I Full-Minei
Di Fulvio Musso
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Info su questo ebook
Quella che lui ci offre è fatta di tenerezza e ironia, di personaggi indimenticabili – e spesso dai nomi improbabili – per umanità e profondità: non eroi o eroine, non maschere da tragedia, ma tante persone come noi, mai giudicate, mai guardate con occhi morbosi o volgari, anzi, a volte accarezzate dalla grazia dolce che sa evocare l’autore facendo ricorso alla Natura, madre e soccorritrice.
Fulvio Musso, molti anni prima che diventasse di moda, ha trovato la formula magica per il web. In tutti i siti “letterari” in cui ha scritto è sempre stato tra i più letti – spesso il più letto – e il suo stile, quello dei “Fullminei”, è diventato un marchio di successo.
(Dalla Prefazione di Franca Figliolini)
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Anteprima del libro
I Full-Minei - Fulvio Musso
EROICO
Prefazione
I microracconti di Full, alias Fulvio Musso, sono piccoli gioielli. Che siano storie di vita o frutto dell’immaginazione dell’autore nascondono in loro, nelle poche righe di cui sono composti, quello che spesso cerchiamo nella letteratura: una chiave di lettura del mondo.
Quella che lui ci offre è fatta di tenerezza e ironia, di personaggi indimenticabili – e spesso dai nomi improbabili – per umanità e profondità: non eroi o eroine, non maschere da tragedia, ma tante persone come noi, mai giudicate, mai guardate con occhi morbosi o volgari, anzi, a volte accarezzate dalla grazia dolce che sa evocare l’autore facendo ricorso alla Natura, madre e soccorritrice.
Si muovono intorno o sui laghi del nord, nella Bassa Padana, nella periferia milanese borghese degli anni ’70 o in quella poverissima del dopoguerra.
Full ci fa incontrare uomini e donne solitari che alitano sogni d’amore sulle finestre oppure improvvisamente capiscono chi siano i disadattati; ci fa andare sulla giostra e perdere la testa; smarrirci al luvre
dopo un volo lovcost
; piangere insieme ad un orfano; ritrovarci allo sbando; conoscere il tombeur de femmes, ma anche la tombeuse des hommes…
Alcuni dei racconti usano registri ironici, persino umoristici, altri sono più amari, altri teneri e altri ancora appassionati, senza che mai si perda lo stile asciutto caratteristico dell’autore, quel suo lesinare in aggettivi ma scegliere immagini che restano impresse e danno subito l’esatta dimensione della situazione. E di racconti in questo volume ne troviamo più di cento. Ciascuno di essi è completo, grazie a questa sintesi linguistica e strutturale.
In questo modo Fulvio Musso, molti anni prima che diventasse di moda, ha trovato la formula magica per il web. In tutti i siti letterari
in cui ha scritto, è sempre stato tra i più letti – spesso il più letto – e il suo stile, quello dei Fullminei
, è diventato un marchio di successo.
Le sue microstorie, attenzione, sono scritte tutt’altro che a scappar via
, anzi, raggiungere l’intensità voluta, tagliare tutto il superfluo ha richiesto all’autore un lavoro di rifinitura molto faticoso, ma sempre ripagato da un grandissimo numero di letture
.
Il suo stile ha suscitato dibattiti a volte furibondi, ma non ha mai lasciato indifferente nessuno, e Full ne ha fatta una bandiera, difendendolo a spada tratta.
La storia gli ha dato ragione e adesso le scuole di scrittura per short stories fioriscono ovunque.
Chi da sempre lo ha seguito attendeva da anni che si decidesse a raccogliere in volume i suoi racconti e ringraziamo ChiPiùNeArt e in particolare Adele Costanzo per averlo convinto.
Chi non lo conosce troverà qui tante piccole pillole
da prendere ogni giorno contro la disaffezione alla lettura, contro la noia ma soprattutto per la gioia di leggere racconti ben scritti e pieni d’umanità.
Franca Figliolini
LA PRESENZA
Soltanto una volta ho abitato una casa senza cortile né giardino. Stranamente, non aveva nemmeno balconi. In tutta la palazzina ce n’era uno soltanto in fondo al corridoio condominiale che dava su di uno spiazzo sterrato frequentato solo da qualche gatto.
Su quel balcone ci andavo ogni pomeriggio, prima o dopo aver fatto i compiti. Vi portavo i miei giocattoli e il panorama lo ricostruivo da qualche fumetto.
Ricordo una casa, sulla destra, con un balconcino di colonnine bianche. A cinquanta metri o poco più. Vi giocava una bambina con i capelli chiari e le maniche a sbuffo.
Eravamo noi due soltanto. E i gatti.
Troppo lontani per parlarci e troppo timidi per farci dei segni, stavamo ognuno sul proprio balcone a spartirci quell’angolo abbandonato. Ogni tanto ci guardavamo. Più che altro, ci assicuravamo che l’altro ci fosse.
Trascorremmo ore, settimane, stagioni fidando una nell’altra presenza rassicurante e fedele. Ogni tanto quell’occhiata a tastare la tenuta dell’esile filo teso fra i due balconi. O forse durò soltanto pochi giorni? Il tempo non si ferma nemmeno nella memoria.
Quando uno dei due se ne andava, poco dopo se ne andava anche l’altro, come se si fosse sganciato il filo sospeso sullo squallore che saliva da quello spiazzo deserto, imprigionato nei movimenti pigri dei suoi gatti.
A volte, il tramonto ci faceva visita, arrossandoci. Allora restavamo a guardarci con la stupita insistenza della nostra età assetata, curiosa e paga di quelle smodate semplicità.
Non la incontrai mai, se non di sfuggita, seppure qualche tentativo lo feci. Da fonti incerte seppi solo il suo probabile nome: Iolanda.
Intanto, ho scordato nomi ripetuti mille volte. Ho dimenticato amori che avrei giurato eterni, ma qualche volta, ancora, penso a quella bambina.
L’unico vincolo che mi riuscì perfetto.
THE BUSKERS
Si spartivano qualche applauso e molte spine. Come tutti gli artisti di strada.
Lui, ormai in età, avrebbe rinunciato da tempo a esibirsi, ma continuava a farlo per lei. Peraltro era lei ad attrarre quel poco pubblico con la sua voce melodiosa. Una voce che ammaliava anche lui.
L’ultima esibizione della serata s’era ormai conclusa quando l’improvviso nubifragio li costrinse al riparo in un anfratto della notte, gelida, nonostante alitasse nell’aria qualche timida promessa di primavera. E come ogni notte, lui s’addormentò abbracciandola stretta.
Lo trovarono la mattina dopo, ormai rigido, con le braccia a semicerchio, come se abbracciasse qualcosa… o qualcuno… forse un amore.
Accudita dal destino delle cose, lei
non c’era in quel suo ultimo abbraccio. Se l’era fregata un vagabondo, la sua chitarra.
LA LUNA SULLE FOGLIE
Alcuni anni fa, conobbi bene un cieco. Era un uomo già maturo e aveva una piccola azienda agricola a carattere familiare dove si coltivavano piante ornamentali e da fiore.
Si chiamava Duilio e gestiva l’azienda in ogni suo settore. Teneva i conti, stabiliva la produzione, il commercio, tutto.
Girava per le serre con una padronanza incredibile: di botto si fermava, annusava l’aria e tuonava: Questi impatiens vanno trapiantati subito! Oppure prendeva una manciata di terra, l’assaggiava e decideva: Serve altro potassio, ma prima aspettiamo la pioggia di domani. A differenza degli altri vivaisti, non ascoltava mai il meteo: il meteo era lui.
Dicevano che parlasse con le piante e per questo motivo avevano i prodotti migliori di tutta la zona. Peraltro, lui c’era cresciuto in quella serra e, come le piante, guardava il mondo con occhi diversi. Aveva un sogno: vedere la luna, e diceva che le piante glielo avevano esaudito.
Il vivaio aveva una sola dipendente, Mariella che, appena ragazza, aveva avuto un figlio da un balordo. Lavorava nell’ufficio del cieco: lui la mente, lei gli occhi. Qualche volta era anche il viso perché lasciava che Duilio glielo toccasse: vorrei capire come sono fatte le belle donne, le aveva detto.
Un giorno, un po’ per gioco, volle essere lei a toccare il viso di lui e i polpastrelli freschi e profumati di Mariella gli arrivarono al cuore.
Alle piante, cominciò a parlare anche di lei e, ogni giorno, sulla scrivania di Mariella c’erano colori e profumi indescrivibili. Poi, di nascosto dai familiari, Duilio prese a pagare le rette del collegio dove studiava il figlio di lei. Per riconoscenza e anche per affetto, ogni giorno Mariella gli porgeva il volto da toccare mentre lui le raccontava il suo mondo, come riuscisse a sentire la luna sulla pelle e, un poco, a vederla con quei mille occhi.
Ma la vita dà, toglie e persino baratta. Da qualche altrove tornò il padre del ragazzo e Duilio capì che il fascino di certi balordi è padrone. Lei lo seguì senza criterio come si seguono i balordi.
Lui, tanto bravo e intraprendente in tutto, si scoprì indifeso in tutto e… cieco.
Coi familiari divenne sempre più taciturno e finì col parlare solo con le piante, la notte, nella serra.
S’annunciava l’inverno e la fine di molte cose, quando Duilio tacque. Di lui non si può nemmeno dire che chiuse gli occhi per sempre… forse, li aprì.
La notte, ormai, c’è un gran silenzio nella serra. Qui, l’amico Duilio mi raccontava il suo mondo. Poi, nel silenzio, ascoltava
il mio. Gli premeva sapere come facessimo, noi piante, a vedere
la luna con le foglie.
LA TEDESCA
Era tedesca dal tacco delle scarpe alla tintura dei capelli. Sui quarant’anni, alta, occhi chiari, ciglia bionde, efelidi sparse, viso regolare e scialbo. Tedesca, insomma.
L’uomo la vide arrivare sul lungolago. Quando fu a pochi metri, lei si chinò a raccogliere da terra un pezzetto di pane sfuggito a qualche zoofilo e lo lanciò in acqua. Quel gesto da tedesca, pignolo e banale, disegnò una rapida traiettoria e divenne fondamentale nello stomaco di un’anatra affamata che lo prese al volo.
«Bel lancio!» commentò l’uomo che stava, anche lui, dalla parte delle anatre.
«Sono affamate: è per via del freddo» disse lei.
Era tedesca anche nell’alfabeto: «A ben quartare, ogni ciorno c’è n’è qualkuna in meno, poferine.»
Conversarono per cinque minuti, affabilmente, come se si fossero già visti e parlati altre volte, ma non era così.
Lei, in particolare, sembrava dilungarsi e ad un certo punto l’uomo si mise con le spalle al sole come a volerla vedere meglio. Per un solo attimo la guardò amabilmente come un uomo può guardare una donna e lei quasi s’interruppe per salutarlo e andarsene. Così, improvvisamente.
M’avrà preso per il solito pappagallo italiano, pensò lui squadrandola mentre s’allontanava, quella crucca.
Il chiaro sole invernale, basso e accecante, rivelava ogni dettaglio dei monti intorno, accendeva di riflessi il lago e accentuava il contrasto con le rive aride, bruciate dal gelo di un inverno insolitamente rigido.
Intanto, il passo agile e svelto della tedesca s’era accorciato sempre più sino a chiudersi presso un parapetto.
Per un momento, qualcuno l’aveva guardata come un uomo guarda una donna; da quanto non le succedeva! Era stato uno sguardo amabile in un volto attraente. Era un’espressione che faceva parte delle cose semplici e buone che s’erano dette e non c’era niente di sbagliato in quell’atteggiamento. Ciò che lei aveva scambiato per fastidio era, invece, turbamento. Eccola la parola: turbamento.
Decise di reagire. Positivamente, per una volta. Si propose di tornare sui propri passi, ma le ci vollero altri cinque minuti per raccogliere la disinvoltura necessaria. Poi s’incamminò, dapprima a passi lenti e man mano più spediti. Aveva deciso, ormai. Fra breve si sarebbero ritrovati con un sorriso e avrebbero ripreso il loro dialogo: Afevo una kommissione urcente
, si sarebbe scusata.
L’uomo, seduto su una panchina gialla, la vide arrivare da lontano. La tedesca procedeva guardandosi intorno come a cercare qualcuno e lui capì quasi subito.
Quando lo vide, la donna ebbe un breve impaccio, poi voltò il capo altrove e s’allontanò allungando il passo come chi ricorda improvvisamente un impegno o una meta.
La moglie dell’uomo era seduta con lui sulla panchina dove l’aveva raggiunto dopo lo shopping. Era una donna che s’interessava alle anatre solo se cotte al forno e macinava parole come nel frullatore:
«… mi hanno fatto lo sconto del quaranta ed è stato un affare perché è una scarpa di classe, si vede dalla cucitura, dal tacco che non è di plastica rivestito. Tu, invece, non conosci l’arte del comprare; quante volte t’ho detto: lascia fare a me perché la scarpa è importante. È dalla scarpa che si vede la persona. Le tue invece sono sempre trascurate, dovresti lucidarle più spesso. E pensare che ti ho comprato quattro tipi di lucido che ritrovo sempre intatti. A proposito di scarpe… »
L’uomo non l’ascoltava perché conosceva ogni parola di quei monologhi replicati per anni.
Con lo sguardo della mente accompagnava due solitudini che si allontanavano sul lungolago. La prima, molto austera e tedesca, quasi fuggiva nel suo ritmo agile e svelto. L’altra solitudine, più sofferta perché imprigionata, la seguiva con passo incerto dentro scarpe trascurate.
Erano ormai due riflessi leggeri che ondeggiavano senza incontrarsi, laggiù, lungo la spiaggia di aride cose che il lago scopre quando lento si ritira… da noi.
L’ATTRACCO
La grossa barca scivolò silenziosa nel porticciolo; i potenti motori quasi muti. In plancia, un uomo solo, di mezza età. Lo scafo procedeva lento, alla ricerca di un improbabile spazio per l’ormeggio.
Subito qualcuno assunse a spettacolo la manovra come solitamente accade nei bacini piccoli e poco trafficati. L’uomo si adattò in uno spazio angusto presso l’imboccatura del porto e manovrò lentamente per volgere la poppa alla banchina. Poi il verricello gracchiò e l’ancora si infilò in acqua con un tonfo secco.
Allora, anche la donna notò la barca. Le apparve troppo ingombrante in un porticciolo così piccolo, ma ne apprezzò la linea filante e il candore delle vernici in sintonia con il nome, Biancaluna
. Poi guardò l’uomo che aveva capelli folti, i tratti decisi, l’abbronzatura esaltata dal bianco della felpa.
«Altezza, mezza bellezza» recitò piano la donna. Non si riferiva alla statura, appena regolare, del nuovo arrivato, ma constatava come un uomo, ritto sulla plancia della propria barca, appaia anche un po’ più alto: è il padrone dei grandi spazi, il cavaliere che cavalca solitario il proprio sogno. Fa pensare a un essere libero, temprato.
L’uomo azionava i pulsanti del verricello filando lentamente la catena dell’ancora e lasciando che l’abbrivio avvicinasse docilmente la poppa alla banchina. Saltò poi dalla passerella con le cime di ormeggio sotto l’occhio più o meno attento dei presenti.
La donna richiuse un libro dalla rilegatura turchina. La sua attenzione era assorbita ormai da questo solitario approdato nell’ora un po’ misteriosa del crepuscolo. L’ora in cui le ombre allungano le loro braccia e i colori, e certe anime, si incupiscono.
Per fissare gli ormeggi, l’uomo dovette passare accanto alla donna che traversò con un’occhiata breve e intensa come sono spesso gli sguardi fra sconosciuti di sesso opposto; uno sguardo che si distese subito in un sorriso cui lei rispose. Non v’è miglior saluto: a differenza delle solite parole o cenni, il sorriso è un attestato di simpatia, è una piccola luce accesa per festeggiarti. Ē anche la posa migliore per il clic della foto immaginaria che resterà in te.
Mentre rassettava sottocoperta, l’uomo sbirciò dall’oblò nella direzione della donna che sedeva a pochi metri. Poteva avere dieci anni meno di lui, i capelli bruni e sciolti, gli occhi mansueti e assorti avevano uno strano colore grigio di alba marina. Una figura bella, serena, e insieme sensuale. Un buon approdo per un navigatore solitario.
Fedeli ai rigorosi orari dei riti domestici, gli uomini del porto si allontanavano frettolosi e in breve rimasero soltanto loro due, avvolti dallo sciabordio del mare. Di lì a poco, lui sarebbe sceso a terra e già immaginava l’incontro.
Ad un tratto non la rivide. La cercò inutilmente con lo sguardo oltre lo spiazzo del porto, stringendo gli occhi per penetrare l’oscurità incombente. Sembrava scomparsa; soffiata via da una folata o risucchiata nei vortici lievi che vedeva serpeggiare in banchina. Forse l’aveva allontanata il timore di un luogo ormai buio e deserto o il vento sempre più pungente.
L’uomo scese in paese e, un po’ inconsciamente, la cercò ancora. Nel fugace sguardo di lei, gli era sembrato di cogliere qualcosa: un sogno, forse. O un’attesa. Un segreto che avrebbe voluto scoprire.
Il vento, ormai molesto, penetrava la felpa dell’uomo spingendolo al rientro e nel confortevole tepore della cabina si ravvide: la bella sconosciuta si trovava chissà dove, immersa nei