Sole e Luna facevano l'amore
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Sole e Luna facevano l'amore - Pierluigi Lattuada
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Tucumá è un’ipotesi remota anche per il viaggiatore più azzardato. Non si può chiamare città, perché non possiede né un municipio né un sindaco o nessun’altra autorità amministrativa; non si può chiamare villaggio in quanto estesa come cento villaggi. Non si può chiamare paese dal momento che nessuno vi è mai nato.
Tucumá è una sfida bizzarra, pagata col soldo dello sradicamento, il sudore di una fatica incerta e spesso con il sangue. Non vi è giorno, infatti, che non ci scappi il morto, seppellito in fretta, senza troppa formalità, in quattro assi di legno e una croce posticcia, che non resisterà ai primi acquazzoni di settembre.
Qualche anno prima, da quelle parti, non c’era che foresta e la processione sparsa di Indios caiapós i temibili guerrieri a oltranza, minaccia costante anche per gli altri gruppi tribali disseminati più a sud, nella regione dell’Alto Xingù i quali, ciascuno a loro modo, sembra pregassero il loro Dio di non incontrarli sul cammino.
Quando Luis scese dal Bandeirante, delle forze armate Brasiliane, trascinando la sua improbabile valigia, che chissà cosa si era portato a fare, così fuori contesto, pronunciò tra sé e sé la fatidica frase: che ci faccio qui?
.
Già, che ci fai qui signor giovane mediconzolo tutto Marx e antipsichiatria, che impenni il tuo destriero selvaggio per territori più esigenti di quanto il coraggio della tua presunzione sappia offrire?
La pretesa era dissetare quella smania di primordiale che gli ruggiva dentro la voglia di andare; il pretesto, invece, era conoscere i segreti dei pajè, i depositari delle antiche pratiche di medicina tradizionale.
Quella voglia di andare emergeva periodicamente, puntuale e inequivocabile, a sradicare Luis dalla tentazione di vacanze ordinarie per proiettarlo, spesso con incoscienza, in avventure improbabili. L’idea degli Indios, per la verità, gli frullava in capo da tempo, era sempre stato affascinato dall’idea di trovarsi al cospetto della storia prima della storia e specchiarsi, senza intermediari, nel fascino di un passato che si faceva così magicamente presente. Da quegli occhi, da quelle voci, da quei gesti avrebbe assaporato la risonanza di un altrove intatto, autentico, selvaggio nel suo senso più nobile ed elevato, racchiuso nelle antiche segrete pratiche dei pajè, dei quali aveva sentito dire meraviglie. Aveva sentito parlare di alcuni che sapevano trasformarsi in animali, di altri che scomparivano e ricomparivano a loro piacimento, di guarigioni miracolose operate attraverso il succhiare e di sortilegi potentissimi in grado di paralizzare o uccidere una persona, sapeva dei loro veleni e delle loro medicine e non stava più nella pelle al pensiero che si trovava proprio lì, ormai ad un passo dal realizzare un sogno.
Pretesa e pretesto si rivelarono ben presto chimere.
Trascinatosi fuori, con l’acrobazia che richiedeva l’operazione, dalla fusoliera del velivolo, Luis ebbe come prima ventura la sorte di imbattersi in un cappello a larghe tese, stivali da vaqueiro, e un cinturone carico di munizioni con relativo revolver. L’individuo che li indossava stava seduto a ridosso di una staccionata di legno stagionato, con un gomito appoggiato sul ginocchio sinistro e il capo semi chino.
Alla vista di Luis, così bizzarro nella sua sahariana cachi, nei suoi sandali Clark, nei suoi pantaloni, sempre cachi, Coronel Tapioca – con tanto di tasconi laterali, zip a mezza gamba e porta coltello incorporato – non si lasciò sfuggire l’occasione per ammonirlo sul fatto che quello non era un posto per mezze cartucce:
– Toma cuidado, cara. Aqui nāo è brincadeira.
Che suonava pressappoco così:
– Attento ragazzo, qui non è uno scherzo.
– Grazie, ma io mi fermerò lo stretto necessario, sono diretto dai caiapós. A proposito saprebbe dirmi dove si trova la Casa do Indio?
– Caiapós, vuoi dire quei pagliacci con tutta quella voglia di menare le mani? Ma tu lo sai che quelle teste rasate sono famose in tutto lo Xingù per la loro ferocia e che non c’è tribù nell’arco di qualche milione di ettari di foresta e millenni di storia che non ne abbia fatto le spese? Ascolta un consiglio, lasciali perdere, prendi il prossimo autobus speciale che salpa da questo posto inadatto a chi abbia qualcosa da perdere e togli il disturbo.
Luis prese la valigia sottobraccio a mò di pacco, cercando a un tempo di non farla notare al soggetto e di darsi un contegno, e ribatté con l’arroganza dei pavidi:
– Mi scusi, ma non ho viaggiato due giorni per ascoltare consigli di rinuncia da un perfetto sconosciuto.
– Senti un po’, lì fuori vige la legge della jungla, per la gran parte delle facce nelle quali avrai il piacere di imbatterti gli Indios contano meno dei loro revolver e tu avrai l’accoglienza che si riserva ai ficcanaso. In ogni caso, della Casa do Indio non te ne farai nulla, è l’ufficio della FUNAI il tuo posto e si trova in fondo alla strada.
– Obrigado (grazie).
Imboccò titubante lo stretto corridoio che si apriva tra le due baracche di legno che costituivano la totalità delle infrastrutture dell’aeroporto di Tucumá, sulle quali troneggiava la pretenziosa scritta, in vernice bianca su di un asse di legno: Aeroporto de Tucumá.
Dall’altra parte del corridoio, Mezzogiorno di fuoco
.
Gli pareva di vederlo Clint Eastwood che arriva a cavallo con tanto di poncho, sigaro e tutto il resto, avvicinarsi alle rovine di una casa dove giace un vecchio morente, scendere da cavallo, assicurarlo alla staccionata, lentamente, dirigersi dal vecchio, sollevargli il volto con la mano, offrirgli un tiro di sigaro, abbassargli il cappello sulla fronte, lasciarlo al suo destino, biascicando qualcosa di incomprensibile, ma che avrebbe potuto significare come:
– Pace all’anima tua, vecchio.
Di eroi buoni a Tucumá non cercatene, ad eccezione di uno, Antonio, funzionario della FUNAI, l’organismo governativo che dovrebbe occuparsi della spinosa questione indigena. Come Luis avrebbe presto avuto modo di toccare con mano, da quelle parti gli Indios costituivano un problema per tutti e un vantaggio per nessuno.
Fieri guerrieri nelle loro terre a contrastare i garimpeiros (cercatori d’oro) e a rendere la vita difficile ai ladri di legname, mendicanti in città, a elemosinare con insistenza ogni genere di prima necessità.
Antonio, il paladino dei caiapós, l’amico, ricambiato, dei musi rossi, era tra i pochi a trattarli con dignità e rispetto, forse il solo ad ascoltare con pazienza le loro lamentele e le loro incessanti richieste, a servirli con dedizione e competenza.
Raggiugerlo richiese il sale di passi interminabili, avanti e indietro, sì perché il cow boy aveva omesso di precisare in fondo da che parte. E Luis, ovviamente, scelse per prima la parte sbagliata.
Qualche chilometro di polvere rossa e sudore addensati da un sortilegio umido prodotto da nubi che soffocavano l’aria senza per questo impedire al calore di un sole velato di azzannare la pelle con una morsa subdola.
Morsa che Luis dovette sorbirsi per intero, avanti e indietro, la sua valigia sottobraccio, la sua sahariana e i suoi pensieri che gli saltarono addosso, tutti in una volta sola, quando si trovò allo scoperto in quel nulla così imbarazzante, fatto di mille invisibili sguardi che, inesorabili, si specchiavano nei suoi fantasmi e acquistavano, così facendo, il potere lacerante dei mille morsi della paura, della vergogna e della voglia di fuggire lontano.
Restaurante da Gaucha, Autopeças Parà, Armazem do Nego, EdilRoma, Material de Construçao e maggiolini Volkswagen gialli che, bontà loro, andavano e venivano incutendo nubi rosse di polvere su quei pensieri già così foschi. Qualche cavallo, o forse mulo, vista la precarietà della stazza e di quel loro stare su traballanti, una delle due zampe posteriori sollevata, pronta alla bisogna, il muso impegnato verso il basso dalla corda che li assicurava alla staccionata. Avventori trasandati del Botèco do Zè, dal bancone di legno dal quale un tale Zè, presumibilmente, a cadenze regolari e annoiate estraeva con un mestolo del liquido incolore: acqua? Improbabile. Che versava copiosamente in bicchieri, i quali, ricolmi, venivano prontamente trangugiati dai personaggi in questione, vocianti un eloquio sboccato.
Luis cambiò braccio, spostando la valigia sulla sinistra e sentendosi molto stupido. Con la valigia in questa fine del mondo! Proprio non gli andava giù. Chissà cosa avevo in testa!
– pensò.
Fanculo anche le zanzare. Con la destra, appena liberata dall’incombenza del carico, spolverò l’aria davanti al viso con insistenza, cercando di liberarsi da quel ronzio intermittente, così fastidioso. Insopportabile quasi quanto i suoi pensieri.
Borracheiro dia e noite, scritto a gesso su di un muro scrostato e resti di pneumatici accatastati e uomini dalla pelle arancione scuro sepolta da strati disomogenei di grasso e sudore nero, Feramenta em Geral, Bar da Noiva, baracche senza nome di mattoni non intonacati ed Eternit, bimbi, pochi, molto pochi, occhi svegli pronti a stupirsi e beata incoscienza, forse. Ancora baracche senza nome, terreni recintati, incolti, qualche costruzione dall’aria abbandonata, un albero di mango, anzi due, carico di fiori, profumo intenso, nota di leggera fragranza. Sollievo. Momentaneo. Camion, scarburato, sbuffo nero, pessimo, irrespirabile, che passi presto. Ecco! Maggiolino, nube rossa, più sopportabile. Ancora camion: Nao mexe comigo, che sta per lasciatemi in pace
, scritto dietro sul margine inferiore del cassone e sopra, toras, grandi tronchi di mogano, camionete con due buoi legati sopra, ovviamente ballonzolanti, ma neanche troppo. Pick up sovraccarica, cassone affollato di muratori, i vestiti e i corpi completamente ricoperti di colore bianco, forse calce, Assemblea de Deus, Igreja (chiesa), terreno incolto, discarica, rifiuti, Lanchonete Dois Irmaos, due Indios – ehi! Eccoli, ci siamo – seduti sui gradini del Lanchonete intenti, ahimè, a elemosinare caffè e bolo, torta, ai clienti, radi e poco inclini. Guardali, è vero! Hanno le teste rasate fino a metà cranio e il volto dipinto di rosso e, guarda, estremità delle braccia e delle gambe neri. Il primo è smilzo, il torso nudo decorato da collane di perline (chissà poi dove se le procurano) che girano intorno al collo in numerose bianche file prima di scendere a guisa di cravatta sul petto in decorazioni geometriche rosse gialle e blu cobalto. Le orecchie forate da paletti di legno, un pesante bastone disteso lungo il suo braccio destro, jeans e hawaiane. Il secondo, più robusto con un copricapo di piume verde, giallo e blu e una specie di cravattino di corda annodato a collo, vestito solo dei fatidici pantaloncini rossi della coca cola e l’immancabile bastone.
Gli fanno un cenno.
– Compra o bolo pra gente (compra la torta per noi).
Non capisce, prosegue, voltandosi indietro per accompagnare con lo sguardo quegli occhi inconsueti dai quali non riesce a staccarsi.
Quegli occhi, pur questuanti, sembrano possedere un potere magnetico, se li fissi ti schiudono soglie ignote, dove i tuoi punti di riferimento perdono ogni senso e tu vaghi sperso in cerca di segnali rassicuranti, che non arrivano.
Colpo di scena, in piedi davanti all’ingresso dell’edificio successivo, al limitare di un cancelletto metallico, azzurro arrugginito che si apre su di un corridoio tetro e scrostato, passeggiano anche sinuose. Appartengono a seni importanti contenuti a fatica da una camicetta bianca annodata sopra l’ombelico, nudo, cosce bronzee, muscolose, depilate, un volto deciso, sottoposto allo strazio di laser e botulino, decorato prepotentemente da rossetto e rimmel, voce tonante e borsetta brandita come strumento di difesa.
Tonino, il viado (così si chiamava, avrebbe poi scoperto Luis, la macchietta che si agitava come un forsennato e che in italiano si poteva tradurre con travestito o transessuale o, se si vuole essere politically correct, transgender) inveisce urlando nei confronti dei due Indios, apostrofandoli con quel vocione prodigo d’improperi. Gli Indios si guardano tra di loro, poi guardano il viado con quegli occhi famigerati, senza espressione, poi uno si alza, anche l’altro, brandiscono la clava, accidenti! In rotta alla testa del viado che si sposta, li evita, rotea la borsetta, come da copione, incrementa il tono baritonale delle invettive, accenna a un calcio che ha come unico risultato quello di sbalzargli dal piedone la scarpetta col tacco e lustrini. La borsetta, invece, sembra sortire un risultato migliore, gli Indios arretrano, a loro volta inveiscono, bizzarre imprecazioni onomatopeiche in lingua jè. Al più grosso cade il copricapo che lo smilzo, scivolando, calpesta. Ora le imprecazioni s’incrociano trasversalmente in un’apoteosi catartica che coinvolge tutti i protagonisti prima di raggiungere un parossismo che poi, come d’incanto, si placa in una quiete surreale. I due Indios tornati sui gradini ansimanti, sguardo basso, il viado tutto intento a ridarsi un contegno, recuperare la scarpa impolverata, ricomporsi il gonnellino leopardato, rifarsi il trucco.
Luis colleziona un coacervo di altalenanti emozioni che si mischiano esattamente al centro del suo petto risultando in un battito accelerato e in un rimestio di visceri quasi piacevole, senz’altro entusiasmante. Si sentiva vivo, intento a scrivere un pezzo di storia, la sua personale eroica epopea, qualcosa che avrebbe potuto raccontare ai suoi nipotini, una volta vecchio e saggio.
Casa do Indio, dannazione! Tutta di legno, pareti di legno, veranda di legno, pavimenti di legno, no, il tetto no, frasche. Amache, Indios, giovani, dipinti e distesi. Birra. Ahi! Televisione. Ahi! Ahi!
Faceva impressione assistere a quella coreografia