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La moanarchia di Borgoferro: A day in the life
La moanarchia di Borgoferro: A day in the life
La moanarchia di Borgoferro: A day in the life
E-book353 pagine5 ore

La moanarchia di Borgoferro: A day in the life

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Info su questo ebook

Rico e Lele vivono a Ponteferro, immaginaria cittadina industriale qualche chilometro a sud di Roma. Hanno poco più di venti anni e sono amici da sempre. Rico ha una famiglia unita, che lo ama e con cui vive in sintonia. Lele, invece, ha un padre e una madre assenti e un fratello maggiore che, per scappare a tutto ciò, si è trasferito da molti anni in Inghilterra. Le loro sono le tipiche giornate dei ragazzi di provincia: studio, lavoretti, una scalcagnata band con cui suonare qualcosa in uno scantinato. Attorno a loro, però, turbina un microcosmo di personaggi eccentrici e vagamente fuori giri, una sorta di coro che fa da controcanto alle giornate dei due protagonisti. Giornate che, a ridosso di un gelido Natale simile a mille altri, prendono una svolta inattesa: Rico e Lele, stanchi di quella routine, decidono di passare al contrattacco attraverso un’idea folle e utopistica: fondare una loro personalissima Città Ideale, Borgoferro, sulle orme di tutti quei pensatori e filosofi illustri che li hanno preceduti teorizzando soluzioni simili. Una sorta di regno indipendente da realizzare nelle campagne lì attorno, in cui rifugiarsi con pochi altri eletti per fuggire dalla noia e dalla mediocrità imperanti. Da questo improbabile presupposto parte una sarabanda comica, tenera e romantica che si sviluppa nell’arco di ventiquattro pirotecniche ore, in cui i due protagonisti capiranno che tra il dire e il fare c’è di mezzo un ostacolo insormontabile: la realtà.
Il romanzo è un picaresco viaggio a chilometri zero. Perché i viaggi più epifanici e avventurosi, a volte, sono quelli che partono dalla nostra testa. Senza che le gambe nemmeno se ne accorgano.
LinguaItaliano
Data di uscita10 apr 2021
ISBN9788832928457
La moanarchia di Borgoferro: A day in the life

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    Anteprima del libro

    La moanarchia di Borgoferro - Simone Corona

    marzo.

    1

    Ma perché proprio ’sto bue estrogenato? È bolso. Ce staranno ducento modelli, te sei fissato col peggio.

    Modelli? Ma come modelli? So’ dinosauri, mica macchine. Ahó Rico, me piace lo stegosauro, che te devo di’? È rassicurante, pacioso. Non lo so, me dà l’idea che pure quello vero era de gomma. Bolso poi… ma può esse bolso un dinosauro?

    Lo stegosauro sì. A questo je menavano pure gli struzzi. Scusa eh, guarda il T-rex che fico. Te lo ricordi Ryu? Quer cartone che rifacevano quanno eravamo pischelli. Ce stava coso lì, Tirano. Oh, io c’avevo ’na paura de quel bestio…

    E sì che me lo ricordo, è proprio per questo che non je vojo regala’ il T-rex. Non lo potevo vede’ Tirano. Quer poraccio de Ryu se lo ritrovava sempre dietro a mozzicaje le chiappe. Era ’na colla, me metteva ’n’ansia…

    Guarda che al limite era il contrario. Era Ryu che dava la caccia a Tirano perché j’aveva stincato la madre.

    Uh? Scusame, chiedo venia! Ma che sei dell’Ente Protezione Tirannosauri? E comunque l’intera serie era ’na cazzata: uomini e dinosauri non se so’ mai manco sfiorati. Robba de milioni d’anni de differenza. Quindi de che stamo a parla’?

    Ma che c’entra? Che ce pretendi, la verità storica? È un manga, bello, mica è Erodoto. E allora Topolinia? Che esiste? Che ce sta Topolinia Scalo ’ndò arivano i treni da Paperopoli? Hai mai visto Basettoni al bar a fasse ’n chinotto co’ Manetta?

    Ma che stai a di’?

    La verità, Lele, che sto a di’. È un universo immaginario, per definizione. Ah, anzi! Senti a che stavo a pensa’ l’altro giorno. C’hai mai fatto caso che a Minnie e Paperina je scotta in continuazione il tegamino? C’hanno sempre le fregole d’anna’ coll’artri. Paperina tutte le volte che je capita se mette a sgalletta’ co’ Gastone, quell’altra invece ogni tanto scapoccia co’ quer coso lungo lì. Oh non me viene mai il nome…

    Ma co’ chi, co’ Pippo? Ma piantala, Pippo non se permetterebbe mai de fa’ ’na cosa del genere.

    Ma quale Pippo. Secondo te non me ricordo come se chiama Pippo? Zitto che ce sto a pensa’. Che c’entra quel poraccio? Tra l’altro Pippo è illibato nonché asessuato. O forse, a da’ retta al nome che c’ha, è un onanista compulsivo. Anzi no, fermate! Me sa che Pippo c’ha pure un fijo. Non so se co’ Gloria, però. O addirittura co’ Jessica Rabbit. Non me vorrei sbaja’, ma Jessica prima de mettese co’ Roger Rabbit stava co’ Pippo…

    A Ri’ ma che cazzo stai a di’? Te rendi conto che stai a farnetica’? Che c’ha Pippo? Un fijo? Co’ Jessica Rabbit poi? Ma quale fijo…

    Ah no? Non so co’ chi, ma un fijo ce l’ha de sicuro. Informate.

    Sì guarda, mo’ vado all’anagrafe. Viale Caduti di Topolinia 28.

    Comunque Pippo deve sta fòri da ’sta storia, non me confonde… Topesio! Ecco come se chiama! Quello cor majone a collo alto e la faccia da ’mbecille. Quindi, ricapitolando: perché se fanno batte i pezzi dall’artri pure se so’ fidanzate? Eh?

    Non lo so, so’ curioso.

    Semplice. Vuol di’ che so’ sessualmente insoddisfatte dei propri partner. E perché invece Clarabella va sempre d’amore e d’accordo co’ Orazio? Eh? Perché? Te lo sei mai chiesto?

    ’Na volta. Ma poi m’ha telefonato Nonna Papera pe’ dimme che era pronta la torta de mele e m’è passato de mente.

    Dai, deficiente, sii serio.

    Ah io devo esse serio?

    Perché Orazio è ’n cavallo, chiaro. A dimensioni starà messo bene, no? Paperino e Topolino so’ ’n papero e ’n sorcio. Che ce ponno ave’ là sotto? Du’ mezze penne rigate.

    Oddio, questo è impazzito… Comunque, anche se fosse, quello che stai a di’ nun regge. Pure Gastone e Topesio so’ ’n papero e ’n sorcio. A dimensioni dovremmo sta là.

    E no, bello. Qua te volevo. Gastone è notoriamente il papero più fortunato del mondo, quindi lo sarà pure da quelle parti, no? Topesio invece c’ha ’na brocca non indifferente. E si sa: chi de naso abbonda…

    Pure Topolino c’ha la brocca.

    Ma che stai a di’? Ma ’ndò? C’ha il nasino alla francese. Fidate, è come ho detto io. Che devo fa’ pe’ fattece crede? Devo anna’ da Topolino a misuraje l’uccello? Oh, comunque cerca’ de fatte capi’ le cose è accanimento terapeutico!

    La commessa del negozio di giocattoli, dopo averli compostamente osservati da qualche metro di distanza, a quel punto si avvicinò con risolutezza a Rico e Lele.

    Per favore, vi posso chiedere di abbassare un po’ la voce?

    I due, sorpresi, la fissarono per un attimo. Poi il loro sguardo imbastì un rapido piano-sequenza su una serie di distinte unità da combattimento genitori/figli che li osservavano. Nel silenzio generale, una flebile vocetta dubbiosa domandò: Mamma, mamma, ma Topolino ha un uccello?

    Una figura meschina da consegnare agli annali, ma ormai era fatta. Lele pagò imbarazzato il grosso stegosauro di gomma − un regalo per un suo cuginetto fissato coi dinosauri − lo fece incartare e, salutando frettolosamente, i due uscirono dal negozio a occhi bassi schivando gli sguardi poco amichevoli della commessa.

    E, là fuori, il Tra-Poco-È-Natale faceva orgoglioso sfoggio di sé in tutta la sua annichilente potenza. Le luminarie pubbliche, coetanee più o meno di Gesù Cristo stesso, disegnavano strambi serpenti psichedelici sotto un cielo color asfalto. Gli altoparlanti sistemati sotto gli angoli dei portici andavano ognuno per conto proprio, gracchiando un’improbabile session tra John Lennon e George Michael, mentre un lungo rivolo di umanità semicongelata si riversava ovunque ci fosse qualcosa da regalare.

    Un formicaio ghiacciato e colorato in cui un esercito di formiche sotto speed ondeggiava a ritmo di Last Christmas: così, visto dall’alto la sera del ventuno dicembre, sarebbe apparso Ponteferro. Due fabbriche scorticate, un inceneritore, quattro chiese, un pugno di locali e ventunomilaquattrocentosei anime. Quasi tutte in pena. Rico e Lele si guardarono intorno con quel tipo di occhiata spaesata che si userebbe incontrando un tricheco spiaggiato sulla banchina della metro, e poi, incavando la testa nelle spalle per proteggersi dal freddo, presero a camminare in silenzio avviandosi verso casa. Rico − alto, secco, scuro − cominciò a pensare alla secchiata di libri di estetica che ancora doveva aprire a un mese dall’esame. La cosa un po’ lo preoccupava, ma nemmeno poi tanto. Sapeva che comunque l’avrebbe sfangata. Lele − slavato, anemico, capelli biondastri perennemente arruffati − nel frattempo stava cercando di ricordarsi cosa gli avesse detto quell’inutile donna che aveva per madre a proposito di una trousse da regalare alla zia.

    Arrivarono a destinazione in cinque minuti. Abitavano a due palazzi di distanza, e quell’orizzonte di casermoni appassiti lo condividevano da quando non avevano ancora i denti da latte. Stesse elementari, stesse medie, stesso liceo.

    Come d’abitudine, tagliarono per i giardinetti, dove uno stormo di tossici discuteva con preoccupazione del livello di colesterolo alto di uno di loro, davanti a un paio di Peroni da sessantasei centilitri. Adorabili, attempati ragazzacci. Schicchera, uno della cricca, li riconobbe e gli sparò dietro un urlo sbiascicato.

    Ah rega’, che c’avete du’ spicci? Domattina devo anna’ a Roma cor treno, me servono pe’ fa’ ‘r bijetto.

    Davero Schi’? intervenne Lele. Devi anna’ a fa’ shopping?

    No Le’, più probabile che debba anna’ a fa’ scipping, rispose Rico.

    I compari di Schicchera, nonostante le antenne perennemente ottenebrate, captarono al volo la presa in giro e invece di prenderne le difese cominciarono anche loro a sbeffeggiarlo sguaiatamente.

    Ah ah ah, bella zi’, a fa’ scipping! Ma ’ndò vai, Schicchero’, non sei mai uscito da ’sto paese in vita tua! E che c’andresti a fa’ a Roma poi? gli domandò Mummione divertito.

    Fermate, fermate, io lo so! sbraitò Scolino. Ce va perché c’ha du’ ore de buco!

    E giù risate che diventarono all’istante grosse nuvole di respiro ghiacciato gusto MS.

    Ahó bello, gli rispose piccato Schicchera, parli proprio tu che te chiamano Scolino perché c’hai i buchi dappertutto. Sei ’no scolapasta co’ le gambe, porca puttana.

    Scolino si sentì ferito nel profondo dell’orgoglio.

    Eh no, Schi’, qui te sbaji, me chiamano così perché ’na vorta c’ho avuto lo scolo. Che te credi, oh?

    Il resto della banda, di fronte a quella strampalata autodifesa, masticò una nuova sonora risata tossica e la sputò fuori a pieni polmoni.

    Ah, allora vabbè Scoli’, potemo sta’ tranquilli! sghignazzò Schicchera.

    Certo che pòi sta’ tranquillo Schi’, insistette Scolino, pensa ai cazzi tua, che o stai su ’ste panchine fatto come ’n cammello o stai a casa de tu’ madre a rincojonitte davanti alla televisione.

    Questo è vero, però, eh Schi’, rincarò Mummione, come se chiama quella serie che te piace tanto?

    Lo so io come se chiama, Mummio’, disse Scolino, se chiama Me ’Ntrono de Spade.

    Rico e Lele si scambiarono una rapida occhiata furtiva, divertiti da quel teatro dell’assurdo che avevano involontariamente scatenato in un amen.

    Be’, comunque c’è da di’ che pe’ esse così fusi c’hanno una sorprendente autoironia, questi, chiosò Lele rivolgendosi a Rico.

    Vabbe’ rega’ noi se n’annamo, fate i bravi! urlò quasi Rico per farsi sentire in mezzo a quella confusione. I due salutarono con un vago cenno della testa e ripresero il passo, mentre gli sgangherati ululati del gruppetto si affievolivano alle loro spalle. Arrivati nei paraggi dei rispettivi palazzi si salutarono. Rico si infilò nel portone, salì le scale tre alla volta e quando aprì la porta di casa fu accarezzato da una suadente ondata di calore. Luciano, il padre, era allungato sul divano e smoccolava sommessamente contro la televisione accesa.

    Oh pa’, ma co’ chi ce l’hai?

    Ciao Ri’. Co’ ’sto coglione de presentatore ce l’ho. A me quelli che se credono simpatici me fanno sali’ il sangue alla testa.

    Be’ non è propriamente esatta la tua affermazione.

    Ah no? Vai figlio, spiegame tu allora.

    In realtà non è lui che se crede simpatico de suo: è la gente che gliel’ha fatto sempre crede. E lui mo’ è convinto de esselo veramente. In fondo è un po’ come nella vita di tutti i giorni, no? Ognuno c’ha l’amico che pensa d’esse simpatico e invece è un deficiente. Solo che per educazione nessuno glielo dice, anzi magari quando fa le sue battute idiote gli artri ce se fanno ’na risatina de circostanza pe’ non esse scortesi. Allora lui, siccome è deficiente, rafforza dentro di sé la convinzione d’esse divertente e continua a spara’ cazzate sicuro de fa’ ride. Siamo noi a creare questi mostri. Ce vorrebbe semplicemente qualcuno che je facesse nota’ che non fa’ ride manco pe’ niente, solo che a quel punto poi il rischio è de passa’ pe’ maleducati. Nel caso de questi in tv, poi, la questione sarebbe ancora più delicata. Insomma, è ’n circolo vizioso. Pe’ di’, Aristotele, in tempi non sospetti, diceva che…

    Oh vabbè vabbè Rico, ho capito, placate. Stai a fa’ un minestrone. L’amicizia, poi. Su quella ’na cosa te la posso di’ io: non è vera quella cazzata che col tempo te restano solo gli amici veri. Col tempo, te restano solo quelli che ancora te sopportano. Scrivitela questa, che poi la mettemo dentro i biscottini cinesi.

    A pa’, quelli se chiamano biscottini della felicità, no dell’angoscia e dello sconforto.

    Piuttosto, tu’ nonno s’è chiuso in bagno ’n’artra volta. Dice che vòle parla’ solo co’ te. Non c’è modo di tirargli fuori una parola. Va’ a senti’ che je frulla pe’ la testa, va’.

    Ma che davero? Ancora?

    Eh. Ancora.

    Rico si levò il giubbetto sbuffando, lo posò sul divano, attraversò il corridoio e, prima di raggiungere il bagno, si affacciò brevemente in cucina.

    Ciao ma’.

    Ciao Ri’.

    Che fai?

    Sfiletto ’ste cose, che tuo padre stasera vuole fare le trofie fiori di zucca, pecorino e alici. Solo che lui pensa d’esse capo chef e che io so’ una della brigata. Adesso mi sente. Anzi, che sta facendo?

    È di là che inveisce contro la televisione.

    "Oh c’ha cinquecento canali a disposizione, però quando torna deve sempre vedersi quei quiz idioti. Ieri un concorrente ha detto che i Rolling Stones hanno scritto Satisfaction nel 1998. A momenti butta il televisore di sotto."

    Eh, se diverte così, gode quando sente certi sfondoni. È una specie di contorta riappropriazione di autostima.

    Te l’ha detto di nonno?

    Sì sì, sto andando. S’è capito che c’ha? Non je so’ bastate le cazzate che ha fatto fino a mo’?

    Evidentemente no. C’ha che gli sta partendo la testa, Rico, che c’ha? Ormai è evidente. È entrato come una furia e si è andato subito a rinchiudere lì dentro. Mettici pure che mezzo matto lo è sempre stato, ed ecco che tutto torna.

    Famme anna’ a vede’ va’.

    Rico si voltò e, percorrendo la restante parte di corridoio, si diresse rapidamente verso il bagno. Provò a entrare, giusto per fare un tentativo, ma la porta era chiusa dall’interno. Bussò con fermezza.

    Nonno. No’. Nonnooo!

    A Ri’ ma che te urli? Mica so’ sordo.

    E allora rispondi, no? Perché te sei barricato, a ’sto giro?

    Ecco vedi, già sei partito male. Perché a ’sto giro? Sarà al massimo la seconda volta. Mica sto a fa’ le Cinque Giornate, eh? La tua ironia è fuori luogo.

    Okay aspe’ ricomincio: a no’ perché te sei barricato?

    Ecco, adesso invece mi stai trattando come un bambino. Co’ quel tono come per assecondarmi.

    Aspe’ no’ eh. Mo’ te lo dico giusto: a nonnooooo, ma che stai a fa’ lì dentro?

    Dal salotto arrivò quasi in simultanea il vocione di Luciano: Ricooo! Ma che te urli?

    Rico si girò di scatto e gridò a sua volta verso il salotto: Papà guardate quel deficiente tu! Oppure vie’ di qua e stanalo te!

    No ma de che! Giornataccia Rico, so’ stanco. E poi c’è uno che ha appena detto che l’Everest è in Svizzera! Stanalo tu, usa i lacrimogeni se necessario. Ti accordo il permesso.

    Rico respirò profondamente per qualche secondo, si schiarì la gola con un colpetto di tosse e, stavolta con tono più accomodante, ripartì alla carica.

    Nonno, mi dici perché non vuoi uscire? Parliamone, spiegamelo per favore.

    Ci furono alcuni istanti di silenzio, poi da dietro la porta arrivò un sussurro appena udibile.

    Perché quello stronzo mi vuole frega’ la fidanzata…

    Che hai detto? Rico sperava ardentemente di aver capito male.

    Ho detto che Ermanno mi vuole frega’ la donna.

    Ma chi, no’? Ermanno quello delle bocce?

    Quello, sì. Le bocce in testa ce l’ha però. Per la precisione quelle di Martina.

    Rico cominciò a perdere il filo del discorso.

    E Martina chi è, no’?

    È la barista del baretto delle bocce. La devi vedere Rico, mi pare la Venere di Balotelli…

    Sì no’, de Sergio Ramos.

    De chi?

    Niente, no’, niente. Annamo avanti. E quindi?

    E quindi ’sto infame sta sempre a fa’ il cascamorto con Martina, mentre è evidente che lei preferisce me.

    E da che lo deduci?

    Non deduco niente Rico, lo so e basta. Ermanno c’ha quasi ottantasette anni, è un vecchiaccio e pure brutto. Io ce n’ho ottantuno e modestamente sono ancora un bell’uomo. Secondo te, chi sceglie?

    Nessuno dei due, no’, vai tranquillo. Che poi scusa, ma quant’anni c’ha ’sta Martina?

    Ma che ne so, Rico. È una pischella, ce n’avrà una quarantina…

    Azzo no’, ’na pischella proprio. De primo pelo. Vabbè, e quindi?

    Quindi ’sto coso brutto m’ha fatto gira’ le scatole e gli ho tirato una boccia sul piede. Ora mi sa che sta al Pronto Soccorso con la figlia. C’ho paura che mi vengono a stana’. So’ braccato, Rico.

    No’ ma allora sei completamente matto. Come, sta al Pronto Soccorso?

    Eh, mi sa…

    Apri ’sta cazzo di porta no’, e vai subito a telefonare al circolo per chiedere se sanno qualcosa. Dije che la boccia ti è scappata di mano, inventate qualcosa.

    Dici Ri’? Dici che la sfango? Ci stanno un sacco di testimoni.

    A no’, non hai rapinato ’na banca. Chiamalo, oppure vallo a cerca’ e se sta co’ la fija je dici che stavate discutendo e per la debolezza t’è cascata la boccia de mano.

    Ma quale debolezza, Rico! So’ ’n toro!

    No’, allora fa’ un po’ come te pare. Vatte a costitui’ e fatte manna’ a spacca’ le pietre.

    No fermati oh, vado. Gli parlo, ci discuto. Basta che non rirompe le palle a Martina sennò la boccia a ’sto giro gliela tiro in fr…

    Nonnooooo! Esci da qua, cammina!

    I genitori di Rico, sentendo quel fracasso, si precipitarono anche loro davanti alla porta chiusa. Quell’anziano adolescente sbullonato che si chiudeva in bagno quando aveva i suoi scazzi stava diventando un problema serio. Ultimamente, poi, aveva dato segnali assai poco rassicuranti. Il nonno smanettò un po’ con la chiave, aprì e uscì a testa bassa. Passò attraverso l’improvvisato plotone di esecuzione composto da figlio, nuora e nipote, percorse il corridoio con un’aria tra il preoccupato e lo psicotico, riprese dall’appendiabiti cappello e cappotto e si avviò verso l’uscita, seguito dallo sguardo perplesso della sua famiglia. Prima di uscire si girò, cercò lo sguardo di Rico e, portandosi la mano di taglio all’altezza della gola, sibilò: Comunque, Ermanno io lo secco…

    2

    Dopo cena, Rico transitò una mezz’ora in salotto e poi se ne andò in camera sua. Si sdraiò sul letto e, come spesso gli capitava, cominciò a navigare a vista tra i suoi pensieri. Aveva ventitré anni e una laurea in filosofia quasi in tasca.

    Probabilmente a livello professionale gli sarebbe stata utile tanto quanto è utile un secchio sfondato. Lui questo lo sapeva, ma non gli interessava. Adorava perdersi tra i rivoli contorti di quelle acque così limpide e cristalline, e qualcosa per campare si sarebbe inventato. Aveva amici con cui divertirsi, fare casino e cazzeggiare. Aveva un discreto successo con le ragazze. E aveva anche una famiglia con cui stava bene. Francesca: una madre dolce, paziente e intelligente, ex giocatrice di volley di buon livello e ora impiegata part-time in un’azienda di ceramiche; Luciano: un padre premuroso, arguto e disincantato ai limiti del cinismo, una gioventù da dj radiofonico semiprofessionista e una serena mezza età da rappresentante di elettrodomestici; e poi c’era anche una sorellina, che non gli era stato possibile conoscere, ma che, stranamente, sentiva vicina come nessun altro. Nemmeno lui, a volte, sapeva spiegarsi bene perché. L’unica cosa che aveva di lei era l’immagine stropicciata di una vecchia ecografia, in fondo a uno dei suoi cassetti. Non la tirava mai fuori però, gli faceva troppo male.

    Nove anni dopo la sua nascita, Francesca era rimasta di nuovo incinta. Rico ricordava perfettamente i suoi genitori in quei mesi. Erano, semplicemente, due esseri umani felici. Aveva ancora chiaro in mente lo scintillio nei loro occhi, che si mischiava con la calda, amorevole luce dei pomeriggi di tarda primavera che filtrava pigramente dalle persiane socchiuse.

    Per tanto tempo avevano provato, inutilmente, a dargli una piccola e paffuta compagnia. D’altra parte, lui l’aveva reclamata testardamente, e il giorno che lo avevano messo seduto sul tavolo della cucina per dargli la notizia la sua emozione era stata quasi stordente.

    Quando poi aveva saputo che sarebbe stata una femminuccia il suo entusiasmo era aumentato ancora, perché sarebbe rimasto l’unico ometto di casa e avrebbe avuto una sorellina da accudire e da proteggere. L’avrebbero chiamata Anna. Un nome semplice, pulito, che aveva scelto lui. Pochi giorni prima del parto, previsto per la fine di giugno, una mattina sua madre era andata in ospedale per uno degli ultimi controlli di routine.

    Il ginecologo si era accorto subito che qualcosa non quadrava. Non sentiva il battito. Francesca era stata immediatamente accompagnata in sala parto, senza nemmeno avere il tempo di avvisare qualcuno. L’avevano operata d’urgenza: il cordone ombelicale si era stretto attorno al collo del feto probabilmente la sera prima, impedendogli di respirare. I medici non avevano potuto fare altro che constatare il decesso della bambina, come dicono loro con quel linguaggio freddo e affilato quanto la lama di un bisturi.

    Tutto quello che era seguito Rico lo ricordava con una spinosa, ispida vividezza che ancora gli metteva i brividi. Quando avevano chiamato suo padre dall’ospedale, Rico era con lui. La scuola era finita, e Luciano quel venerdì non aveva impegni, così avevano deciso di andare insieme al parco, dove c’era un mercatino di libri e fumetti usati.

    La mattinata era chiara, sgargiante, prepotentemente bella. Il parco era un turbinio di bambini in movimento, che galleggiavano lievi sull’impagabile prospettiva di avere davanti a sé tre mesi di vacanza. Sotto un sole formato beatitudine, si respirava pura, innocente energia cinetica.

    Quel giorno Francesca aveva insistito per andare in ospedale da sola: erano trecento metri, aveva detto, cammino un po’ che mi fa anche bene.

    Era un semplice check come ne aveva fatti tanti. Nel momento in cui il cellulare di Luciano era squillato, i due stavano sfogliando un vecchio numero americano di Rolling Stone con Madonna in copertina. Suo padre aveva risposto, ma non aveva detto una sola parola per un minuto buono. Poi aveva riattaccato. Ed era diventato bianco come la luna in quelle sere d’estate in cui sembra che le abbiano appena dato una mano di vernice. Aveva preso con forza Rico in braccio e aveva cominciato a correre silenziosamente verso l’uscita del parco.

    Le guance di padre e figlio, in quel furioso precipitarsi verso la disperazione, erano incollate. Quelle di Rico avevano cominciato a essere inondate di uno strano liquido caldo, che scendendo velocemente gli era arrivato fino agli angoli della bocca, dove ne aveva percepito il sapore intenso, salato. Lui all’inizio non aveva capito cosa fosse, poi aveva scostato per un istante il suo viso da quello del padre e aveva visto che Luciano stava piangendo senza sosta.

    Un’ininterrotta cascata di lacrime, che si incuneava rapida nelle sue prime, impercettibili rughe per andargli a morire nell’incavo del collo. Non lo aveva mai visto piangere, pensava che non ne fosse nemmeno capace.

    Arrivati al parcheggio, erano saliti in auto e partiti in un lampo, sgommando e alzando polvere. Rico non aveva avuto il coraggio di chiedere al padre né cosa fosse successo né dove stessero andando con tutta quella fretta. Qualcosa però aveva intuito, e, anche se sperava con tutto il cuore di sbagliarsi, sapeva che non era così.

    E infatti, così non era. Quello che era seguito era stato un buio pesto e cattivo. Un lungo, freddo inverno nucleare a cui, mesi dopo, era subentrata una nebbia fitta e infida.

    Quel sole, quel sole così fraterno e incantato che aveva avvolto le giornate del loro ultimo maggio non sarebbe più tornato.

    Con il tempo il dolore sarebbe stato lenito dalla quotidianità, dalle inevitabili rotture di tutti i giorni. Forse anche da una nuova, rabberciata forma di serenità. Ma quei mesi erano stati il primo indelebile marchio a fuoco che la vita aveva impresso sulla pelle di Rico.

    I genitori, nel frattempo, avevano continuato ad amarlo quanto e più di prima, ma in loro, e anche in lui, qualcosa si era rotto per sempre. Rico adorava la sua famiglia, e, strano a dirsi, adorava anche Anna, nonostante non l’avesse conosciuta se non nella sua testa. Anche quella sera di dicembre. Anche in quel preciso istante, steso sul suo letto a rincorrere pensieri che schizzavano come palline di un flipper. Nonostante questa ferita, che continuava a sanguinargli dentro, aveva molto. E lo sapeva. O, almeno, aveva tutto quello che può bastare per andare a dormire senza paura di svegliarsi sudati nel cuore della notte per rincorrere preoccupazioni e pensieri negativi.

    In fondo, era giusto così. In fondo, era solo un ragazzo di ventitré anni. Eppure, conviveva da tempo con un’inquietudine acuta, sottile, che tentava di addomesticare con l’intento di farla placidamente addormentare ai piedi del suo letto, come fosse un gatto un po’ invadente ma tutto sommato di piacevole compagnia.

    A volte ci riusciva, ma tante altre volte no.

    Quel paesone smunto e scolorito lo stritolava, quel cemento color grigio topo sembrava poggiare tutto sulle sue spalle, schiacciandolo e togliendogli il fiato. Finito il liceo aveva deciso di restare lì, tanto Roma e l’università erano a due passi. Ma ci aveva messo molto poco a pentirsi della sua decisione, perché in due passi può essere rinchiusa tutta la differenza del mondo. In pochi chilometri di rotaie e di autostrada possono transitare non solo treni e automobili, ma anni, secoli di distanza.

    Nella sua testa esisteva tutto un mondo ideale, che era la precisa, perfetta antitesi di Ponteferro. Un mondo che era lì fuori, da qualche parte. Anche quella sera, però, dopo tanto vagare, la nave che veleggiava tra le sue sinapsi tornò placidamente in rada.

    Rico riaprì gli occhi, si infilò le cuffie e fece partire una vecchia compilation della Sarah Records che gli aveva consigliato Lele.

    E quando gli Another Sunny Day attaccarono I’m in love with a girl who doesn’t not exist, quel fottuto pianeta, per un breve attimo, gli sembrò tornare perfettamente in asse. Tutto, tranne che per quello sbalestrato di suo nonno, satiro vendicatore solitario perso nelle spire brumose di una gelida notte di dicembre.

    3

    Lele salutò Rico e si infilò di corsa nel suo portone. Quell’androne maledetto era sempre freddo, così si strinse nel giubbetto e salì velocemente le rampe di scale fino al secondo piano. Aprì la porta di casa e si buttò subito dentro, ma la temperatura non cambiò poi di tanto. La caldaia era rotta da più di una settimana, e ancora non si era fatto vivo nessuno per aggiustarla. Non c’era un’anima, come sempre. Meglio così. Suo padre, c’era da scommetterci, stava bivaccando al bar Eden, dove in pratica aveva la residenza. Sua madre, probabilmente, era da qualche parrucchiere di quart’ordine o chissà dove a chattare e a farsi stupidi selfie da postare sui social. Suo fratello maggiore, invece, aveva preso da tempo l’unica decisione assennata che potesse prendere: preparare le valigie e andarsene a duemila chilometri da lì.

    Neanche quest’anno sarebbe tornato per Natale, ma

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