Notazione grafica per voci miste
Di Lone Loëll
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Notazione grafica: un pentagramma dai pochi, inusuali scarabocchi dove le voci che volevano, dovevano essere ascoltate, si mescolano, libere di dire la loro in un curioso arazzo sonoro.
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Anteprima del libro
Notazione grafica per voci miste - Lone Loëll
Tavola dei Contenuti (TOC)
Titolo pagina
Perlustrazioni notturne di un corpo amato
La casa in campagna
Solleone
Mondo a sghimbescio
Il mese degli altri
Melancolia
La visita
Solitudini
Chi ha compassione per Paola?
Buon Natale
Un bel guaio
Marthe
La strana, perfetta estate di Ernestina
Charlotte della casa nel cortile
I saccenti
La luce che è in te
Ada
L’ultimo giorno utile
Il Maestro
Il salvataggio
In un altro posto, fuori dal mondo
La lettera
Così come sei
Guardiano di notte
Racconto di Natale
Rinascita
Nora non esce volentieri di casa
Monologhi
Io sarei un impostore?
Pia e l’Ineffabile
Sconcerto
cover.jpgLone Loëll
NOTAZIONE GRAFICA PER VOCI MISTE
img1.pngISBN versione digitale
978-88-6660-406-8
Racconti
NOTAZIONE GRAFICA PER VOCI MISTE
Autore: Lone Loëll
© CIESSE Edizioni
www.ciesseedizioni.it
info@ciesseedizioni.it - ciessedizioni@pec.it
I Edizione stampata nel mese di novembre 2021
Impostazione grafica e progetto copertina: © CIESSE Edizioni
Immagine di copertina: Licenza Creative Commons CC0
(libero uso commerciale, attribuzione non richiesta)
img2.pngCollana: Green
Editing a cura di: Giulia Pretta
Editore e Direttore Editoriale: Carlo Santi
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, pertanto nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza che l'Editore abbia prestato preventivamente il consenso.
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.
Alle mie
Perlustrazioni notturne di un corpo amato
Era stata lei a decidere di fermarsi in quel luogo lontano da casa. Ci era arrivata per lavoro, l’amore con tutto il suo corollario era venuto in seguito. Ci era rimasta nella città così peculiare, dove il riverbero luminoso, per la presenza dell’acqua, giocava un ruolo fondamentale nel suo sentirsi quasi a casa. Le radici contano, aveva scoperto. Poi, dopo qualche anno e tre figli, aveva cominciato a sentirsi impedita nei movimenti. Tornava a casa sua sempre più di rado e, quando lo faceva, era comunque in compagnia di qualcuno che aveva una necessità urgente di assistenza in qualcosa, ma che in compenso decideva dove andare e cosa vedere, sottraendole spazio per sé.
Forse aveva troppi carichi per le sue spalle dopotutto non abbastanza larghe per sopportarli, pensava la sera mentre si coricava, aspettando che le problematiche accumulate durante il giorno si segmentassero, lasciandola riposare. Così decise un bel giorno di mandare al diavolo tutto l’opprimente caos che le si era ammassato dentro. Chiudendo gli occhi per un attimo le era apparsa l’immagine di una città o, per essere più precisi, di una strada che, a imboccarla, l’avrebbe portata a casa sua. Quella d’infanzia. A occhi semiaperti nel buio prese a rintracciare nella mente negozi, cinema, scuole, chiese, cercando di ricordarne la collocazione esatta. Trovò l’appartamento della sua prima insegnante di pianoforte, alquanto noiosa (forse le fanno così o forse lo diventano col tempo), il primo cinema dei tre del quartiere, il cimitero dai muri alti come quelli di una prigione, ma chi scappa da un camposanto? Dopo un centinaio di metri, in una stradina laterale, il medico di bambole e peluche che faceva miracoli mettendoli a nuovo. Cercò il rivenditore-riparatore di bici e il cinema dirimpetto, famoso per le proiezioni ogni anno a Natale dei film must, sempre gli stessi, senza i quali sarebbe stato meno Natale, i negozi di scarpe, tutti, la pasticceria con l’insegna della cornucopia appesa sopra l’ingresso, la grande rimessa dei tram rumorosi di fronte alla sua prima scuola, la farmacia dall’odore di erbe distillate all’angolo, il gioielliere dove le avevano comprato un primo anellino, il pescivendolo dal vetro sempre irrorato da cui la nonna si forniva di pesce fresco da preparare per Trilli, gattina tigrata di pelo e di indole, e accanto la grande libreria dal profumo di carta inconfondibile e rassicurante, nonché il bugigattolo del simpatico fotografo ciccione che forniva rullini a prezzi buoni e sviluppi rapidi, quasi senza muoversi perché grasso lui e stretto il negozietto. A metà percorso davanti al secondo cinema una chiesa insulsa, non fosse per il prato davanti che ogni anno esplodeva in una profusione di narcisi, gialli per Pasqua e bianchi a Pentecoste. Dulcis in fundo la latteria dove il burro in grandi fusti veniva confezionato a mano lì per lì e l’ultima pasticceria con i migliori dolci di tutte. Arrivò al capolinea del tram diventato bus nel frattempo, ma il tram era rimasto vivido nei suoi ricordi per gli stridori notturni di ruote sulle rotaie, come urla di strega, e per essere stato lui a farle percorrere il breve tratto per arrivare a scuola con lo zaino che dopo un anno ancora odorava forte di cuoio. Per trovarsi, a pochi passi da là, sotto le finestre di casa sua. A questo primo tentativo si accontentò di averla raggiunta, addormentandosi rincuorata. In seguito, si promise, si sarebbe spinta oltre.
Qualche sera dopo decise di tornare, salì le scale fino al primo piano dove suonò il campanello. Qualcuno aprì e la ammise all’interno dell’appartamento. I nuovi inquilini avevano fatto poche modifiche, era tutto riconoscibile, solo infinitamente più piccolo di quanto lei ricordasse. Non era proprio così, casa sua. Decise di non tornarci più. Ritrovata la casa, cercò quella o meglio quelle della nonna, una dopo l’altra. Ne aveva cambiate non poche nel corso della sua vita, un po’ zingara com’era stata. Poi toccò a quelle degli amici. Venne fuori un poco alla volta una cartina come di un cielo stellato, tutti i punti collegati avrebbero delineato una figura di una nostalgia mite, senza recriminazioni o pentimenti. Queste camminate immaginarie lasciavano intuire una coesistenza fluida fra varie epoche: la città che fu si sovrapponeva con leggerezza a presenti o addirittura future anatomie in una sorta di tutto rimane, nulla si distrugge.
Passa il tempo, senza più il compagno, ma con la prole che preferisce rimanere dov’è, anche lei resta, attaccata alle amicizie, alle vecchie abitudini e a qualche nuova curiosità. Si è creata un mondo suo a cui sarebbe innaturale rinunciare, ormai. Riprendono, dopo anni, le immaginarie passeggiate notturne. Con naturalezza, ubbidendo a un’intima necessità. Ci sono sempre stati personaggi nei suoi sogni a occhi aperti. Nel percorrerla, la città raramente si presenta vuota, ma le persone che vi si muovono risultano figuranti o poco più, fino a quando una sera lui non salta fuori da dietro una delle colonne che una volta sostenevano i due ponti che collegavano il teatro dell’opera agli uffici amministrativi. È molto tardi, il teatro è vuoto da tempo e le luci sono tutte spente tranne che nella guardiola del portiere. Come un ragazzo giocoso, riconoscibile malgrado il buio, sempre dall’età indefinita. Lui è così da quando lo conosce, fa parte del suo fascino. Non si parlano, un sorriso vago per saluto, tanto «doveva succedere prima o poi»; lui era lì che l’aspettava la sera che lei ha pensato di fare quel giro, come la prima volta che si erano incontrati, del resto.
Senza decidere niente, il percorso è già chiaro. S’incamminano passando davanti alle statue dei due poeti come cani da guardia messi ai lati dell’ingresso del teatro. Superata la piazza rotonda col doppio cerchio di alberi dall’insistente fruscio di foglie, si dirigono verso il porto da dove erano partiti e ripartiti tante volte. Carichi di follia e speranze sempre, alla partenza come al ritorno. Passano per il castello reale, senza sapere se loro, i Reali, sono in casa o meno, a quell’ora di notte la bandiera non sventolerebbe comunque per nessun motivo. Camminano sui sampietrini disposti a ventaglio sull’ampia piazza ottagonale, al cui centro troneggia un re a cavallo, tanto vigoroso da sembrare emettere nuvole di calore nel freddo della notte. Imboccano la strada che porta al museo della Resistenza. Lui si stringe nelle spalle, troppo giovane per averci preso parte attiva, come invece avrebbe desiderato; si era prodigato nella distribuzione di volantini, comunque, rischiando una pallottola dei tedeschi.
Oltrepassando la cittadella con il fossato coperto da una pellicola appena accennata di ghiaccio – fra non tanto ci si potrà pattinare – proseguono fra le case a schiera, allegramente gialle che un re giocherellone ma bellicoso fece costruire per i suoi marinai, finite le battaglie navali, centinaia di anni fa. Continuando, scivolano in silenzio, quasi a non volerlo vedere, sotto quel dipartimento universitario che li allontanò in apparenza. A loro niente e nessuno in realtà li ha mai divisi del tutto.
Rimangono così, camminando a braccetto, da quando lui ha urtato una caviglia contro la rotaia del tram, che da poco non circola più. Appena più in là del museo statale d’arte girano a destra, dove fra gli alberi spunta la collezione del mecenate di pittori ottocenteschi, un gioiellino a tutt’e due tanto caro.
Decidono di tornare a casa, la notte è diventata troppo rigida. Salgono le scale fino al quarto piano inalando l’olezzo dolcigno di linoleum trattato con cera alle rose. Entrati in casa mangiano, si parlano, ridono e forse fanno l’amore. Distesi per terra su un tappeto a pelo alto mano nella mano, silenti ormai, finiscono per ascoltare musica da camera per ore. Un tutt’uno si addormentano lì, dove i primi incerti raggi del sole che sorge con dita carezzevoli li trovano.
La casa in campagna
C’è in campagna, lontano dal mondo brulicante delle grandi città, una «casa vecchia e tanto bella». È una casa grande e accogliente come lo erano le case dei contadini in passato, concepite per famiglie grandi, bestiame compreso. Infatti, la casa è tutt’altro che nuova, avrà almeno duecento anni. Tanta gente la conosce per esserci passata una volta, più probabile per esserci ripassata più volte e, in ogni caso, averci vissuto momenti indimenticabili. La famiglia a cui appartiene va e viene in continuazione in estate, e non solo. È una famiglia in costante, rapida espansione. Una famiglia che si allunga e si allarga di generazione in generazione.
In tutti i sensi una casa fertile.
Come era fertile l’immaginazione di chi, per la prima volta anni addietro, la vide, innamorandosi di quei quattro muri spessi quasi un metro su cui poggiava alla bell’e meglio un tetto. Andò pressappoco così.
Una sera Beppe, l’uomo dalla fervida fantasia (da bravo architetto qual era), uscendo da un vicino villaggio dove stava aiutando un amico a tirar su un edificio lasciato all’incuria, camminando decise di prendere la strada verso nord. Per caso. Dopo un chilometro circa, trovò un uomo immobile, in contemplazione non si capiva bene di cosa.
Avvicinandosi, Beppe rivolse la parola all’uomo fermo sul ciglio della strada chiedendogli cosa ci fosse di così attraente in quell’angolo di paesaggio.
«Ah, se avessi quel pezzo di terra da coltivare sarei un uomo felice» fu la risposta sognante nell’idioma tipico del luogo. Beppe invece veniva da tutt’altra parte, ma quella è un’altra (bella) storia.
«E di chi è l’appezzamento, e la casa laggiù?» chiese, inglobando il tutto con lo sguardo.
«Non saprei, sono tanti di quegli anni che casa e terreno sono abbandonati al loro destino!»
«Domani mattina vado al catasto a fare delle indagini. Le farò sapere il risultato.»
Detto, fatto. Beppe scoprì che casa e terreno erano in vendita e decise di comperarli.
Diede una parte della terra da coltivare al «fattore», che di giorno faceva ben altro mestiere, ma sul tardo pomeriggio, qual maturo seppur robusto Adamo si metteva con vigore a preparare la terra di quel ritrovato Eden che gli era stato offerto. Prese poco alla volta a crescere quanto di più gustoso fra verdura e frutta ci potesse essere. Portando sempre una parte cospicua della raccolta a quello che riteneva a ragione essere suo benefattore.
Fu da quei quattro muri che tutto ricominciò. Muri spessi che d’estate assicurano un fresco tollerabile quando fuori il solleone impera e d’inverno offrono riparo ai venti decisamente gelidi e forti.
Come tutto è forte da quelle parti. Il caldo, il freddo, le piogge che in estate interrompono per alcune ore il propagarsi dei tanti profumi. I colori, poi! Un tripudio di colori sgargianti, netti, che non sembrano accettare compromessi. E fanno bene agli occhi, come al cuore.
Ecco, quella casa è stata ricostruita col cuore in mezzo a uno ancora più grande, che è la terra circostante. Aggiungendo pezzo dopo pezzo, ingrandendola e portando migliorie man mano che i mezzi lo permettevano e la necessità di spazio in più lo richiedeva.
Quella casa è un grande cuore inclusivo, pulsante. Batte per chiunque varchi la soglia, ammette tutti, nessuno escluso.
Gli anni sono passati: l’ormai vecchio Adamo è deceduto, dove si trovava il suo orto sono stati piantati tanti alberi. Un ricco frutteto di fichi, meli, ciliegi, peri, albicocchi. Per non parlare degli ulivi. Rigogliosissimi tutti. Come se, in fondo, lo spirito orgoglioso di Adamo vi aleggiasse ancora.
Poi, vicino alla casa, è stata creata da qualche anno una piscina confinante con gli alberi che insieme costituiscono il giardino ornamentale, sicuramente non pensato così in origine. È venuto fuori semplicemente piantando albero dopo albero: olmi, tigli, una magnifica magnolia cresciuta a dismisura e un solitario piccolo albero di cachi, un re minuto, ma dalla corona tempestata di gioielli color del sole al tramonto.
Dopo tre anni di assenza, le due amiche erano tornate insieme a quell’Eden da dove nessuno viene cacciato. Una delle due aveva trovato dal primo giorno un’appassionante, anche se non nuova, occupazione fra una nuotata e l’altra: il salvataggio di insetti che da soli non ce l’avrebbero fatta a uscire dall’acqua. In apparenza impigliati nella membrana della superficie, quando non sommersi dentro all’acqua, non li aveva contati, ma erano tanti e di tutti i tipi.
Tantissime vespe e api, e mai nessuna di loro l’aveva punta! Mosche a bizzeffe, insetti a cui non avrebbe saputo affibbiare un nome. Ragni piccoli e grandi. Per questi ultimi spesso il salvataggio arrivava tardi. Coleotteri dal dorso sgargiante, forbicine e qualche cervo volante. Insetti senza nome dotati di strisce o puntini gialli su di un fondo nero, a combinazioni infinite, strabilianti. Solo le libellule si salvavano da sé, quando verso sera venivano ad abbeverarsi, compiendo straordinari passi di danza a scatti languidi ed eleganti.
Prendeva gli insetti sul dorso della mano lasciata scivolare appena sotto la superficie, portandoli sul bordo della piscina. Poi aspettava. Intorno, ogni tanto una voce benevola le chiedeva quante anime stava salvando. Senza staccare gli occhi dall’anima del momento, rispondeva abbozzando un sorriso.
Osservava il lungo ed elaborato lavoro di asciugamento da parte della bestiola, esercitato dalle zampe posteriori che movimento dopo movimento facevano scivolare via l’acqua. Lasciando riapparire la forma delle ali e la trasparenza di esse, che fino ad allora erano rimaste appiccicate alla schiena, e infine il corpo stesso, ricoperto con un guscio più o meno evidente. Tutte piccole meraviglie, degne di essere osservate a lungo.
Una settimana finisce in fretta anche se ci si sforza di fare il meno possibile, o forse proprio per quello! Avevano letto tanti libri all’ombra degli alberi e nella brezza della sera fatto lunghi discorsi. Dialoghi dai toni bassi, rassicuranti, dimostrando che non tutto in questo mondo è per forza urla e strepitii. Si erano raccontate storie di persone non presenti per un verso o l’altro. Storie allegre, da risata spontanea, o a volte tristi che finivano per essere raccontate con le lacrime agli occhi, un nodo alla gola.
Stavano ripartendo, le due amiche, le aspettava un tragitto di quattro ore e mezza, traffico permettendo. Aspettasse! Con misurata lentezza, ragionando s’erano inventate che un altro bagno in piscina avrebbe fatto al caso loro, per una volta il ristoro prima della fatica.
Eccole al bordo della piscina: una si tuffa come se la sua stessa esistenza ne dipendesse. L’altra è rimasta sulla sdraio alle prese, si fa per dire, con una gentile mosca che le si è venuta a posare sulla mano sinistra e non ne vuole sapere di lasciarla.
Come s’è seduta lei, è arrivata anche la mosca. Le zampette in una vigorosa danza in cerchi su e giù per le braccia, andando a finire ogni volta sulla stessa mano. L’ispezione, perché tale sembra essere, dura già da un po’, ma non sembra ancora soddisfatto, l’insetto. Pare che dica: «Ma sei tu o non sei tu? Sai, in acqua avevi un altro odore. Credo di riconoscerti, e se davvero sei tu, ti devo parlare».
Il tutto senza nessun suono udibile da parte della mosca, mentre la bipede ogni tanto le parla sottovoce usando parole e toni tranquillizzanti. Non vuole interrompere l’incanto. La danza continua, il lieve ticchettio di zampe e proboscide procura una piacevole sensazione di solletico che non disturba né infastidisce.
«Vuoi vedere» dice fra sé e sé la bipede «che è venuta a dirmi qualcosa? Almeno così sembrerebbe!»
La danza ormai dura da più di cinque minuti. Lo schema, sempre lo stesso, lascerebbe intendere che sta conferendo un messaggio, qualcosa di importante.
«A nome di tutti noi, che con pazienza e dedizione hai salvato quando eravamo caduti in acqua, ti ringrazio e ti auguro un buon volo!»
«Piccola, gentile mosca: io non ho le ali, ma ti ringrazio comunque. Il tuo è un gran bell’augurio» dice la bipede, sempre sottovoce.
Finalmente, toltasi l’incombenza del messaggio danzato, la mosca riprende il volo. Commossa, si avvia verso gli ultimi saluti prima di entrare in macchina, anche la bipede.
Solleone
Non era come a casa. Lì, se necessario, stendendo un braccio chiudevi la finestra fissandola bene con i ganci, poi con una lieve torsione del polso facevi salire la temperatura dei termosifoni. Una magia da niente quella repentina escursione termica nel caso soffiasse la bava di ponente con o senza scrosci di pioggia. A me bastava, alla freddolosa della famiglia, a mia madre, no.
Qui, invece, non c’era che calore, insistente e ovunque. Senza scelta, senza scampo. O lo reggevi o soccombevi. Un po’ alla volta avevamo fatto su un bagaglio di rimedi per contrastarlo, o almeno conviverci. Lo shock iniziale era stato sconcertante perfino per mia madre, che di caldo non sembrava incamerarne mai abbastanza. Come di luce. I primi viaggi in Italia erano cominciati perché prescritti dal medico, e in effetti lei aveva riscontrato un giovamento notevole. Ma erano stati fatti in inverno, in Liguria. Il caldo di luglio al sud era altra cosa.
Quelli erano tempi in cui ancora si viaggiava in treno, mettendoci quasi un giorno intero da Copenaghen per raggiungere Roma. Con mamma che ogni miglio più a sud si sentiva rigenerare. Respirava perfino meglio, levandosi strato dopo strato dell’involucro con cui si cautelava dalle ingiurie atmosferiche. Passate le Alpi si liberava dell’ultima pelle, come diceva, neanche fosse una cipolla.
Prima sosta Roma, l’eterna e caotica, nella quale ogni anno, da bambina, non mancavo per nulla al mondo di offrire a qualche maldisposta