Tra le pieghe del mantello
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Anteprima del libro
Tra le pieghe del mantello - Anna Vittoria Macchi
Indice
Prefazione a Tra le pieghe del mantello
TRA LE PIEGHE DEL MANTELLO
IN CAMMINO
CON I SANDALI AI PIEDI
SULLE SPALLE IL NECESSARIO
LUNGO IL SENTIERO
APPUNTI DI VIAGGIO
L’ESPERIENZA IN AIUTO
LO SGUARDO ALTO VERSO L’ORIZZONTE
NELL’APPRODO
QUALCHE CONSIDERAZIONE
RINGRAZIAMENTI
Titolo | Tra le pieghe del mantello
Autore | Anna Vittoria Macchi
Sito: https://psicosalutemacchi.it/
Facebook: Dott.ssa Anna Macchi - Psicoterapeuta
Email: macchianna2012@libero.it
ISBN | 9788831620154
Prima edizione digitale: 2019
© Tutti i diritti riservati all'Autore.
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Anna Vittoria Macchi
Tra le pieghe
del mantello
vite,destini,trasformazioni
Youcanprint Self-Publishing
Prefazione a Tra le pieghe del mantello
Leggere questo libro di Anna Macchi significa contemporaneamente attraversare una raccolta di racconti, un saggio pedagogico e un diario professionale ed esistenziale. E credo che questa scelta di registro narrativo (posto all’incrocio di strade e contaminazioni di stili) possa essere particolarmente efficace per veicolare una testimonianza che diventa sollecitazione indirizzata a chi cura e a chi alle cure si rivolge. Un modo di parlare contemporaneamente a più livelli e di raggiungere così sensibilità diverse. Un messaggio, quello di Anna Macchi, particolarmente urgente e importante nel tempo attuale. Vediamo perché.
Il nostro è un tempo lontano dal vissuto del morire. Non dalla rappresentazione della morte, che anzi è messa quotidianamente in scena fino a risultare o-scena. L’effetto dell’esposizione mediatica alla morte, e spesso alla morte violenta, è una desensibilizzazione: questo continuo incalzare produce torpore, distanza emotiva, anestesia. Marshall McLuhan, psicoanalista canadese creatore del concetto oggi così noto di villaggio globale, sin dagli anni ‘60 del secolo scorso ci ha insegnato che ogni tecnica potenzia un organo, e allo stesso tempo lo indebolisce. La selce prima e il coltello poi hanno potenziato i denti ma, da quando l’uomo usa questi strumenti, i denti, meno utilizzati, si sono indeboliti. La ruota potenzia le gambe, ma usando le ruote queste si indeboliscono. I mass media (al tempo in cui McLuhan scriveva, erano la radio e la televisione, oggi esplosi con internet e i social media) potenziano il sistema nervoso sensoriale e usandoli lo indeboliscono. Qual è l’effetto di indebolimento di questo potenziamento della sensorialità? L’effetto è la narcosi (peraltro, nota McLuhan, si tratta della stessa radice etimologica di narcisismo). Siamo culturalmente narcotizzati. In particolare davanti al dolore e alla morte la nostra sensibilità è ottusa e tendiamo a vivere la vita come se potesse essere emendata da questi due inciampi che vanno (e quindi possono essere) evitati. Ma escludere la percezione del dolore e della morte dalla vita significa non potersi preparare a viverle, ed essendo essi inestricabilmente parte viva della vita, significa vivere vite mutilate. In anestesia, appunto. E allora, operiamo una serie di funzionali strategie di allontanamento, distanziamento, segregazione per continuare a non sentire ciò che non siamo preparati a sentire. Viviamo così una società che fa del benessere il bene supremo, in una fuga continua dal malessere. Ma questa stessa fuga è la radice dello star male della contemporaneità il cui nucleo, a ben vedere, è una perdita di presenza. Dovremmo forse tendere a essere presenti alla vita, che comporta anche il dolore e la perdita, non al benessere
. In questa temperie epocale si collocano anche le cure, anche la medicina. Il tema non è scientifico, ovviamente, ma sociologico: la medicina è rappresentata come il tempio della guarigione, ogni giorno i rotocalchi trionfalmente comunicano nuovi traguardi raggiunti, dimenticando l’adagio ippocratico che medicus curat, natura sanat. Non sto negando i progressi della medicina, notevolissimi e che hanno cambiato, e cambiano, la durata e soprattutto la qualità della vita. Sto cercando di mettere in luce la negazione del limite che culturalmente ci impregna e che contamina anche la percezione sociale della medicina e l’operare stesso di chi delle cure si occupa. Il limen che non può essere e-liminato, messo oltre la soglia (limen) della nostra vita, è proprio la morte. Che posto occupa la morte nella medicina di oggi? Spesso, un non-luogo dove il medico, e chi cura, non entra. Nemmeno guarda. Un effetto della follia che separa la vita dalla morte, come se questa non fosse la compagna più vicina e saggia di ogni nostro giorno. La testimonianza di Anna Macchi è preziosa e si inserisce in una prospettiva culturale, di cui Cicely Saunders è stata pioniera, che invece capovolge l’assunto e porta la cura fino alla morte, e oltre. Sì, oltre: perché non si può vivere la morte senza che vi sia un dopo, un lascito, una memoria, una trasformazione ulteriore. E non mi riferisco a orizzonti religiosi, che pur sono fondamentali in questo discorso, mi fermo a una semplice osservazione esistenziale. Lasciare è una parola che indica sia il distaccarsi sia il consegnare, il dare un lascito: morire è lasciare nel doppio senso di andare e di consegnare. La cura sostiene quindi un arco temporale che comprende un avvicinamento alla morte, un momento di distacco, un tempo di silenzio e poi un tempo successivo, un tempo della narrazione che rimette in vita. Ma il nostro tempo non ha rituali per questo, o certo non sufficienti. Un rituale è un tempo e un luogo che offre una forma sociale pre-parata, cioè pronta in anticipo, per accogliere ed esprimere i vissuti individuali, in modo che siano condivisi: la morte non è una faccenda privata. Lo slogan narcisistico Si nasce e si muore soli
è falso: nasciamo tutti con una madre che nasce con noi e moriamo più o meno soli, dipende. E questo fa la differenza. E questo è il fulcro dell’immenso valore di luoghi e tempi per vivere la fine della vita, dell’immenso valore della testimonianza di Anna Macchi e di luoghi come gli hospices. In tempi di efficienza tecnica e di narcisismo osceno, quale valore ha l’atto umilissimo di porre un mantello (pallium) sulle spalle di chi soffre? Il lutto non è una faccenda privata: cambia il tessuto del mondo, tutti i legami si devono trasformare attraverso la morte. Riusciamo a farlo? Dipende dal sostegno relazionale su cui possiamo contare, perché come abbiamo visto andarsene significa lasciare: separarsi da qualcuno e dare qualcosa a qualcuno. E così anche restare è un atto bifronte: significa separarsi, ma anche custodire. Soffrire la perdita vuol dire provare dolore, ma soffrire vuol dire, etimologicamente, portare. Per separarsi occorre assimilare per tenere vivo, rendere vivo di nuovo, ogni giorno, ri-cordare, cioè rimettere nel cuore. Chi ci insegna questo? Le parole degli anziani derubate di ogni orecchio e dignità? Siamo per lo più soli in questo, o se non lo siamo è perché abbiamo costruito appartenenze e identificazioni che non ci sono date scontatamente nel nostro contesto: e noi clinici dell’anima incontriamo ogni giorno infiniti grumi di lutti mai elaborati che diventano anestesia, disturbo somatico, insofferenza, insoddisfazione o infelicità. Il mantello posto umilmente sulle spalle di chi soffre lenisce il dolore, ma facendo questo produce un altro effetto (invisibile all’occhio tecnico) di somma importanza: cura la solitudine del soffrire, che spesso è la sofferenza più grande. Ma fa ancora di più: crea una radura intima e sociale, dove anche i familiari apprendono che è possibile esserci nella situazione in cui la vita sta per finire. Che questo non è uno scandalo, se non per noi che segreghiamo la morte fuori dalla soglia della vita, ma un evento normale e naturale che ci attraversa tutti, e che ci rende fratelli nel destino. Siamo attoniti davanti alla morte come se fosse un fatto increscioso che non dovrebbe accadere, e perdiamo di vista che è un prezioso passaggio di consegna, di costruzione di senso, di attraversamento, di trasformazione. La soglia della morte è il luogo per eccellenza di trasformazione del dolore in bellezza. Ecco il senso della pace che giunge alla fine, e dei fiori, colorati e profumati, che sono testimonianza della bellezza emergente, a volte traboccante, di una vita compiuta e del lascito imperituro che ne deriva.
Una poesia di Mariangela Gualtieri è evocativa di questa trasformazione (Bestia di gioia, Gualtieri; Einaudi, 2010, 69):
Solo un pianto ci salva adesso. Babbo.
Solo un dolore audace. Sai
certe mani ancora cuciono millimetri
a punto d’erba, a smerlo, piano piano.
con devozione a una tela che alla fine
canta di colore ornamentale.
Sai Babbo. Sei più di un corpo ora
se ti penso nel tuo formato umano
ancora piango, ma piano, lentamente –
e non sei immaginato ma presente
in condensa di fiato trasparente
un vapore che manca sempre
un buco che porto di vuoto
un lato scancellato dal mio.
Babbo bellissimo, peripezia questo spiccarmi
dalla tua terra fiammeggiante
averti in grembo, bambino caro, che adesso
nasci continuamente.
Certo, ci sono molte morti e occorre ricordare che questo è il terreno delicato in cui gli angeli esitano a poggiare il loro piede
, un luogo sacro in cui spesso il silenzio è la nota più accordata: morti fuori tempo, morti incomprensibili, morti folli. Ma quali che siano le morti, il tempo attuale è un tempo che ci lascia soli a cercare un qualsivoglia orizzonte di senso. Per questo i luoghi e le esperienze di cui parla Anna Macchi sono oasi preziose nei nostri paesaggi spesso desertici. Le cure palliative vengono invocate quando non c’è più nulla da fare
: alla luce di quanto diciamo è invece un tempo in cui c’è moltissimo da fare. Non lasciare la persona, e chi vi è legato, da solo è un compito medico ed etico fondamentale, tanto più fondamentale quanto negletto. Quando un medico non accompagna il proprio paziente verso le cure palliative in un momento in cui vi sia ancora tempo e ampiezza di respiro per questo accompagnamento (che lenisce i dolori, calma l’angoscia del non saper che fare, offre un luogo di comunicazione chiara in cui non si sarà soli) ebbene, trascura non solo i doveri tecnici della propria professione, ma vien meno al primum non nocere che è il giuramento etico fondamentale di ogni curante. Perché mancare, qui, significa nuocere. Essere presenti alla morte significa essere presenti alla vita. Significa essere presenti, come culmine dell’opera che ogni essere umano può compiere.
Grazie ad Anna, quindi, per il dono di questa testimonianza, per l’amore che traspare da ogni riga. Grazie a lei e a coloro che come lei tengono intrecciati i fili della vita e della morte, perché insieme questi fili compongono il tessuto di cui siamo fatti, sono la sostanza del nostro esserci. Grazie per il lavoro personale che sono chiamati e sono disposti a fare, un travaglio quotidiano che non può mai essere trascurato, pena diventare assenti e ombre anestetizzate, preda delle ondate del burn-out.
Grazie per non lasciare sole le persone che amiamo.
Grazie per non lasciarci soli.
Gianni Francesetti
TRA LE PIEGHE DEL MANTELLO
Vite, destini, trasformazioni
Ogni terra in attesa del pallido sole
o di cocente calura,
ogni luogo sommerso
dal freddo bruno e nebbioso,
ogni zolla intrisa di limpida acqua
o inaridita come duna di sabbia
schiude la vita a un dolcissimo fiore sempre perfetto.
( Caterina Rovatti )
IN CAMMINO
Ho lavorato come psicoterapeuta con i malati terminali per undici anni, un’esperienza magnifica che paragono a un lungo viaggio, in una terra inesplorata, tutta da scoprire, da riconoscere, rispettare. Mi ritengo molto fortunata per aver avuto il dono di