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Racconti inopinatamente decontestualizzati
Racconti inopinatamente decontestualizzati
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E-book245 pagine3 ore

Racconti inopinatamente decontestualizzati

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Info su questo ebook

Tredici racconti diversi tra loro per contesto storico e personaggi.
Così  fuori dal mondo da sembrare quasi veri.
Così possibili da sembrare fuori dal mondo attuale.
LinguaItaliano
EditoreEzio Boero
Data di uscita24 giu 2019
ISBN9788834144855
Racconti inopinatamente decontestualizzati

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    Anteprima del libro

    Racconti inopinatamente decontestualizzati - Ezio Boero

    FINALE

    CINQUE SETTIMANE ALLO SPLENDOR

    UNA FAVOLA DI PERIFERIA

    - Chio, la vuoi smettere con ‘sti rutti?

    - Ma dai! Cosa sono un po' di rutti? Lo sai che la Coca Cola fa ruttare, no!

    - E non berne, allora! E’ pure americana!

    - Madonna, Ana, sei proprio una scassapalle!

    - Sì, io! Solo Coca Cola vai a comprare. E quattro tramezzini in sei, per tutta la notte.

    - Ma Gio, arriva o no?

    - Zitti, fatemi un po' sentire la radio. Cazzo! Hanno sgombrato La vecchia talpa!

    - Quando?

    - Oggi pomeriggio.

    - Alza il volume.

    - Più di così non si può.

    - Senti, senti … ma questo che parla non è Russo?

    - Sì. E quest'altro sembra Di Noia.

    - Quegli stronzi di fasci erano lì allo sgombero!

    - Già! Chissà perché?

    - Provo a telefonare a Giovanni ... Ehi! Sono Ana, abbiamo sentito alla radio che hanno sgombrato la Talpa … Sì, due all'ospedale … Tu dove sei? … Io sono qui allo Splendor … Sì, stiamo attenti ... E tu, come stai? Ti hanno mica picchiato? Anzi, senti: perché non vieni qui?

    - Eeh! Basta con ‘sta lagna!

    - Digli che ti porti dei fiori.

    - No, qualche tramezzino.

    - Giovanni, ti devo lasciare … sì questi qui sono proprio stronzi. Non so come li abbia sopportati per tre settimane.

    - Ci vuol poco a sopportarci: se adesso eri da te, invece di occupare ‘sto rudere, ti toccava stirare le camicie di tutti i tuoi fratelli.

    - Si dice se tu fossi stata da te. Ma non li avete mai studiati i congiuntivi, cazzo!

    - A proposito, Ana, i tuoi non li usano i preservativi?

    - Sta’ zitto, stronzo.

    - Sì Chio, è meglio che tu stia zitto; che se viene uno dei suoi quattro fratelli ti fa nero.

    - A me, non mi fa nero nessuno: sono andato in palestra.

    - Sei andato due volte in palestra. E a fare yoga!

    - Solo perché il karate era di venerdì, che è il giorno che devo tenere il bambino di mia sorella.

    - Tua sorella non è separata?

    - Appunto! Il venerdì va in discoteca. Cerca l'uomo della sua vita.

    - Spero sia meglio di quello che l’ha mandata al pronto soccorso.

    - Cosa ne sai tu, Bugi? … Va’ un po' a vedere, che mi sembra di sentire una macchina ferma nella via col motore accesso.

    - Sempre io devo andar giù?

    - Mica hai le pantofole!

    La via della casa occupata scendeva dallo stradone, che correva lungo la periferia della città, verso il fiume da cui prendeva il nome, la Stura.

    Per un centinaio di metri la via esibiva, su entrambi i lati, alcuni capannoni industriali abbandonati. E in fondo stava La Splendor, una lastroferratura chiusa da quasi due anni.

    Il padre di Cesca aveva lavorato in quella fabbrica; e come lui un centinaio di operai.

    Uomini, ma anche una decina di donne.

    C’era stato un tempo in cui, alle sei del mattino, quella via brulicava di persone che scendevano dai palazzoni dell’INA-Casa ed imbucavano sonnolenti il primo turno.

    Poi il padrone della fabbrica si lanciò nella speculazione di borsa e, dopo pochi mesi, la borsa della spesa degli operai si fece più leggera.

    Cesca era proprio un bel tipo.

    Di quelli che, al mattino presto di una giornata di pioggia, salgono trafelati sul tram numero 10. Un sacchetto di plastica col pranzo appeso al braccio e l’ombrello sbrindellato di color verde pisello trattenuto al polso sinistro. I lunghi capelli bagnati che colano sul colletto del barbour di quarta mano comprato a Porta Palazzo, il maglione fatto in casa degli stessi colori della coperta della nonna e la sciarpa multicolore che rivendica la pace nel mondo.

    Di quelli che, beh, non li nota praticamente nessuno qualunque cosa si mettano addosso.

    E a lei piaceva fosse così. Si accomodava rapidamente nel soppalco finale del tram, sedeva nell’ultimo posto a sinistra, tirava fuori dalla borsa di similpelle un fumetto di seconda mano, a scelta tra Gea e Napoleone, e s’immergeva nella lettura fin giusto il tempo di scendere, poco prima che il tram s’arenasse alle mura di Mirafiori.

    Quelle stesse mura da cui per anni suo padre era uscito a fine turno, per finire poi risucchiato nel gorgo degli esuberi e riemergere, dopo occasionali attività di fabbro e di decoratore, come operaio di una lastroferratura senza futuro, che l’aveva accompagnato al pensionamento anticipato.

    Fu in quell’anno che Cesca colse, per meglio dire dovette cogliere, l’opportunità di un gratificante lavoro di aiuto-pettinatrice in una bottega del centro città, a stretto contatto con signore petulanti che ti chiedono le tinte estrose che hanno visto per televisione. Quelle che ti fanno una donna nuova se sei una cliente, e ti lasciano le mani piagate, se sei una ragazza di bottega.

    Per assecondare questa sua improvvisa vocazione alla pettinatura dei capelli Cesca non ebbe alcuna remora a lasciare gli studi. Tanto non era nemmeno la prima della classe e, come cercava di convincersi, oggi il pezzo di carta non serve più come una volta, ma un bel mestiere, sì, ché ti dà un futuro di mariti, mutui della casa, mobili a rate e tante altre emme ancora.

    Cesca era una di loro.

    E loro stavano nella casetta che era stata la residenza del guardiano notturno della fabbrica. Ed anche, per un breve periodo, l’asilo aziendale della Splendor. Ottenuto a suon di scioperi.

    Una casetta arroccata al muro della fabbrica e affacciata da un lato sull’ampio cortile delle defunte lavorazioni, dall’altro sulla via Stura.

    - Bugi, vedi qualcosa?

    - Cosa vuoi che veda? E’ praticamente cieco.

    - Allora ha sbagliato centro sociale: doveva andare alla Vecchia talpa!

    - Ragazzi, c'è Alì con Gio.

    - Ehi Alì, benarrivato! Ce l'hai mica una birra?

    - Sai che non bevo birra!

    - Madonna, che bacchettone che sei! C'eravamo appena levati i nostri preti dalle palle e arrivate voi con tutte ‘ste preghiere e precetti.

    - Chio, non scassar le palle ad Alì.

    - Hai mica un debole per lui?

    - Meglio lui che te, comunque.

    - Dai Cesca, non t'incazzare!

    - Ragazzi, ho visto a casa alla tele che oggi hanno sgombrato La talpa.

    - Sì, l'abbiamo sentito alla radio.

    - E hanno intervistato pure dei cosiddetti cittadini, che poi erano i ben noti fasci …

    - Se la polizia viene qui, mi ritira il permesso di soggiorno.

    - Sta’ tranquillo, Alì. Qui non vengono!

    - E i fasci?

    - Quelli sono venuti solo la scorsa settimana, di notte, quando hanno cercato di bruciare la bandiera. Ma non hanno coraggio di venire quando ci siamo tutti.

    - Ragazzi, attenti: un mio amico è detto …

    - Ha detto, Alì, impara ‘sta lingua!

    - ... Ha detto che ieri sera c'era una riunione alla sede dei neri. Ne ha visti tanti, una ventina.

    - E’ mica Ahmed?

    - Sì, è lui.

    - Ma quello beve come una spugna! E’ capace che ha visto l’ufficio parrocchiale. Non la sede dei fasci.

    - Ahmed ha una buona vista.

    - Sì, ma è il cervello che non raccoglie tanto!

    - Beh, io vado.

    Tron, che cos’hai? E’ tutta la sera che non parli!

    - Ho un po’ di nausea. Quel tramezzino non sembrava tanto fresco. Non mi sento mica bene.

    - Aspetta che ti sento la febbre.

    - Ana, potresti fare l'infermiera!

    - Sei caldo!

    - Meglio se vai a casa; ti accompagno.

    - Volete che vi accompagni?

    - Uau, Tron, fanno di tutto per stare con te!

    - Zitti scemi, che Tron sta davvero male!

    - Luci, vuoi che venga anch'io?

    - Grazie, Alì, ma è vicino.

    - Già di ritorno, Luci?

    - Piove parecchio, dammi l'ombrello.

    - Poi ripòrtalo. che è l'unico che abbiamo!

    - C’è mica qualcosa da mangiare?

    - Alì, che cazzo sei venuto a fare qui in Italia? Non hai da mangiare, lavori come un mulo e qualche volta non ti pagano nemmeno.

    - Qui guadagno molto di più che in Marocco e con questi soldi mia madre mantiene anche i miei fratelli e il nonno.

    - Adesso dove sgobbi?

    - Sgobbi?

    - Lavori, sarebbe.

    - In un cantiere in collina. Faccio dieci ore e mi danno venti euro per le prime otto ore e otto euro per le altre due.

    - Però! Un salario da nababbi!

    - Niente busta paga?

    - Cosa vuoi dire?

    - Contratto, per iscritto, contributi per la pensione.

    - Che contributi! Sono in nero!

    - Quanti siete lì, nel cantiere?

    - Beh! Oltre al capo, ci sono due albanesi, io e Joseph.

    - Ah, Joseph. Ha una forza! Ha portato la stufa come niente fosse su per queste scale.

    - Cesca, hai qui il meglio della barriera e guardi il senegalese!

    - Sì, ma hai visto che muscoli ha, in confronto a voi?

    - Cesca, noi siamo intellettuali.

    - Chi intellettuale?

    - Ah scusa, Chio. Mi scordavo della classe operaia.

    - Non solo tu, te la scordi.

    - Chio, non t'hanno ancora buttato fuori dal lavoro?

    - Perché?

    - Son più i giorni che non vai che quelli che ti presenti.

    - Cazzo dici! Non è vero!

    - Ma se quando siamo qui e ce ne andiamo al mattino tu sei ancora nel sacco a pelo.

    - Entro alle 10.

    - Cosa fai? Il primo turno e mezzo?

    - Chio, dov’è ‘sta fabbrica?

    - E’ verso Collegno.

    - E cosa fa?

    - Scatole.

    - Ah!

    - Sentite, io ho una fame che non ci vedo più.

    - Non c’è quasi più niente.

    - Gio, vai a casa e portaci un po' di roba da mangiare. Te ne prego, ti do un bacio.

    - Mi ero quasi deciso, Chio, ma con la prospettiva del tuo bacio non mi muovo di qua.

    - Se te lo chiedeva Ana ci andavi, no?

    - Ma sta’ zitto!

    - Gio, mi accompagni sotto?

    - Uau!

    - Vengo, Ana. Zitti, coglioni!

    - Gio?

    - Sì.

    - E’ un po’ che ci conosciamo.

    - Beh, saranno tre mesi.

    - Ti posso chiedere una cosa?

    - Dimmi.

    - Perché non mi hai mai chiesto …?

    - Cosa?

    - Di, beh … scopare.

    - Ana?

    - Sì.

    - Mamma mia se sei volgare!

    - Volgare? Come avresti detto tu?

    - Avere un rapporto, si dice.

    - Va beh! Perché non abbiamo mai avuto un rapporto?

    - Non so.

    - Beh! Ci sarà pure una ragione! L'altra notte sono entrata sotto la trapunta, vicino a te. E tu dopo due baci sei rimasto lì, come un baccalà.

    - Non sono mica Chio, io!

    - Perché Chio?

    - Ho visto che ti …

    - Che mi … cosa?

    - Che ti sta dietro.

    - Ma quando mai!

    - Domenica, dopo la festa.

    - Ma guarda che no. Tu t'eri fatto una canna …

    - Sì, ma l'ho visto che ti stava addosso.

    - S’era bevuto tre Ceres e mi sì è appiccicato … Ma l’ho mandato subito a cagare.

    - Ah!

    - Senti, ho freddo; stringimi un po’.

    - Torniamo su, Ana.

    - Gio, dammi un bacio.

    - Va beh!

    - Alì, cosa facevi in Marocco?

    - Quello che faccio qui.

    - Mangiare i cetriolini sottaceto? Làsciane qualcuno, che il barattolo sta finendo!

    - No, facevo il muratore, e anche il barbiere.

    - Il barbiere?

    - Sì, nella bottega di mio padre, a Marrakech.

    - Anche mio padre faceva il barbiere.

    - Ma dormi, Bugi; tuo padre fa il rappresentante di biancheria.

    - Prima. Prima di conoscere mia madre.

    - Ah!

    - Dove?

    - A Napoli, anzi a Fuorigrotta.

    - Ma, Bugi ... Bugi?

    - Madonna! Ha l'addormentamento rapido!

    - E’ meglio che dormiamo anche noi, ché domani devo andare a lavorare.

    - A Collegno?

    - Sì.

    - A fare le scatole?

    - Sì.

    Il sole sbucava dalla collina, attraversava la Stura e arrossava il viso di Ernesto Che Guevara incollato al vetro rotto della finestra.

    Aveva freddo anche lui: il basco in testa e le spalle un po’ curve, ma lo sguardo era quello di sempre, intenso e fiero.

    Li osservava nei loro primi incerti movimenti mattutini, scendere le scale per avviarsi al tran-tran quotidiano.

    La piccola casa aveva due piani.

    Sotto, la cucina d'un tempo; oggi senza forno, senza stoviglie, senza cibo, era diventata il ripostiglio delle bici e la sala musica acustica, cioè un palco di assi malferme.

    Sopra, tre camerette arredate con brande d'accatto, un tavolo, un fornelletto e una dispensa che serviva a tenere chiuse le ragnatele.

    E due poltrone rattoppate, recuperate dalla cantina di Cesca.

    Il bagno funzionava, ché l'acqua non l'avevano tagliata.

    La luce no, non c’era. S'andava avanti a candele, finché l'ultimo si dimenticava di accenderne un’altra.

    Due piani di centro sociale senza grandi pretese, che nel cambio di destinazione, da dépendance della fabbrica dismessa, aveva cambiato anche il genere: se prima era femminile, la lastroferratura, ora era maschile.

    Non sempre dormivano allo Splendor: le loro case erano a cinquecento metri.

    Alte otto piani, le sei case della borgata erano squadrate di brutto, senza fronzoli architettonici, tinte di colori ch’erano stati vivaci trent’anni prima.

    Ognuna di esse di un colore diverso, che ne era diventato il segno distintivo, d’appartenenza, che ricorreva nei discorsi quotidiani: ci vediamo alle case rosse; oppure ieri sera è venuta la polizia alle gialle.

    Chio era l’unico di loro che veniva dai casoni oltre il corso e ormai dormiva sempre allo Splendor, salvo il venerdì.

    Era il più anziano di loro: aveva ventuno anni.

    Il ricordo del padre, morto in un incidente sul lavoro quando lui andava alle medie, se lo portava dietro nel modo in cui la gente lo chiamava: Chio derivava non dal nome proprio, che era Gianni, ma dal cognome, Chiodo.

    Sua sorella aveva sposato proprio un buon partito: un elettricista che le aveva fatto girare le valvole per due anni e poi s’era sistemato a casa di una cliente. Per sua fortuna: aveva perso chi cambiava le lampadine in casa ma anche chi periodicamente le cambiava i connotati.

    La madre di Chio invece non aveva voluto cambiar niente: nel bagno c’era ancora il rasoio del padre, nell’armadio i due vestiti di gabardine di lui per le grandi occasioni.

    Gianni era cresciuto nella piazzetta delle case INA ed aveva imparato a farsi valere. Aveva un certo nome nel borgo.

    S’era pure guadagnato l’onore della pagina cittadina de La Stampa, aiutando una vecchietta ad abbandonare l’appartamento dov’era scoppiato il televisore e già bruciavano le tende della stanza.

    Pareva scorbutico, ma era generoso.

    O forse era generoso per farsi perdonare di essere scorbutico.

    - Gio, ho freddo.

    - Anch'io.

    - Vieni più vicino.

    - Cazzo, voi due! Non si può dormire qui! Vado a pisciare.

    - Falla dentro il water!

    - Che ore sono?

    - Le sette.

    - Merda, le sette! Devo alzarmi.

    - Bugi, fai il caffè dato che ti alzi.

    - Avete comprato la bomboletta per il fornellino?

    - Non doveva comprarla Luci?

    - Sì, ma qui quella nuova non c’è.

    - Zitti che voglio dormire ancora un po'.

    - Chio, sveglia. Ti aspettano le scatole.

    - Caffè, caffè per tutti.

    - La tazza l'hai lavata?

    - No.

    - Ma ieri sera Chio ci ha bevuto la grappa.

    - Beh, di che ti lamenti. Così è caffè corretto.

    Il primo a uscire dallo Splendor fu Bugi, Burgio Walter ai sensi dell’appello scolastico.

    Si stava diplomando perito di non sapeva che cosa nella scuola riferimento del quartiere, quella che aveva sfornato per anni centinaia di allievi Fiat ed oggi decine e decine di disoccupati.

    Bugi aveva ottimi voti a scuola, se li si sommava due a due.

    Non che fosse poco intelligente, ma non sopportava la disciplina, l’essere comandato a fare qualcosa.

    Aveva però una grande predisposizione nel rimettere a posto le cose rotte.

    Sua madre sapeva come prenderlo: quando in casa c’era qualche piccolo elettrodomestico mal funzionante, l’esperienza le aveva insegnato di non chiederglielo esplicitamente. Lasciava l’oggetto lì, sul tavolo, in bella vista. Col pezzo rotto abbandonato accanto.

    E l’indomani

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