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Il linguaggio delle emozioni: Cosa stanno cercando di dirti i tuoi sentimenti?
Il linguaggio delle emozioni: Cosa stanno cercando di dirti i tuoi sentimenti?
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E-book579 pagine6 ore

Il linguaggio delle emozioni: Cosa stanno cercando di dirti i tuoi sentimenti?

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Info su questo ebook

Una guida eccezionale per capire e gestire i segnali e i messaggi che le emozioni ti inviano.

Puoi fidarti delle tue emozioni. L’autrice di questo bestseller internazionale lo ha fatto e spiega, attraverso la sua esperienza professionale e personale, come puoi farlo anche tu.
Le emozioni contengono un’enorme quantità di energia. Ci comunicano qualcosa di importante che è necessario scoprire per conoscere meglio noi stessi, e gli altri.

In questo volume, Karla McLaren mostra con grande precisione “come” avvicinarci alle emozioni e capirle, per arrivare a un equilibrio personale fondamentale.

Questo libro cambierà per sempre il tuo modo di relazionarti agli altri e a te stesso.
  • Vuoi imparare a gestire le tue emozioni?
  • Vuoi scoprire come capire le emozioni degli altri?
  • Desideri migliorare la tua vita professionale?

Ora è possibile grazie alle tecniche e agli esercizi pratici sviluppati in oltre 35 anni di esperienza e presentati in questo libro.

Leggendolo, scopri come:
  • Bilanciare la connessione tra mente, corpo, spirito ed emozioni;
  • Evitare gli ostacoli principali verso la serenità emotiva;
  • Incrementare passo-passo le cinque abilità dell’empatia.
"Sei tu l’esperto delle tue esperienze personali: nessun libro, sistema, ideologia o persona dovrebbe mai avere l’opportunità di sostituire la tua saggezza. Se le idee e gli esercizi in questo libro hanno significato per te, usali, hai la mia benedizione. Se non ti dicono nulla per te, ignorali, hai la mia benedizione."

"Onora la tua individualità e la tua peculiare configurazione emotiva, opera cambiamenti al ritmo giusto per te (o non cambiare nulla) e affronta questo lavoro con la dovuta cautela e una profonda dedizione alla tua integrità." - Karla McLaren
LinguaItaliano
Data di uscita23 mar 2021
ISBN9788833621104
Il linguaggio delle emozioni: Cosa stanno cercando di dirti i tuoi sentimenti?

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    Anteprima del libro

    Il linguaggio delle emozioni - Karla Mclaren

    2009

    Parte 1

    Ritorno alla lingua nativa

    Oltre le sculture e le sinfonie,

    oltre le grandi opere e i capolavori

    è la maggior e miglior arte di creare

    una vita consapevole.

    Il genio appare ovunque,

    ma non è mai così magnifico

    come in una vita ben vissuta.

    01.

    Introduzione

    La creazione di una vita consapevole

    Come ti sentiresti se potessi stabilire confini personali saldi e allo stesso tempo coltivare rapporti sani e intimi con gli altri? Oppure se potessi avere, ventiquattr’ore su ventiquattro, una conoscenza intuitiva di te stesso e di ciò che hai intorno? Cosa potresti realizzare se avessi una bussola interna che ti riconduca infallibilmente sul tuo cammino più autentico e al tuo io più profondo? E se avessi libero accesso a una sorgente continua di energia, rinnovamento e sicurezza?

    Ciascuna di queste capacità vive ora in te, vive nelle tue emozioni. Grazie all’aiuto delle emozioni puoi diventare una persona consapevole e godere di immense risorse relazionali. Se impari a mettere a fuoco le emozioni e a collaborare in modo rispettoso con le sorprendenti informazioni contenute in ciascuno dei tuoi stati d’animo, puoi essere in stretto contatto con la fonte della tua intelligenza, puoi ascoltare la parte più profonda di te e puoi curare le tue ferite più gravi. Se impari a vedere le emozioni come strumenti di profonda consapevolezza, riuscirai a procedere nella vita come una persona completa ed efficiente. Queste sarebbero notizie meravigliose, se l’atteggiamento profondamente conflittuale della nostra cultura nei confronti delle emozioni non rendesse tali novità piuttosto difficili da accettare.

    L’attuale conoscenza delle emozioni è molto arretrata rispetto alla conoscenza di quasi tutti gli altri aspetti della vita. Possiamo mappare l’universo e scindere l’atomo ma a quanto pare non siamo in grado di capire e gestire le nostre naturali reazioni emotive in presenza di fattori scatenanti. Ci serviamo dell’alimentazione e dell’esercizio fisico per aumentare la nostra forza ma ignoriamo la fonte più ricca d’energia che abbiamo: le nostre emozioni. Siamo brillanti dal punto di vista intellettuale, abbiamo risorse fisiche, una spiritualità creativa, ma siamo sottosviluppati dal punto di vista emotivo. Si tratta di un vero spreco perché le emozioni contengono una vitalità indispensabile che può essere convogliata a vantaggio della conoscenza di sé, della consapevolezza nei rapporti e di una guarigione profonda. Sfortunatamente non le usiamo così. Al contrario le emozioni sono categorizzate, celebrate, denigrate, represse, manipolate, inascoltate, adorate e ignorate; solo raramente, per non dire mai, sono rispettate; solo raramente, per non dire mai, sono viste come vere e proprie forze guaritrici.

    Sono una persona empatica, ciò significa che posso riconoscere e capire le emozioni. Anche tu sei una persona empatica, tutti lo siamo, ma io sono consapevole di questa condizione e fin dalla prima infanzia ho iniziato a sentire le emozioni come entità distinte, ciascuna con la propria voce, carattere, scopo e uso. Le emozioni per me sono reali e inconfondibili come le forme e le sfumature di colore per un pittore.

    Le abilità empatiche non sono inusuali: sono presenti in ciascuna persona come normale caratteristica umana, costituiscono la nostra capacità di comunicazione non verbale. Attraverso l’empatia possiamo sentire il significato dietro le parole, decifrare la postura che le persone scelgono inconsapevolmente e capire lo stato emotivo degli altri. Oggi si ritiene che la capacità di empatizzare risieda in speciali cellule cerebrali dette specchio. I neuroni specchio furono inizialmente identificati nella corteccia premotoria dei macachi negli anni Novanta, ma furono presto scoperti anche negli umani; successivamente sono diventati un argomento di ricerca accattivante perché hanno aiutato gli scienziati a capire come le informazioni di socializzazione siano comuni nei primati¹.

    L’empatia ci rende sensibili e intuitivi ma è un’arma a doppio taglio. Le persone empatiche possono arrivare dritto al cuore di ogni questione (possono spesso sentire quello che gli altri si rifiutano di riconoscere) ma in una cultura che non riesce a capire cosa siano le emozioni, e tanto meno come viverle, essere molto empatici è un’abilità difficile da utilizzare. Le persone empatiche certamente sentono tutte le emozioni che ci circondano, ma è raro che siano consapevoli del potere di guarigione che vi risiede. È un peccato che sia così, perché sono la nostra sensibilità e flessibilità emotiva a permetterci di andare avanti, conoscere profondamente, connetterci a noi stessi, agli altri, alla nostra visione del futuro e al nostro scopo nella vita. A questo proposito, la ricerca condotta da Antonio Damasio (si veda il libro L’errore di Cartesio) ha dimostrato che quando i centri emotivi cerebrali sono disconnessi dai centri del pensiero razionale (per cause chirurgiche o per danni cerebrali), i pazienti sono incapaci di prendere decisioni e, in alcuni casi, di capire le persone. Le capacità verbali e la pura razionalità sono forse la ragione della nostra intelligenza ma sono le nostre emozioni e la nostra empatia a renderci esseri umani eccezionali, risoluti e capaci di compassione.

    Benché l’empatia sia una normale abilità umana, la maggior parte di noi impara a soffocarla o frenarla quando apprende il linguaggio verbale. Quasi tutti all’età di quattro o cinque anni hanno già imparato a nascondere, a reprimere o a mascherare le emozioni in presenza di altri. Capiamo molto velocemente che la maggioranza delle persone non è autentica con gli altri, mente circa i propri sentimenti, non dà voce a parole importanti e trascura con indifferenza chiari segnali emotivi. Imparare ad esprimersi a parole spesso significa apprendere a non dire verità e costruire la maggior parte dei rapporti sulla finzione piuttosto che su emozioni autentiche. Ogni cultura e sottocultura ha le sue proprie regole non dette circa le emozioni, ma tutte richiedono che alcune di esse siano mascherate, usate eccessivamente o ignorate. La maggior parte dei bambini (tutti empatici) alla fine impara a disattivare le proprie abilità empatiche in modo da farsi strada in società.

    All’età di tre anni ho vissuto un trauma grave che ha interferito con la capacità di bloccare le abilità empatiche; a quell’età fui oggetto di molestie ripetute e, insieme a una miriade di altri insulti perpetrati alla psiche, persi la transizione alla parola come principale mezzo di comunicazione. Mi separai dalla cultura umana per quanto mi fu possibile, di conseguenza non partecipai alla stessa formazione emotiva dei miei coetanei. Quelli di noi che non disattivano le proprie capacità empatiche rimangono sensibili (spesso dolorosamente) al sottofondo di emozioni in cui ci troviamo: questa è stata la mia esperienza.

    Il mio tentativo di comprensione delle emozioni è stato guidato e spronato da questa attitudine empatica. Durante il corso della vita ho cercato informazioni circa le emozioni come entità distinte e messaggeri precisi del mio istinto ma quello che ho scoperto è stato che le emozioni vengono ben poco rispettate. Molte delle nozioni che abbiamo ci spingono a bloccare il flusso naturale delle emozioni e classificarle in modo semplicistico (queste emozioni sono buone e quelle cattive), così da rispecchiare quella prima formazione infantile secondo cui le emozioni sono giuste, sbagliate, accettabili o inaccettabili. Cercai scrupolosamente ma non mi parve di trovare un approccio alle emozioni che le spiegasse con saggezza o in modo utile.

    Quando ero adolescente questa ricerca mi condusse verso la spiritualità, la metafisica e le terapie energetiche. In questi ambiti ho trovato alcuni strumenti utili per gestire la mia empatia ma ancora nessuna spiegazione funzionale delle emozioni. In molte credenze spirituali o metafisiche il corpo e le sue malattie, il mondo e le sue rivoluzioni, la mente e le sue opinioni, le emozioni e i loro acuti bisogni sono trattati come ostacoli da superare o come blocchi da trascendere. A prevalere è un triste rigetto della ricchezza insita in tutte le nostre facoltà e in tutti gli aspetti di noi stessi; inoltre, ho notato frammentazione anche nella maggior parte degli insegnamenti metafisici. Ho accettato tutto l’aiuto che questi insegnamenti mi potevano dare ma, in termini di emozioni, c’era poco che avrei potuto mettere in pratica.

    Per esempio, la rabbia salutare agisce come nobile sentinella o guardiano dei confini della psiche, ma per lo più le informazioni sulla rabbia si concentrano sull’espressione malata dell’ira e della furia o su quelle forme represse di rabbia che sono il risentimento, l’apatia e la depressione. La tristezza offre fluidità vivificante e rinnovamento, ma sono assai poche le persone che la accolgono, la maggior parte la tollera appena. Analogamente, la depressione non è una singola emozione ma una costellazione curiosamente ingegnosa di fattori che generano un segnale di stop nella psiche. Una paura salutare e adeguatamente orientata ci offre quella intuizione senza cui saremmo continuamente in pericolo, eppure questo è in piena contraddizione con le opinioni comuni che riguardano tale emozione.

    Vedo inoltre abbastanza chiaramente che la felicità e la gioia diventano pericolose quando pubblicizzate come emozioni da scegliere, come le uniche emozioni che dovremmo provare. Ho visto la vita di così tante persone collassare dopo che avevano rifiutato la protezione della rabbia, l’intuizione della paura, il rinnovamento della tristezza e la genialità della depressione per sentire solo gioia. In breve, nel corso della mia vita ho scoperto che quello che ci viene insegnato sulle emozioni non è solo impreciso ma spesso completamente sbagliato.

    Poiché non ho vissuto quel precoce e importante passaggio di disattivazione delle abilità empatiche preverbali per servirmi di abilità verbali come stratagemma per nascondere le emozioni, non ho potuto permettermi di ascoltare queste idee pericolose. Ero continuamente circondata da correnti di emozioni, pertanto sapevo che le credenze condivise sui sentimenti non avevano senso. Ho usato la rabbia per separarmi dai condizionamenti culturali che tutti riceviamo circa le emozioni, perché sapevo che non potevo sopravvivere o prosperare entro quei limiti. Sapevo che avrei dovuto trovare la mia strada; sapevo anche che, per indagare un argomento così fisico come quello delle emozioni, non sarebbe bastato studiarle semplicemente dal punto di vista intellettuale, storico o psicologico, sarebbe stata necessaria una ricerca corporea, che coinvolgesse cuore, mente, corpo e spirito. Sapevo che, se volevo sopravvivere come persona empatica nella nostra società quasi priva di empatia, sarei dovuta diventare un genio, ma non della matematica, della fisica o di qualsiasi altra disciplina solitamente associata alla parola genio, bensì un genio delle emozioni.

    Questo libro è il risultato di una vita di ricerche per trovare una conoscenza profonda e funzionale delle emozioni. Il suo contenuto informativo e le competenze offerte non provengono da una cultura o insegnamento specifici, ma derivano dal campo delle emozioni stesse. Ho certamente studiato qualsiasi cosa trovassi ma ho fatto anche una cosa inusuale: invece di forzare il mio linguaggio sulle emozioni, le ho ascoltate attentamente e ho intrapreso con loro un dialogo empatico.

    Questa forma di dialogo non è difficile, solo inusuale. Le abilità empatiche permettono di vedere il mondo intorno a noi animarsi di informazioni e di acquistare un senso; ci aiutano ad ascoltare il significato dietro le parole, a capire gli esseri viventi e la natura e a connetterci emotivamente alla realtà. Ascoltare un brano musicale e lasciare che ti racconti una storia è un dialogo empatico, sappiamo tutti come farlo; io lo faccio con cose inusuali come le emozioni.

    Dialogare con le emozioni non è un processo in cui si dia loro un nome come se fossero segnali stradali o le si tratti come fossero sintomo di malattia. Questo dialogo permette di tuffarsi nelle emozioni per capirle, primordiali come sono, nella loro profondità; aiuta a liberarsi dalla percezione di disabilità che è legata al provare emozioni e allo stesso tempo offre modi nuovi e significativi di vederle. In breve, se riesci a comunicare empaticamente con le tue emozioni come quegli eccezionali e precisi messaggeri che sono, avrai tutta l’energia e le informazioni di cui hai bisogno per creare una vita consapevole e piena di significato.

    Malgrado siamo stati tutti condizionati a categorizzare e negare le nostre emozioni e ignorare la nostra empatia, queste non scompaiono mai, sono sempre a nostra disposizione. Ho scoperto che, riuscendo a prestare attenzione, ognuno di noi può avere accesso alle proprie abilità empatiche e alle informazioni eccezionali contenute dentro ogni emozione.

    Come leggere questo libro

    Questo libro è organizzato in modo empatico, vale a dire si apre con un’esplorazione di problemi e difficoltà che, come scopriremo, le emozioni ci aiuteranno a risolvere. Quando vediamo le cose in modo empatico, andiamo oltre l’ovvio, superiamo la sola razionalità e scaviamo sotto la superficie di ciò che pare stia accadendo. Nell’imparare ad ascoltare le nostre emozioni, questo approccio empatico è assolutamente vitale, poiché siamo stati tutti condizionati a gestirle in modo da far sentire bene gli altri ma non abbiamo imparato ad usarle in modo funzionale.

    I capitoli della prima parte ci introducono passo dopo passo alle difficoltà che abbiamo creato trattando le emozioni come ostacoli. In questi primi capitoli lavoriamo come fanno le emozioni sane: diamo un nome al problema, ne andiamo alla radice, ne scopriamo la genialità e torniamo alla vita comune con più informazioni, più profondità e più abilità.

    Nella seconda parte, ogni emozione ha il suo capitolo, messaggio ed esercizi, ma si fa continuamente riferimento alla prima parte, ai capitoli riguardanti il vero giudizio, i cinque elementi e le sette intelligenze, le distrazioni, le dipendenze e i traumi che influenzano la nostra abilità di interpretare sapientemente le emozioni. Il linguaggio e la saggezza delle emozioni vivono dentro di te ma c’è un po’ di lavoro empatico da fare prima di poter andare oltre i condizionamenti sociali che ti hanno separato da loro.

    02.

    Il mio viaggio nell’empatia

    Il difficile inizio dell’empatia

    Bambina selvaggia

    Mentre ero in alto sugli alberi ad ascoltare il vento

    ho sentito tua madre rimpiangere di avere avuto figli.

    Mentre ero dentro la siepe ad ascoltare il gatto

    ho sentito mio padre bramare una donna, non sua moglie.

    Mentre ero esausta sul prato ad ascoltare le nuvole

    ho sentito i vicini perdere la speranza.

    Poi mentre correvo in bici per ascoltare le mie orecchie

    ho sentito la chiesa mentire su tutto.

    E tu pensavi che non stessi ascoltando.

    Perché gli sconosciuti osservano sempre

    ma i conoscenti raramente si guardano?

    Sono cresciuta in mezzo a geni e artisti negli anni Sessanta. Mio padre era uno scrittore e un inventore dilettante; mia madre e mia sorella Kimberly erano incredibilmente abili nelle arti visive; i miei fratelli Michael e Matthew erano compositori e re dei quiz; mio fratello Matthew era un prodigio della matematica e delle lingue e mia sorella Jennifer era un genio nell’ammaestrare gli animali. A quei tempi la società vedeva la genialità unicamente come una qualità intellettuale, ma nell’oasi della nostra casa intellettuali, linguisti, musicisti, matematici e artisti avevano lo stesso genio. I miei fratelli, le mie sorelle e io siamo cresciuti immersi nell’arte e nelle parole, in matematica e pittura, in curiosità e logica, nei film, nella musica e nella commedia.

    Per la nostra famiglia il concetto di genio era naturale. La maggior parte di noi risultava avere un quoziente intellettivo da genio (al test d’intelligenza di Stanford-Binet); grazie all’influenza di mia madre coltivammo però anche altre forme di genialità come quella relativa alle arti, alla musica, agli animali, alla cucina e chi più che ne ha più ne metta. Avevamo requisito l’idea di genio e la usavamo come e quando volevamo.

    Ridevamo dicendo di mio padre che era un genio del russare, di mia madre che era un genio delle dimenticanze e di Jennifer che era un genio a inventare battute bizzarre per barzellette che pensavamo già di conoscere. I miei fratelli inventarono per gioco l’espressione genio delle emozioni e ci faceva sempre ridere. Nessuno di noi poteva immaginarsi una persona emotiva, amorevole e appiccicosa, in lacrime, furente e impaurita come un genio. Le due parole sembravano fare a pugni in modo ridicolo ed è per questo che mi sono rimaste in mente tutta la vita; mi chiedevo: sarebbe possibile per una persona essere tanto geniale a livello emotivo quanto a livello intellettuale e artistico? Le persone impareranno mai ad andare oltre la dicotomia tra repressione ed espressione delle emozioni, per raggiungere una comprensione delle loro funzioni che dilati la vita? Domande come queste mi hanno sempre affascinata.

    All’età di tre anni tutto è cambiato. Insieme alla mia sorella minore e a molte delle ragazze del vicinato fui violentata più volte dal padre della famiglia che viveva davanti a casa nostra. Quella esperienza mi scaraventò a capofitto dentro categorie di genialità che la mia famiglia non avrebbe mai voluto considerare e che certamente non avrebbe mai desiderato per le sue bambine. Quell’esperienza mi scaraventò a capofitto anche dentro il regno tumultuoso delle emozioni impetuose e dell’empatia incontrollata.

    (Per i lettori più sensibili: in quanto persona empatica sono profondamente consapevole del modo in cui le parole e le immagini ci toccano. Sebbene narrerò di momenti bui ed emozioni intense, non descriverò graficamente i traumi che io stessa o altri abbiamo vissuto. Starò molto attenta alla vostra sensibilità, perché non c’è ragione, non c’è scusa per traumatizzare altri con storie orribili. Manterrò la mia privacy e rispetterò la vostra dignità raccontando le mie vicissitudini con delicatezza e senza dettagli).

    Nel momento in cui quasi tutti i bambini iniziano a perdere le proprie capacità empatiche per fare spazio al regno della parola, più accettato (e sicuro), io mi ritrovai corpo a corpo con la malvagità umana.

    Invece di abbandonare progressivamente le mie capacità di comunicazione non verbale, come fanno di solito i bambini, in risposta alle violenze perpetrate, le abbracciai ancora di più. Il mio percorso di crescita deviò in modo allarmante; imparare la lingua (così come molte altre cose) divenne estremamente difficile per me. Iniziai a balbettare, dimenticai parole semplici, divenni lievemente dislessica e gravemente iperattiva. Presi a servirmi dell’empatia quando le parole non bastavano o quando non riuscivo a capire le persone, ma questa dipendenza creava terremoti angoscianti dentro e intorno a me.

    Grazie alle mie capacità empatiche potevo sentire quello che gli altri provavano, lo volessero oppure no. Sapevo quando i membri della mia famiglia erano in disaccordo o mentivano, anche quando nessun altro poteva dirlo. Sapevo quando non piacevo agli altri bambini e perché. Sapevo quando gli insegnanti non erano preparati e quando i presidi non amavano i bambini. Sapevo anche quando il mio molestatore era a caccia: potevo tenermi alla larga o decidere di entrare nella sua casa così non avrebbe molestato le bambine più piccole quel giorno. Coglievo fin troppe cose mentre non avevo mezzi logici o accettabili di comunicarle. La maggioranza delle persone riesce a malapena ad ascoltare la verità da un adulto che sia un amico intimo; praticamente nessuno vuole sentire la verità da un bambino. Lo imparai sulla mia pelle. Ero in grado di captare la verità dei sentimenti dietro le maschere sociali e di reagire davanti a qualsiasi situazione osservassi. Spiattellavo la verità (senza che fosse mai richiesta), svelavo la realtà delle situazioni dietro le parole di circostanza, trovavo le assurdità nascoste dietro l’apparente normalità: in breve, turbavo tutto e tutti intorno a me.

    Benché la mia famiglia, per due lunghi anni, non seppe degli abusi, mi protesse in qualche modo: trattò le mie insolite abilità e i deficit come parti integranti del mio carattere. Si sollecitavano test e medicine: la mia famiglia si oppose all’adozione di stereotipi basati sull’assunzione di farmaci e sulle categorie psicologiche che avrebbero causato oltraggi ulteriori. (A questo proposito, gli anni Sessanta erano un pianeta deserto, al contrario di oggi dove esistono aiuti straordinari per le vittime d’abuso, per le difficoltà dell’apprendimento e per i bambini iperattivi). Grazie all’aiuto della mia famiglia riuscii a crescere come una bambina ribelle ed eccentrica in un contesto di emarginati. Lì fra le arti e la genialità ero circondata da musica, cultura, commedie, drammi e tanto amore. Mi fu possibile canalizzare tante delle mie emozioni nell’arte o nella musica, mi fu possibile lasciare che la mia immaginazione si levasse in volo e mi fu possibile parlare, in certa misura, delle cose che vedevo e sentivo.

    Cercai d’inserirmi nel gruppetto di bambini del quartiere ma non ero molto brava con le persone; ero troppo onesta e troppo strana. Parlavo sempre di cose a cui nessuno voleva pensare (come perché i loro genitori facessero finta di non odiarsi, o perché mentissero agli insegnanti riguardo i compiti o perché non ammettessero di sentirsi a pezzi quando qualcuno li insultava). Avevo seri problemi di controllo e un temperamento irascibile. Finii col passare gran parte della prima infanzia con gli animali perché era più facile stare in loro compagnia; non dovevo nascondere le mie abilità empatiche, non avevo bisogno di fingere di non vedere o capire i miei amici a quattro zampe. Gli animali domestici amano essere guardati e capiti, come amano essere a stretto contatto con le persone. Soprattutto, gli animali non mentono circa i loro stati d’animo, così non richiedevano a me di mentire sui miei. Non avevo bisogno di controllare i miei amici animali perché erano capaci di controllare il loro comportamento. Era un enorme sollievo. Avevo trovato i miei amici, poco importava che indossassero gli abiti di cani o gatti. Trovai perfino un angelo custode.

    Durante gli anni turbolenti delle violenze, mia madre era solita mandarmi fuori a giocare in giardino tutte le mattine, balbuziente e agitata com’ero, non sapendo ancora che lo spazio davanti a casa era ben visibile dall’abitazione del mio molestatore. Innaffiavo il prato nel giardino davanti a casa, invasa dalla paura e la nausea. Impugnavo il tubo saldamente, facevo le linguacce, strabuzzavo un po’ gli occhi e tremavo tutta mentre il getto d’acqua quasi inondava il prato. La mia famiglia e gli altri bambini ridevano di me (in tutta onestà avevo un aspetto proprio ridicolo) e questo mi faceva sentire ancora più isolata. Dopo alcuni giorni, un gatto tigrato dal pelo lungo e rossastro, chiamato Tommy Tiger, ficcò il muso nella nostra siepe. Con grande sollievo del prato, la mia innaffiatura mattutina cessò e il mio rapporto con Tommy ebbe inizio.

    Tommy era un gatto assolutamente originale: era saggio e sicuro di sé ma disposto a fare bambinate, fiero e protettivo ma infinitamente paziente e gentile con me. Da allora ho incontrato tanti gatti eccellenti ma nessuno mai quanto Tommy. Fu per me rifugio, maestro e il mio più caro amico. Rendeva tutto sicuro: scacciava i cani cattivi e addolciva i brutti ricordi. Tommy e io ci accoccolavamo insieme sull’erba ogni mattina e sussurravo tutti i miei segreti, proprio tutti, nel suo pelo di velluto color arancio. Poiché passavo così tanto tempo con lui, iniziai a vedere il mondo con i suoi occhi. Potevo sentire la sua stessa esperienza corporea quando stava sdraiato a rilassarsi sul prato morbido in una pozza di sole; imparai con precisione dove accarezzarlo perché facesse fusa di piacere e compresi il ringhio arrabbiato che gli saliva dalla bocca dello stomaco, quando doveva difendere il proprio territorio da quegli zucconi dei cani dei vicini, che non conoscevano le buone maniere.

    Non ricordo quando smisi di sussurrare a Tommy i miei segreti, ma presto divenni felice anche solo stando sdraiata lì con lui in un silenzio colmo di oneste emozioni. Comunicare con lui in questo modo era incredibilmente meglio che parlare (ahimè!).

    Quando ero con Tommy godevo della sicurezza e della pace di cui avevo bisogno per riflettere sugli umani e sui loro comportamenti bizzarri. Pensavo a quanto orribili erano le persone e subito nella mia mente si creava l’immagine di un’emozione che mi ammoniva sul pericolo di non fidarsi di nessuno. Pensavo a come i miei genitori e i miei fratelli e sorelle fossero costantemente impegnati (nessuno aveva tempo per me) e poi vedevo immagini della loro spossatezza, ansia e disperazione. Sdraiata con Tommy sul prato, iniziai a imparare come empatizzare di nuovo con gli umani. Con l’aiuto di Tommy riuscii a sopravvivere a quel periodo. Quegli anni furono di un dolore straziante e spesso terrificanti, eppure sono arrivata a vederli come un’immensa benedizione. La mia ferita mi rimosse dalla realtà normale e mi diede l’opportunità di vedere il genere umano e le sue interazioni in modo unico.

    Iniziazione

    Lo scrittore e studioso di mitologia Michael Meade ha affermato nelle sue lezioni che la violenza sessuale è un’iniziazione, che è compiuta al momento sbagliato, nel modo sbagliato, dalla persona sbagliata, con l’intento sbagliato, eppure è un’iniziazione. La violenza sessuale separa dalla normalità e ferisce l’iniziato cambiandolo per sempre. La mia infanzia terminò in un istante e io invecchiai di mille anni in un pomeriggio. A tre anni conoscevo già la brutalità e la debolezza, l’amore e l’orrore, la rabbia e il perdono e i mostri in cui le persone si trasformano quando non vivono le proprie emozioni. Feci esperienza del lato peggiore della natura umana, ma avevo Tommy e gli altri animali, la mia arte, la mia musica, la mia famiglia e le mie capacità empatiche a cui appoggiarmi in tutto questo. La mia iniziazione alla pura crudeltà umana non è finita nella droga, nelle dipendenze, nella pazzia, nella malattia, nella galera o nel suicidio, come accade per molte storie simili. No, la mia iniziazione mi ha portato al lato oscuro dell’animo umano, dove ho imparato in prima persona a conoscere il tormento disperato e, incredibilmente, la bellezza che spacca il cuore.

    Le mie capacità empatiche, invece di farmi impazzire, mi aiutarono a sopravvivere durante l’infanzia. Malgrado io abbia imparato a usarle, lasciatemi dire empaticamente che, inizialmente, queste non costituivano affatto un dono per me.

    Se ne avessi avuta l’opportunità, avrei chiesto di essere molto meno sensibile, molto meno empatica. Tuttavia, non avevo scelta, perché le violenze ripetute avevano distrutto i miei confini personali e qualsiasi percezione di sicurezza che potessi avere. Persi il mio io; persi quella pelle che solitamente riveste la psiche delle persone. Persi molte abilità comuni e mi ritrovai in pericolo, esposta al subbuglio e al clamore del mondo, per cui la protezione della rabbia divenne necessaria per me. Gli scoppi d’ira durante l’infanzia erano un segno che qualcosa di deleterio era accaduto, ma erano anche una soluzione d’emergenza alla mancanza di confini personali del mio piccolo io, così pericolosamente esposto.

    In breve, la mia attitudine empatica era una reazione ingegnosa di sopravvivenza. Adesso capisco che le mie capacità empatiche comparvero per proteggermi dal trauma ma prima che imparassi ad usarle non mi fornirono alcuna protezione. Sopportai contatti con altri, corpo a corpo, di tale intensità che finii col vedere e sentire le loro emozioni come fossero cose reali, fisiche. Le mie stesse emozioni e quelle degli altri mi buttavano a terra.

    Potresti avere avuto la stessa esperienza; ti sarà certamente capitato di sentirti soffocato, colto all’improvviso, imbarazzato, fortificato o come colpito a sassate dalle tue emozioni.

    Se sei sensibile alla comunicazione non verbale e al linguaggio del corpo, le emozioni degli altri, anche quelle nascoste, potrebbero avere avuto un effetto simile su di te. Sappiamo tutti come ci si sente a essere vicini a un genitore arrabbiato, a un amico depresso, a un bambino emozionato o a un animale spaventato: i sentimenti degli altri sono contagiosi. Gran parte dell’effetto che le emozioni degli altri hanno su di noi, naturalmente, deriva dalla capacità di riprodurre il dolore o la gioia altrui, perché noi stessi li abbiamo provati. Si tratta di una spiegazione logica perfetta ma molti di noi hanno provato le emozioni altrui anche quando espressioni facciali e norme sociali non erano percettibili. Vediamo e sentiamo le emozioni come se fossero le nostre.

    Nessuno poteva aiutarmi. Uno squilibrio emozionale come quello che io mostravo era identificato come iperattività, danno cerebrale o altro, nessuno dei quali poteva essere curato o spiegato. Nessuno pensò di chiedermi perché fossi attraversata da tutte quelle emozioni così frequentemente.

    Un neurologo notò che non avevo filtri sociali o sensoriali, ma non fu in grado di offrire alcun consiglio a parte raccomandare che passassi tempo sola in una stanza buia. Prescrissero il Ritalin, ovviamente, ma mia madre si oppose con un No! secco. Era convinta che se avevo tutta quella energia era perché dovevo averne bisogno e invece di farne a meno, avrei dovuto imparare ad affrontarla e gestirla. Guardando le cose in retrospettiva, mia madre aveva probabilmente ragione, ma l’iperattività rese gli anni di scuola, e gran parte della mia infanzia, un inferno in terra. Notavo così tante cose, ascoltavo così tanto e sentivo le emozioni di così tante persone che ero su di giri la maggior parte del tempo. Provai a elaborare il contenuto di quelle sensazioni, ma brancolavo quasi nel buio perché non sapevo come spiegare le mie percezioni agli altri; non sapevo come dirgli che le loro emozioni disprezzate e represse avevano una ripercussione su di me. A quel tempo, così come oggi, le emozioni non erano considerate cose reali, mentre le emozioni sono reali.

    Le emozioni veicolano messaggi di diverso tipo, precisi che possono essere identificati con assoluta certezza: su questo non avevo alcun dubbio. Malgrado le emozioni fossero inconfondibili e ovvie per me, non riuscivo a trovare né appoggio né informazioni; ero completamente sola nelle mie percezioni e tuttavia in mezzo agli umani. Compresi ben presto che la mia relazione con le emozioni non poteva essere risolta entro i limiti della realtà comune. Le mie soluzioni sarebbero dovute arrivare da un universo completamente diverso.

    Un meccanismo di difesa inusuale

    Durante gli anni in cui fui vittima di violenze, imparai la dissociazione: abbandonavo il corpo e allontanavo la coscienza dagli abusi perpetrati su di me; imparai a fare volare l’immaginazione e a rivolgere l’attenzione lontano da quello che stava accadendo nella stanza. Molte vittime di incidenti o traumi riportano una sensazione di dissociazione simile durante l’accaduto, si tratti di un torpore, dell’impressione di galleggiare o di essere lontani dalla disgrazia. La dissociazione accade in risposta a condizioni travolgenti ed è un meccanismo neuronale protettivo, molto naturale. Quando però gli eventi traumatici sono continuativi, la dissociazione può diventare un atto ripetitivo che assicura la sopravvivenza. Pertanto, disconnettersi, che è spesso l’unica difesa di un bambino, diviene una via di fuga sicura e confortevole. Molti bambini traumatizzati ripetutamente si trasformano in maestri della dissociazione e della fantasia.

    In molti casi i sopravvissuti a traumi ripetuti imparano la dissociazione non come una tecnica di sopravvivenza ma come un modo estremamente efficace di affrontare lo stress nella vita di tutti i giorni. Per me la dissociazione non era solo una via di sopravvivenza; portava grande sollievo dalle emozioni e moderava le mie capacità empatiche. Imparai semplicemente a disconnettermi quando le persone intorno a me emanavano troppe emozioni represse. Quando non riuscivo più a stare con gli altri, mi creavo una certa privacy lasciando alle spalle il mio corpo e la mia vita. Infatti, non ricordo quasi nulla della mia infanzia e ho solo vaghi ricordi anche delle superiori. In realtà non ero presente.

    Non voglio lasciare intendere che la dissociazione sia un potere speciale o spaventoso, non lo è affatto; tutti ci muoviamo fra stati di veglia consapevole di diverso livello ogni giorno. Sognare ad occhi aperti è una comune esperienza dissociativa e anche gli atti ripetitivi, come guidare l’auto, favoriscono la dissociazione. Sei mai arrivato a casa, o al lavoro, senza ricordare di avere voltato o cambiato corsia? Il tuo corpo ha guidato la macchina e cambiato le marce con destrezza, ma la tua attenzione era completamente da un’altra parte: questo è un esempio di cosa significhi essere disconnessi e fuori dal proprio corpo. La dissociazione è un’azione banale; un semplice disturbo in cui è il tuo corpo a guidarti mentre la mente se ne va altrove per un po’, niente di più. Purtroppo per molte persone che hanno sofferto traumi, questo essere altrove va sempre avanti, la loro connessione alla vita quotidiana è minima. Le persone che manifestano dissociazione vivono nel futuro, nel passato e nella fantasia; per loro è particolarmente faticoso essere presenti nel momento. Possono essere capaci e brillanti, possono essere a capo di aziende (non sono dei deboli) ma la maggior parte di loro stessi rimane intoccabile e insensibile al mondo circostante.

    Quando mi disconnettevo, potevo lasciare questo mondo di sofferenza. Nessuno poteva ferirmi e nessuno poteva trovarmi perché non c’ero. In quei momenti di beatitudine provavo leggerezza e pace, incontravo angeli e guide che vivevano in un mondo parallelo, spirituale, pieno di significato, proprio a un passo da questo. Molti sopravvissuti ai traumi dicono di non sentire nulla se non il vuoto durante gli episodi dissociativi, ma io avevo proprio l’impressione d’entrare in un mondo reale e separato da questo. Forse le abilità empatiche, che mi aiutarono a vedere oltre la superficie della vita comune, mi aiutarono anche a creare un’altra realtà nello stato alterato della dissociazione. Grazie alle mie capacità empatiche e di dissociazione, imparai a vivere con un piede in entrambi i mondi: il mondo della mia vita corporea e quotidiana – famiglia, scuola, cibo e tutto il resto – e il mondo della mia vita fuori dal corpo: galleggiante, energica, visionaria. Mentre continuavo a relazionarmi in qualche modo con l’oasi della mia famiglia, gli abusi ripetuti – insieme al fatto che nessuno mi salvò – m’insegnarono che gli esseri umani erano praticamente uno spreco d’ossigeno.

    Rimanevo fuori dalla mia vita e da questo mondo per la maggior parte del tempo. Divenni un’osservatrice degli esseri umani. Non ero una di loro.

    La bambina degli animali

    Anche se i ragazzi del quartiere non mi capivano, trovarono una maniera d’inserirmi nel loro gruppo, benedizioni a loro! Divenni nota come la bambina degli animali, quella che poteva andare vicino ai cani arrabbiati e accarezzarli. A sette anni avevo già imparato a usare delle mie capacità empatiche per calmare e confortare gli animali feriti, così divenni una specie di veterinario d’emergenza nel quartiere. I bambini mi portavo gli uccellini disorientati, i gatti malconci, o i cagnolini malati e io provavo a capire cosa non andasse. Spesso al toccare gli animali traumatizzati avevo l’impressione che fossero lontani e avessero perso i sensi, vedevo solo un accenno di vita e niente di più. Avevo l’impressione che non fossero vicini al loro corpo sofferente. Io lo potevo capire!

    Grazie all’aiuto di questi animali iniziai a comprendere cosa fosse lo stato di dissociazione dal corpo tanto per loro quanto per me. In un ambiente in cui ero necessaria, trovavo il modo di tornare in me stessa, essere presente nel mio corpo ed ero capace di creare un luogo di calma e pace per gli animali. Mi servivo dell’energia intensa e iperattiva, che avevo sempre disponibile, trasformandola in calore e quiete. Emanavo calore dal palmo della mano e dal torso e avvolgevo il corpo degli animali in questo calore. Creavo un rifugio per l’io di questi animali spezzati, un luogo pacifico, caldo e accogliente in cui tornare.

    All’inizio molti degli animali facevano un respiro lento e profondo e morivano. Ero convinta di averli uccisi io, ma mia madre sottolineò che gli animali stavano già morendo e che io avevo creato un luogo sicuro e pieno di pace in cui potere andarsene. Imparai a essere ancora più silenziosa e ancora più ferma e a lasciare che il ritorno alla vita o la morte accadessero. Imparai che la sola cosa che io potessi fare era creare quel luogo. Se gli animali fossero tornati in sé, spesso si sarebbero risvegliati di sorpresa, poi avrebbero tremato, calciato e si sarebbero dimenati.

    Non ci mettevano molto a riaversi ma il processo di tornare a una vita pienamente corporea dopo il trauma era sempre drammatico e commovente. Appresi a essere calma e paziente e ad aspettare che gli animali riprendessero coscienza prima di curare le loro ferite. Quando risolvevano la loro dissociazione, potevo bendare le ferite o creare un giaciglio perché iniziassero la convalescenza. Osservai allora questo processo e lo compresi a quell’età, ma non sapevo applicarlo alla mia dissociazione e alle ferite dei miei traumi; sarebbe successo solo più avanti.

    La parte metafisica del viaggio

    Quando avevo dieci anni, mia madre si ammalò gravemente d’artrite e sembrava destinata alla sedia a rotelle. La medicina convenzionale di allora non poteva fare nulla se non registrare i suoi sintomi e prescrivere medicine inefficaci, così si mise a cercare altrove. Scoprì lo yoga e cambiò il suo modo di pensare, la sua alimentazione, il suo atteggiamento e la sua salute per il meglio. La nostra famiglia seguì le sue ricerche; studiammo la spiritualità, le medicine alternative, la meditazione e terapie di ogni tipo. Mamma diventò così sana che insegnò yoga per tanti anni. Io andavo alle sue lezioni e notavo che, come me, molte delle persone che partecipavano alle lezioni non erano completamente presenti nel loro corpo. C’era qualcosa nella pratica dello yoga che sembrava incoraggiare o rendere più facile la dissociazione. Per me era piacevole trovare un luogo in cui le mie capacità dissociative fossero segno di maturità spirituale! Mentre altre persone faticavano per raggiungere stati alterati di coscienza, la dissociazione mentale mi permetteva di saltare da un mondo all’altro a piacere. Spesi vari anni a praticare quelle forme di spiritualità che celebrano l’ascesi, perché in quegli ambienti non ero vista come una persona malata o disturbata; le abilità che la dissociazione offriva mi rendevano una persona evoluta e membro di un gruppo umano ambito per la prima volta. Mi sentivo molto bene.

    A quel tempo trovai strano che così tante persone che soffrivano di dissociazione si trovassero tutte in uno stesso posto, era piacevole per me, ma era strano. Negli anni successivi ho osservato che molte forme di spiritualismo e metafisica hanno un ascendente particolare sui sopravvissuti ai traumi, i quali rappresentano una parte significativa della popolazione. Le pratiche spirituali dissociative e di abnegazione possono risultare molto accattivanti per i sopravvissuti ai traumi, che hanno avuto esperienze corporali miserabili; inoltre, molti degli indicatori psicologici tipici, come il marcato senso di responsabilità combinato a un’estrema sensibilità emotiva e alla dissociazione, sono apprezzati e perfino incoraggiati in alcuni gruppi spirituali. Molti gruppi spiritualisti o professanti la metafisica a volte sembrano proprio scegliere i sopravvissuti al trauma. Spesso questi gruppi offrono il solo senso di comunità, appartenenza o guarigione dal trauma che i sopravvissuti riescono a trovare.

    Ma c’è un problema: molti di questi gruppi non comprendono la loro posizione di strutture de facto per la terapia di sopravvissuti a trauma con disturbi dissociativi, spesso aventi anche capacità empatiche. Questa mancanza di consapevolezza e sensibilità porta a turbamenti significativi e inutili e a una ritraumatizzazione di coloro che meno possono permetterselo. Altri esempi di discipline dissociative sono i viaggi astrali, le terapie energetiche, la canalizzazione, alcune forme di meditazione e quelle pratiche che hanno alla base il controllo della respirazione. In queste discipline, il corpo è spesso visto come un contenitore dello spirito che cerca la sua liberazione. Mentre trovavo il mio cammino nel mezzo di queste pratiche spirituali, vidi che alcuni sopravvissuti al trauma erano così destabilizzati dall’eccessiva disgiunzione dal corpo da cadere in una dissociazione gravissima, che aveva l’aspetto di una crisi nervosa. Infatti, quando persone che soffrono già di dissociazione deviano ulteriormente la loro attenzione dalla vita quotidiana, spesso non riescono a tornare allo stato cosciente.

    A sedici anni avevo già imparato come assistere le persone nel ritorno al proprio corpo e quello divenne il campo d’azione del mio lavoro terapeutico. Sapevo cosa fare, non c’era niente di diverso dal lavoro che svolgevo con i gatti, i cani e gli uccelli traumatizzati. Creavo un ambiente sicuro, caldo e silenzioso in cui le persone potevano rinvenire sentendosi al sicuro e rimanevo con loro finché non raggiungevano l’integrazione. Queste crisi sembravano sempre sorprendere i membri del gruppo spirituale ma erano comuni; non c’è molto di cui sorprendersi a pensarci bene. Se insegni alle persone la dissociazione, che è una strategia d’emergenza, puoi finire in un pronto soccorso psichiatrico. La dissociazione è un meccanismo potente, per cui ha conseguenze potenti.

    Con l’esperienza, iniziai a capire che le persone avevano bisogno di concentrare l’attenzione e di riequilibrarsi efficacemente con il grounding, così da poter rimanere integrati. Avevano bisogno di diventare contenitori sicuri e di sviluppare le loro proprie abilità. Imparai, e presto anche insegnai, come creare confini personali e come sostenere le persone nel processo d’integrazione. Successivamente riuscii a introdurre le pratiche che avevo imparato nel mio lavoro con gli animali e a ricordare che le emozioni non sono cose negative o spaventose ma segni del fatto che la psiche sta cercando di guarire.

    Appresi a vedere le emozioni come espressioni necessarie di quelle che forse erano verità indicibili, ma ci misi abbastanza perché la mia visione delle emozioni era diventata molto distorta.

    Gli insegnamenti di metafisica ricevuti nell’infanzia e il trauma mi avevano istruito a concepire le emozioni come segni di squilibrio, di modi di pensare scorretti, di mancato distaccamento e di crescita spirituale inadeguata. L’idea che le emozioni indicassero squilibrio aveva senso perché conoscevo persone che a causa delle emozioni si erano trasformate in penose invasate. Mi convinsi che le emozioni erano la radice di tutti i mali.

    Per accrescere la mia spiritualità mi sforzai di non avere né emozioni né giudizi, ma solo gioia nel cuore, eppure non ero molto brava in questo. I miei stati d’animo divennero molto altalenanti e sperimentavo episodi dissociativi ripetuti. Fortunatamente, grazie alla mia pratica terapeutica, ebbi occasione di vedere con i miei occhi che gli altri studenti di metafisica, perfino quelli con un’infanzia meno complicata della mia, non ottenevano affatto risultati migliori nel provare a non avere emozioni. Tutti perdevano questa battaglia con i sentimenti. Iniziai a capire che le emozioni non si potevano evitare, così provai a conviverci. Facevo finta di essere felice e contenta ma segretamente lasciavo che esse (la rabbia in particolare) mi attraversassero, era tutto quello che riuscivo a pensare di fare. Non avevo modelli o mentori che mi mostrassero altri metodi.

    Mentre combattevo con le mie potenti emozioni, continuavo a fare scoperte sui processi di guarigione. La pratica terapeutica mi portò a incontrare molti sopravvissuti ai traumi; io li aiutavo a ricostruire i loro confini personali e a sentire una connessione di tutto il corpo con la terra tramite un processo detto grounding. Nel lavoro però osservavo eventi ricorrenti che mi spaventavano: dopo essere riusciti a trovare nuova integrazione, questi sopravvissuti erano spesso sopraffatti dalla rabbia, dall’ansia o dalla depressione. Smisi completamente di praticare, chiaramente stavo facendo del male alle persone, no? Spirituale equivaleva a senza emozioni, dunque peggioravo lo stato di salute delle persone, no?

    Sbagliato. Una serie di eventi e intuizioni mi fece capire quale potesse essere lo scopo di emozioni così forti: garantivano protezione, pulizia profonda, rafforzavano la psiche e aumentavano l’abilità di rimanere presenti alla vita corporea.

    Presto scoprii la speciale relazione che esisteva fra rabbia e ripristino dei confini personali (la rabbia veicola la specifica abilità di creare confini) e l’assoluta necessità di paura in una psiche sana (la paura nella sua forma più sottile è intuizione). Notai anche una relazione fra emozioni forti e integrazione nelle persone che soffrivano di dissociazione. Malgrado patissi ancora l’indottrinamento contro le emozioni, la saggezza di quella bambina degli animali stava tornando a galla. Compresi che l’affiorare di emozioni forti negli uomini corrispondeva al momento in cui gli animali, tornando in loro stessi dopo il trauma, scalciavano, tremavano e si agitavano. Iniziai a incorporare con attenzione, nel mio lavoro, ira, depressione, lutto ed euforia, poi restavo a guardare meravigliata come le persone tornassero a essere unite e complete. Le emozioni mi hanno insegnato più di quanto nessun altro o nessuna altra cosa abbia mai fatto o potrà mai fare.

    Imparai che le emozioni ci proteggono e guariscono sempre, prima, durante e specialmente dopo un trauma, inoltre creano connessioni vitali all’interno della psiche. Le emozioni aiutano le persone a raggiungere la reintegrazione, certamente, ma anche a pensare in modo più chiaro e complesso, a sentirsi fisicamente al sicuro, svegli e consapevoli. Imparai che le emozioni esistono per permetterci di sopravvivere e farci strada nella vita. Sono fluide, sempre in cambiamento ed estremamente versatili. Le emozioni si muovono e portano con sé grandi quantità di informazioni. Sono capaci di percezione acuta (anche se a volte in modo doloroso) e guarigione profonda, se le approcciamo in modo corretto, le interpretiamo con onestà e le trattiamo con rispetto.

    Quando sono riuscita a combinare i messaggi delle emozioni con le utili tecniche che avevo appreso studiando metafisica, ho iniziato a curare me stessa (poi a insegnare ad altri come curare sé stessi). Per più di vent’anni, dal 1997 al 2003, ho lavorato con le emozioni nella mia pratica terapeutica; ho creato una serie di libri e registrazioni sulla guarigione spirituale concreta, che include le emozioni. Mi sono specializzata nella cura dei traumi con dissociazione e ho trovato modi sicuri e congrui di usare delle meditazioni senza disturbare l’abilità delle persone di rimanere connesse al proprio corpo e alle proprie vite.

    Soprattutto ho appreso a regolare le mie stesse abilità empatiche e dissociative, cosicché non ne sono più tormentata. Ho imparato a mantenere l’attenzione concentrata sul corpo anche in momenti difficili e durante i traumi.

    Ho anche imparato a gestire la mia empatia e a lasciare alle persone e agli animali la loro privacy e a dar loro completa attenzione solo quando necessario.

    Guardando avanti

    Nel 2003 ho abbandonato la pratica terapeutica, in parte perché non sopportavo più di vedere le persone ferite e confuse da informazioni irresponsabili e in parte perché, dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, tante persone, americani inclusi, hanno usato alcune loro credenze spirituali ed emozioni in modo orribile e assolutamente inaccettabile. Avevo bisogno

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