibilità. Lui invece pare uno sbarbatello che si ubriaca ai party universitari. L’altro, il sergente Slater, sembra più grande e – speriamo – navigato. Ha il mento pronunciato e un’espressione indecifrabile. Immagino che sia il classico tipo che va dritto al nocciolo della questione. È lui che ha risposto alla chiamata quando Grace non è tornata a casa dopo scuola, ieri. Ha coordinato le ricerche che sono terminate con il ritrovamento del cadavere nella cava. Sono sicura che ricorderò sempre la voce calma con cui ci ha informati di aver trovato un corpo.

    Ora, mentre ci parla, mantiene la stessa compostezza. «L’autopsia ci spiegherà la causa del decesso, ma per ora non consideriamo sospetta la morte di vostra figlia».

    Raddrizzo di colpo la schiena. «No? È scomparsa diverse ore prima del decesso. Qualcuno potrebbe averla rapita e…». Le mie mani, posate sulle ginocchia, stringono le gambe. Le unghie affondano nella carne.

    «Lo so», risponde con gentilezza. «Ma mi rammarica informarvi che abbiamo trovato un bigliettino nella tasca di Grace. Crediamo che vostra figlia si sia suicidata».

    Mentre Charles ripete: «Suicidata?», io allungo una mano verso il detective, il palmo ben aperto.

    «Vorrei leggerlo». Tengo il braccio disteso, aspettando.

    Charles ricomincia a piangere, e il sergente Slater gli rivolge uno sguardo prima di concentrarsi di nuovo su di me. Annuisce. «Certamente. Ne ho una copia qui».

    Mi appunto mentalmente di richiedere l’originale una volta completata l’autopsia. Devo vederlo, toccarlo, per assicurarmi che sia reale.

    È l’agente Mullen che mi passa il foglietto di carta. Con ogni briciola di autocontrollo che mi rimane, riesco a non strapparglielo di mano. Se mia figlia si è veramente uccisa, devo averne la prova.

    Charles si appoggia alla mia spalla mentre spiego il bigliettino. Anche nella versione fotocopiata, riconosco la scrittura di Grace. Il modo in cui arriccia la coda delle lettere è impresso a fuoco nella mia memoria. I puntini sulle I tendono sempre lievemente a sinistra. Ogni parola si posa alla perfezione sulla riga del foglio, mantenendo la scrittura costantemente dritta. L’aiutavo io, quando stava imparando a scrivere.

    «Riconosce la grafia?», chiede il sergente Slater.

    «Sì, è di Grace», confermo.

    So che è stata lei a scrivere questa lettera, eppure non vedo mia figlia nelle curve e nei puntini perfetti. È un breve messaggio, privo di emozione, con una punta di disperazione che mi dà la nausea.

    Mamma e papà,

    mi dispiace tanto. Ma è diventato tutto troppo insostenibile. Non ce la faccio ad andare avanti.

    Grace

    Niente addio, nessuna dichiarazione d’affetto, nessuna spiegazione, niente che ci illumini sul perché abbia sentito l’improvviso bisogno di porre fine alla sua vita. Non c’è neanche una briciola della Grace che conoscevo io. Sembra un biglietto prestampato. Non so cosa mi aspettassi dalla lettera di una suicida, ma di sicuro non questo. Non sembra vero.

    Sono sotto shock, e magari il mio giudizio potrebbe essere alterato. Ho perso l’equilibrio. C’è un enorme buco nero dove prima alloggiava ciò che dava senso alla mia vita, e forse non posso fidarmi delle emozioni che mi circolano in corpo. Ma questo biglietto non è autentico per me. Tanto per cominciare, un’intera riga è stata cancellata. Le parole sotto sono completamente illeggibili. Che cosa diceva? Che cosa significa?

    La fotocopia non è in bianco e nero, e vedo che le parole sono state cancellate con una penna di colore diverso rispetto a quella con cui sono state scritte. Strano. Perché mai Grace avrebbe dovuto fare una cosa simile? Perché usare una penna diversa?

    «O Dio», geme Charles. «Non avevo idea che volesse suicidarsi. Aveva diciassette anni. Non è giusto. Kat?». Mi guarda come a chiedermi di mettere a posto le cose.

    «Avete notato qualche strano cambiamento nel comportamento di Grace negli ultimi giorni?», chiede l’agente Mullen.

    Scuoto la testa. «No. Grace non si sarebbe mai uccisa».

    «So che è difficile…», interviene il sergente Slater.

    «Non sembra neanche lei», insisto, battendo il dorso della mano sul biglietto fotocopiato. «Grace non si sarebbe mai uccisa. Aveva un mucchio di ragioni per cui vivere».

    «Potrebbe sembrare così, ma purtroppo gli adolescenti che si suicidano rappresentano una tragedia fin troppo frequente. I ragazzi sono sottoposti a un forte stress, tra la scuola e le relazioni interpersonali».

    «Questo lo so anch’io», sbotto. «Ma conoscevo mia figlia. Guardate qua. Perché avrebbe dovuto cancellare un’intera riga con una penna diversa?»

    «Potrebbero esserci svariate ragioni». Il sergente Slater parla lentamente, come se si stesse rivolgendo a una povera sciocca che non capisce bene la sua lingua. «Magari la penna iniziale ha esaurito l’inchiostro. Potrebbe aver scritto qualcosa di cui si è pentita, forse un commento che vi avrebbe ferito».

    «E allora perché non riscriverlo da capo?», domando. «Quando è morta?»

    «Non lo sapremo con certezza finché non verrà effettuata l’autopsia», risponde il sergente corrugando la fronte. «Ma crediamo intorno alla mezzanotte».

    «E allora cos’ha fatto per tutto il resto del tempo?», chiedo io. «Dov’è andata? Con chi era?»

    «La risposta breve è che non lo sappiamo», risponde Slater. «Ma considerate le prove: il biglietto, il luogo in cui è stato rinvenuto il cadavere… Sappiamo che la cava attira parecchi suicidi. Nulla mi spinge a credere che si tratti di un depistaggio». Fa una pausa e alza lentamente le mani, come a placare le obiezioni di una pazza. «Mi dispiace davvero per la vostra perdita, so che è difficile da accettare, signora Cavanaugh, ma ha visto con i suoi occhi il bigliettino d’addio».

    «Non significa che l’abbia scritto lei», rispondo imperterrita. «Quello che voglio dire è che magari qualcuno l’ha costretta a scrivere quelle cose. La Grace che conosco io non si sarebbe mai suicidata. Era felice».

    «Kat». Charles mi posa una mano sul ginocchio.

    «No, Charles, stammi a sentire. Non crederai mica a tutto questo, vero? A queste bugie?». Sollevo di scatto il bigliettino e glielo mostro con dita tremanti.

    La sua mano mi stringe la gamba. «Non voglio crederci. Ma quella è la scrittura di Grace. Era stressata a scuola, e sai che soffriva spesso di sbalzi d’umore».

    Scuoto la testa per lo sconcerto: non posso credere che mio marito si beva così facilmente questa storia. Poi mi rivolgo di nuovo al sergente Slater. «Avete controllato i video delle telecamere di sicurezza? C’è qualche testimone? C’era qualcuno con lei? E per tutto il tempo?».

    Il sergente si schiarisce la gola e continua a parlare con quel suo tono rassicurante. «Quando Grace è scomparsa, abbiamo fatto qualche domanda a scuola: nessuno l’ha vista andare via. E temo che non ci siano molte telecamere in una piccola cittadina come Ash Dale, ma controlleremo, questo è certo».

    Mi parlano come se fossi una bambina, e non lo sopporto. Non sopporto nessuno. Allontano la mano di Charles dal mio ginocchio e mi alzo in piedi, cominciando a camminare da un lato all’altro della stanza. La promessa del sergente è solo un contentino, ma pur sempre un inizio. Nessuno mi starà ad ascoltare adesso che ho appena identificato il corpo. Pensano che sia vittima delle emozioni, una madre distrutta che va confortata. Era mia figlia che mi teneva agganciata al mondo, era quella parte di me che mi permetteva di conservare un legame con gli altri. La verità è che non mi importa di nessuno tranne che di Grace, ed è sempre stato così. Il sergente Slater, l’agente Mullen, il medico legale così paziente e persino mio marito non sono che figure che orbitano intorno alla mia vita. Grace era l’unica di cui mi importava veramente, e ora non c’è più.

    Se il sergente Slater non vuole o non può scoprire cosa le è successo, lo farò io.

    Capitolo due

    Non fu un parto facile. Grace era in posizione podalica, con il cordone arrotolato intorno al collo. L’ostetrica sudava e si dimenava nel suo camice. Nella furia di tirare fuori la bambina, il cordone strattonato finì per rompersi. Persi un mucchio di sangue, e mentre i medici controllavano e ripulivano Grace entrai in stato confusionale. Alla violenta baraonda del parto seguì una trasfusione di sangue che mi tenne incatenata ai macchinari. Charles si posava la bambina sul petto, le accarezzava la testa con i polpastrelli e io, guardandolo con occhi stremati, non potevo non provare invidia per la facilità con cui riusciva a calmarla e per l’amore che mostrava nei confronti di quel minuscolo esserino che era cresciuto dentro al mio corpo e che mi aveva quasi uccisa cercando di venire fuori. Anch’io volevo stringerla tra le braccia, farle posare la testolina sul petto e guardarla addormentarsi serenamente. Volevo quel momento perfetto che, come tutti giuravano, sperimentava ogni madre.

    Nei giorni a seguire, una parte di me odiò quell’esserino per tutto il dolore che mi aveva causato. E, come se non bastasse, non passava neanche un secondo senza che Grace mi strillasse contro con il volto paonazzo. Non voleva attaccarsi al seno. E, nelle rare occasioni in cui lo faceva, sentivo delle fitte tremende in tutto il corpo. Non voleva mai dormire e io ero esausta, riuscivo a malapena a trascinarmi in bagno per qualche secondo di pura agonia. Si calmava solo in braccio a Charles, quando passeggiava su e giù per il corridoio. Non mi voleva. E la vocina paranoica nella mia testa diceva che si trattava di una questione personale, che lei riusciva a vedere tutti i miei difetti. Sapeva chi ero veramente e respingeva il mio affetto perché non meritavo il suo.

    Il rifiuto iniziale di Grace mi spinse a lottare di più per conquistarla. Dopo essermi ripresa dall’emorragia e aver riguadagnato un po’ di forze, iniziai a prenderla in braccio e lasciarla dormire sul mio petto. Le infilavo un dito nel pugnetto, permettendole di stringere quanto voleva. Quando piangeva le accarezzavo la nuca, sfiorandole i capelli soffici sulla fontanella. Mi affascinava il modo in cui sbadigliava mostrando la boccuccia rosa e cominciai a adorare anche tutti quei versetti strani che faceva. La guardavo mentre soffiava via le bolle che le spuntavano sulle labbra.

    Grazie a quel graduale cambiamento, mi ritrovai a innamorarmi perdutamente di mia figlia. E non perché era ciò che ci si aspettava da ogni madre, ma perché mi piaceva davvero averla vicino. Era una parte di me. La parte buona. Volevo tenerla al sicuro e, più di ogni altra cosa, volevo essere una persona migliore per lei.

    Ma per quanto ci abbia provato, non sono certa di esserlo diventata.

    Tornati in una casa ormai vuota dopo quella lunga e straziante identificazione, Charles va dritto in cucina e si versa un bicchiere di whisky. Georgie e Porgie, i nostri labrador neri perennemente contenti, si strusciano sulle mie gambe e mi leccano le mani prima di avvicinarsi a lui, forse percependo la sua angoscia. Sento distrattamente che uno dei due comincia a guaire. Non riesco a guardare.

    Una nube di gas tossico mi avvolge, assorbe ogni mia energia e mi separa da Charles, dai cani e dalla nostra bellissima casa, un gioiello di villa in stile vittoriano. Invece di andare a consolare mio marito, mi ritrovo a salire pesantemente le scale lanciando via la giacca e le scarpe. Le lascio a terra dove capita. I dipinti a olio tremano quando una décolleté colpisce il muro. I vecchi gradini di legno cigolano sotto il mio peso. La mano stringe la ringhiera così forte che le nocche sono bianche.

    La sua stanza è in fondo al piano. Ci sono sette camere nel corridoio della Farleigh Hall. A dirla tutta, Grace aveva l’intero primo piano per sé perché la nostra matrimoniale si trova al secondo, dove un tempo c’era la sala da ballo. Ora, mentre vado verso la sua camera, mi colpisce l’immensità del vuoto che abiterà questa casa, senza di lei. Bramavo Farleigh, desideravo vivere qui. La prima volta che ho visitato l’immensa proprietà sono ritornata nel mio minuscolo appartamento e ho iniziato a scrivere l’indirizzo immaginando di vivere lì: Kat Cavanaugh, Farleigh Hall, Ash Dale, Derbyshire. Niente numero civico. Nessun Interno 3B. Niente più termiti in cucina. Charles mi aveva fornito un biglietto di sola andata per scappare dalla povertà e io l’avevo afferrato al volo dalle sue dita tozze. Ma non mi sarei mai aspettata che potesse regalarmi un tesoro ben più prezioso dei soldi: Grace.

    E adesso, dopo aver tanto desiderato il lusso che Farleigh Hall poteva darmi, lascio scivolare le dita sui pannelli di mogano che coprono le pareti e non sento altro che la freddezza del legno. Questa casa non è che un guscio vuoto senza la sua voce, senza la musica proveniente dalla sua stanza. Chiudo gli occhi e sento ancora riecheggiare le note del violino. Il dolore mi risucchia come un tornado, minaccia di togliermi la terra sotto ai piedi.

    Raggiungo la sua camera, apro la porta e trattengo il fiato. Mi aspetto una rivoluzione totale. La stanza di Grace dovrebbe essere irriconoscibile: i resti di un’apocalisse, terra bruciata che non tornerà mai come prima. E invece non è cambiato nulla da quando è uscita per andare a scuola, ieri mattina. Il personale delle pulizie non viene da quando Grace è scomparsa, e qui tutto sa ancora di lei. I vestiti penzolano dall’ottomana ai piedi del letto. Le lenzuola stropicciate sono appallottolate come sempre. Il violino è nell’angolo, al suo posto. Mia figlia potrebbe spuntare da un momento all’altro dal bagno con un asciugamano in testa e una maschera di bellezza sulla faccia. Esito sull’uscio, con un sorriso stampato in faccia. La aspetto. Che proviamo oggi, Grace? Maschera rilassante al miele? Rinfrescante al cetriolo? Pedicure in centro?

    Ma lei non uscirà più dal bagno.

    Non riesco a togliermi dalla testa il colore blu.

    Mi stringo al petto le lenzuola appallottolate e respiro ciò che resta del suo profumo.

    È una cosa che va fatta, e devo farla da sola. C’è una persona che deve sapere di Grace. Charles si offre di accompagnarmi ma, quando con gli occhi gonfi mi trascino al piano di sotto, vedo che si regge a malapena in piedi. E poi non vado mai in macchina là. Di solito chiamo un taxi o prendo l’autobus. Oggi chiamo un taxi. Charles l’ha sempre ritenuto un piccolo segno di riguardo nei loro confronti, perché io sono cresciuta povera mentre lui è ricco di famiglia e non voglio sfoggiare il mio cambio di status. La verità è che non voglio che sappiano nulla di me. Se solo potessi, non tornerei mai più in quel posto. Ma la persona che devo vedere è cocciuta: ho faticato tanto per tirarci fuori da lì, ma lei non se ne vuole andare.

    Prima che arrivi il taxi, mi scolo un bel bicchiere di whisky e mi rintontisco la mente per poter affrontare il viaggio. Poi, quando Charles ricomincia a piangere, metto le scarpe, prendo la borsa e vado ad aspettare fuori. Non ne posso più di questo marito bisognoso di attenzioni e piagnucolone che mi ritrovo in casa. Non è giusto chiedermi conforto quando sono completamente svuotata e arida. Che consolazione potrei offrirgli? Che cosa è rimasto di me?

    Quando salgo a bordo dell’ibrida, dal sedile anteriore mi accoglie un bel fischio. «Che casetta che avete».

    «Già». Gli comunico l’indirizzo e l’autista lo digita sul navigatore satellitare. Il whisky mi brucia ancora nello stomaco e, ogni volta che chiudo gli occhi, rivedo le unghie scheggiate e i tagli sulle braccia di Grace.

    «Non guida, oggi?», mi chiede. «Se fossi in lei, porterei quella Jaguar a fare un giro. In un bel giorno di primavera come questo, poi! Con il tettuccio abbassato…». Scuote la testa come se fossi pazza a non crogiolarmi costantemente nella mia ricchezza.

    «No», rispondo. «Mia figlia è morta ieri».

    Lo vedo impallidire dallo specchietto retrovisore e appoggio la schiena al sedile. Ho delle flebili fitte alla testa e allo stomaco, inviano ondate di dolore a tutto il corpo. Bene. Datemi dolore. Chiudo gli occhi e rivedo Grace sulla barella. Se avessi bevuto un po’ più di whisky, magari sarei riuscita ad allontanare tutte queste immagini. Charles ha fatto la scelta migliore: piangere e ubriacarsi, tendendo le braccia come un bambino che vuole essere coccolato. Perché non l’ho fatto anch’io? Perché non sono crollata cercando conforto in tutti quelli che mi circondano?

    No, alla madre spettano solo obblighi. E dunque eccomi qui a fare quello che va fatto, cercando anche di farlo al meglio. E però devo essere onesta con me stessa e ammettere che non è affatto un atto di puro altruismo. Il motivo è un altro. So che mia figlia non si è tolta la vita e devo assicurarmi che non sia stato nessuno spettro del mio passato a farle del male. Ora sto per incontrare quelle persone. Voglio vedere la loro espressione quando dirò che Grace è morta. Magari scoprirò cosa è successo davvero.

    Capitolo tre

    Il taxi mi lascia in fondo alla strada, pago. Mentre chiudo la portiera, l’autista dice che gli dispiace per il mio lutto. Venire qui in genere significa abbandonare la mia vita da ricca, come un serpente si libera della sua vecchia pelle.

    Non indosso mai capi firmati e mi lego i capelli in una coda. Lei è l’unica che sa la verità e se ne vergogna. Si vergogna di me. Oggi, però, non perdo tempo con il solito rituale e mi presento con gli stessi vestiti che avevo stamattina, gli indumenti costosi che indosso ogni giorno: un cardigan di cashmere, un paio di Louboutin e una borsa di pelle firmata Mulberry. In genere evito i capi griffati, è il modo peggiore per approcciarmi a lei. Ma non posso fare niente ormai. Un brivido mi attraversa la schiena e quasi penso di girare i tacchi e richiamare il taxi.

    «Katie, sei tu?».

    Una voce familiare mi chiama dal giardino di una minuscola casa a schiera. Una donna zoppica verso di me al ritmo frusciante delle cosce che sfregano avvolte nei leggings di poliestere. Si appoggia alla staccionata.

    «Ma guardati. Manco ti riconoscevo. Oh, ma che borsa, adoro», dice facendo vibrare la carne rosa sotto il mento.

    «Salve, signora Nash. È falsa».

    «Stai andando a trovare Susan?», chiede.

    «Sì», rispondo provando a proseguire.

    «Brava. Abbracciala da parte mia, okay?».

    Sistemo un ciuffo di capelli biondo cenere dietro un orecchio e annuisco. Tutti in questa zona amano Susan, come la chiama la signora Nash (io di solito utilizzo un altro epiteto), e non mi sorprende affatto: mia madre ha regalato una gran quantità di soldi alla comunità. Li hanno divisi fra tutti. E bravi i residenti di Old Barrow. I soldi erano di Charles, ovviamente, e servivano per aiutarla ad andarsene, ma lei ha preferito dire ai suoi amici di aver vinto una bella sommetta alla lotteria. Poi ha spartito il bottino.

    Le mie scarpe ticchettano sul marciapiede. Percorro la strada alle spalle della fila di case, sbircio dentro attraverso i fili del bucato e i mobili da giardino in plastica. A ogni passo che faccio, il mio cuore batte più forte. Un orribile pensiero mi consuma: e se fosse questo il momento in cui perdo il controllo e mi decido a crollare? E se la morte di Grace non mi avesse ancora distrutto solo perché non l’ho mai detto a nessuno tranne che a un autista di passaggio?

    Un altro paio di passi, ed eccoci qua: la mia casa d’infanzia. Respiro a fondo per calmarmi, come sempre. Un appartamento di due piani e quattro stanze sarebbe dovuto bastare a una madre sola con la figlia. Ma Susan – mia madre – è un’accumulatrice. Non vengo qui molto spesso, e di certo non ci ho mai portato Grace. Quando voleva vederla, mi offrivo di pagarle un taxi fino a casa nostra, ma ha sempre preferito l’autobus. Non capitava di frequente, però. Mamma dimenticava spesso il compleanno di Grace – non si ricorda neanche il mio – e passava con noi il Natale solo ogni tanto, se non aveva altri impegni con il vicinato. Non che la cosa mi infastidisse, odiavo solo vedere l’espressione delusa di mia figlia perché la nonna non si era degnata di mandarle un biglietto d’auguri.

    Ho in mente il visetto triste di Grace il giorno del suo ottavo compleanno mentre busso alla porta. Mamma era venuta a trovarci poco prima, a Natale, e per una volta si erano divertite a giocare con le bambole. Mia madre ha sempre adorato le bambole. Ha una collezione in salotto, in mezzo alle altre cianfrusaglie. Se ne stanno tutte sedute dritte, con quei loro visi pallidi e gli occhi che mi seguono per la stanza. Così a febbraio, il giorno del suo compleanno, la mia povera e ingenua figlia ha pensato che alla nonna avrebbe fatto piacere stare con lei e l’ha invitata alla sua festa. Al telefono l’ho supplicata di venire, facendo leva su tutto il mio fascino – che su di lei, però, non ha alcun potere. Purtroppo per quel giorno aveva già promesso a Nadia Patel del civico 45 di guardarle il gatto. Ecco come funziona la vita con mia madre.

    «Che bussi? Non hai le chiavi?».

    L’aria puzzolente e stantia all’interno della casa mi avvolge non appena apre la porta. Mi stupisce quanto sembri invecchiata. Ha sempre sostenuto che la bellezza l’ho ereditata da mio padre, e credo che sia l’unica cosa vera che mi abbia detto in tutta la sua vita.

    «Le ho dimenticate».

    «Come le hai dimenticate?», mi riprende, scivolando di lato per farmi entrare.

    La seguo facendomi strada fra le pile di riviste, sforzandomi di ignorare il bidone della spazzatura strapieno. L’ultima cosa che vorrei fare è chiudere la porta e restare intrappolata in casa, ma devo. E l’ultimo posto in cui vorrei essere è questo: qui mangiavo un toast sul lavandino per colazione, sedevo sul divano accanto a mia madre a guardare qualche telenovela in totale silenzio e andavo a dormire quando era troppo ubriaca. Sono proprio gli ultimi ricordi che vorrei rispolverare, specialmente

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