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La coscia di Pitagora
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La coscia di Pitagora
E-book325 pagine4 ore

La coscia di Pitagora

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Info su questo ebook

"In tutta quella ridda di nomi, spiegazioni, avvenimenti che stentavo a seguire, di una cosa Eugenio mi aveva convinto: nella vita di Senofonte ateniese c'era un'ombra, un angolo buio che valeva la pena di esplorare". Che cosa spinge un generale francese al seguito delle armate di Parigi, lanciate alla conquista del Regno delle Due Sicilie nel 1798, a precipitarsi in Calabria? Che cosa accomuna il generale francese al condottiero greco, autore dell'Anabasi, dopo più di duemila anni? Dalla Persia alla Magna Grecia, dalla Calabria a Roma, un filo sotterraneo lega le esistenze di uomini disposti a sacrificare la vita stessa, purché tutto non sia stato vano.
LinguaItaliano
Data di uscita23 feb 2022
ISBN9791220392785
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    Anteprima del libro

    La coscia di Pitagora - Marcello Vicchio

    Prologo -

    Alessandria d'Egitto, 5 luglio 1798

    II capitano Lagrange si irrigidì in un perfetto saluto militare appena varcato l'uscio della stanza dove il generale aveva stabilito la sua residenza, dopo l'occupazione militare della città.

    - Le ho portato qualcosa di interessante, generale - disse, mostrando l'involucro che teneva sotto il braccio. Il generale Duchamp scrutò con curiosità il voluminoso pacco e invitò con un cenno il subalterno a posarlo sulla scrivania.

    - Riposo, capitano. Spero proprio che lo sia, perché non posso perdere tempo quando migliaia di soldati devono essere dissetati e alloggiati in questa fogna di città.

    Sul viso grifagno del capitano, deturpato da una cicatrice rossastra che dalla fronte scendeva fino allo zigomo, passò un lampo di piacere. Conosceva bene la passione del suo generale per l'archeologia e provava una sincera soddisfazione nel procurargli del materiale per la sua collezione: era un modo per sdebitarsi per tutto ciò che il superiore aveva fatto per lui in tanti anni di servizio.

    - Non le farò sprecare altro tempo, dunque. Fino a questa mattina questa roba si trovava nella casa di un riccone del luogo, un certo Abdul Pascià. Alcuni soldati del mio reparto l'hanno saccheggiata dopo l'occupazione della città, ma sono comunque riuscito a togliere qualcosa dalle loro mani. Ho dovuto fare un po' la voce grossa con quei bastardi.

    Il generale Duchamp sospirò: - Purtroppo i ladroni senza cervello non sono rari neppure nell'esercito di Francia.

    Il tono del capitano accese comunque il suo interesse per il fagotto di stracci poggiato sulla scrivania. Prese l'involucro e lo srotolò delicatamente, facendo cadere il contenuto sul ripiano. Un mucchietto di oggetti preziosi, saccheggiati chissà quando in qualche antica tomba profanata, luccicavano davanti ai suoi occhi. Pescò dapprima una fibbia d'oro minutamente cesellata e la esaminò con attenzione, passandovi più volte sopra le punte delle dita; poi la sua attenzione venne catturata da una statuetta di malachite, raffigurante una figura umana con testa di cane.

    - È antica arte egizia di pregevole fattura: il nostro Abdul Pascià è un intenditore - commentò infine. Fece un cenno con la mano. - Il resto è tuo, te lo sei meritato.

    Il capitano batté i tacchi e disse:- Grazie, generale.

    Duchamp ritornò alle carte che stava esaminando, ma sollevò subito dopo la testa, contrariato dal fatto che, sebbene congedato, il capitano non accennava ad andarsene.

    - C'è altro?

    Lagrange esitò ancora un istante, poi estrasse un pezzo di pergamena dalla tasca della giubba.

    - Vorrei consegnarle anche questa: credo sia scritta in greco. Il defunto Pascià la teneva accuratamente nascosta dentro un doppiofondo di un cassetto della scrivania, perciò sospetto che si tratti di un documento importante. Non immagino mani migliori delle sue per conservarlo, generale.

    Duchamp non fece commenti sulla sorte di Pascià e dissimulò il subitaneo interesse per l'oggetto (abitudine sempre utile di fronte ai subordinati, quella della dissimulazione) prendendo con noncuranza la pergamena con due dita e lanciandole un'occhiata distratta. Era effettivamente scritta in greco antico, una lingua che conosceva perfettamente, tranne che per due parole incise in caratteri latini, che saltavano subito agli occhi: Copia Turii.

    Quelle parole gli ricordavano qualcosa. Probabilmente una città, o una località strategica... non sapeva al momento. Avrebbe dovuto controllare, quando avrebbe avuto un poco più di tempo.

    -1-

    Castrovillari, Regno delle Due Sicilie

    Calabria, 16 gennaio 1799.

    Le mani del dottor Augusto Cannarelli furono percorse da un tremito quando strinsero la copertina del piccolo quaderno. Fu come se, al contatto delle dita, un fluido misterioso si fosse sprigionato dalle pagine, fittamente riempite di una scrittura ricca di svolazzi, ma pulita e decisa, e gli avesse preso il cervello, facendo vibrare corde da tempo mute. In pochi istanti vent'anni di fraterna amicizia corsero davanti agli occhi, scanditi dal ritmo convulso del cuore che martellava violentemente nel petto, in una cascata di singoli episodi legati solo dal filo di un affetto profondo. Ricordi, non rimanevano che questi

    Aveva immediatamente riconosciuto la persona che aveva bussato alla sua porta quella sera: era Serafino, il fattore e uomo di fiducia di Vito Garonda. La sua figura corpulenta era emersa dal buio e si era mostrata al chiarore proiettato dalla lampada, non appena egli si era affacciato alla finestra di casa che dava sul piccolo ballatoio esterno.

    - Ho da parlarvi con la massima urgenza, dottore - aveva detto a mezza voce il fattore.

    Una volta dentro aveva srotolato, con gesti nervosi, un involucro di stoffa che teneva sotto il braccio, mormorando cupo:- Il padrone è morto. Tempo addietro mi aveva affidato il compito di consegnarvi questo pacco, se gli fosse accaduto qualcosa.

    Quell'annuncio laconico, più agghiacciante di mille allocuzioni funebri, era stato la peggiore conferma dei timori che aveva nutrito in quei giorni per la sorte dell'amico. Vito Garonda, eminente giudice vicario del Tribunale della città di Rossano, fratello per il quale non gli sarebbe sembrato troppo sacrificare la vita stessa, era andato cocciutamente incontro al proprio destino, secondo quanto affermava Serafino.

    -I francesi? O i giacobini di casa nostra?

    - Tutti e due.

    Negli occhi di Serafino era comparso un luccichio, subito ricacciato indietro da un battere di palpebre.

    - Li hanno assaliti, c'era anche il signor De Frattolis con lui, e non hanno avuto pietà. Solo Ceschina è stata risparmiata.

    In un accesso di rabbia impotente aveva sferrato un pugno sul tavolo, come se il dolore avesse potuto esorcizzare il rimorso dal quale era stato invaso.

    -Avrei potuto fare qualcosa di più per convincerlo a mettersi in salvo quando il pericolo si era fatto vicino; avrei dovuto costringerlo a fuggire da Rossano, come tanti hanno fatto prima che arrivassero i francesi. Non dovevo cedere alla sua testardaggine.

    Serafino aveva scosso la testa.

    - Ci ho provato anch'io, ma il padrone non ha voluto sentire ragioni. Per lui i giacobini condannati in tribunale non erano altro che malfattori comuni, che avevano violato le leggi del Regno millantando una fede rivoluzionaria. Egli credeva di essere nel giusto davanti a Dio e agli uomini e perciò di non aveva nulla da temere. Ma quelli che lo hanno assalito erano belve feroci, non uomini.

    Il fattore se ne era andato via, lasciandogli l'eredità dell'amico sul tavolo.

    Dall'involucro, strettamente legato da una cordicella, Cannarelli aveva estratto un rotolo di pergamena e un quaderno dalla copertina nera.

    Sul risvolto si leggeva: "Mio caro amico, quando ho cominciato a tenere un diario degli eventi che hanno costellato il mio recentissimo passato, vi era in me un latente desiderio che tu potessi leggerlo. I tempi in cui viviamo non ci consentono di essere sicuri del domani, nonostante la coscienza sia tranquilla, e pertanto, se qualcosa di irrimediabile dovesse accadere, voglio che sia tu a leggere questo scritto. A essere sincero nutro la speranza che un giorno sia io stesso a mostrartelo, quando sarà passata la bufera, per farci un sacco di risate sulle mie scarse doti letterarie; ma, per ogni evenienza, desidero fortemente non lasciare nulla al caso. Come tu ben sai per la professione che svolgi, il filo che ci lega a questa vita non è che sia poi così solido e tutto può accadere in qualsiasi momento. Una cosa ancora: in questo diario scrivo anche della tua persona e di un incontro che abbiamo avuto qualche tempo fa. Allora lo intuisti: quell'incontro è stato molto importante per me e ora te ne do conferma, come del resto capirai leggendo questo diario.

    Con stima e affetto, Vito Garonda.

    Due mani leggere gli si poggiarono sulle spalle.

    - Clara, non ti ho sentita arrivare.

    Sua moglie lo guardò con espressione accigliata.

    - Mi sembri preoccupato. Chi era quell'uomo? Cattive notizie?

    Cannarelli annuì.

    - Non potevano essercene di peggiori: Vito è morto.

    - Mio Dio... Morto!

    Gli occhi verdi della donna si addolcirono. Allungò le braccia intorno al collo del marito seduto e adagiò commossa la guancia sui suoi capelli.

    - Mi dispiace - disse con voce rotta. - So quanto gli fossi affezionato. Com'è accaduto? Una disgrazia?

    - Un assassinio. Giacobini e francesi non gli hanno perdonato la fedeltà al Re e ci hanno privato della persona più nobile e mite di quello che, fino a poco tempo addietro, era il Regno di Napoli.

    Le mostrò il quaderno che teneva in mano.

    - Ha affidato questo al suo fattore, l'uomo che era qui poco fa, perché me lo consegnasse.

    La donna fece per parlare, ma fu interrotta da un dito sulle sue labbra.

    - Ti prego, niente più domande. Desidero rimanere solo, se non ti dispiace.

    Lei gli sfiorò la bocca con la sua.

    - Come vuoi. Non fare tardi, - aggiunse uscendo.

    Prima che la porta si richiudesse alle sue spalle, udì appena la voce di Clara che gli sussurrava: Coraggio, ma la sua mente era già piena della voce di Vito, che sembrava levarsi dalle pagine del diario.

    Rossano, Calabria, Regno delle Due Sicilie, 3 novembre 1798

    Anni or sono ricevetti in eredità una vecchia casa di campagna nei pressi di Turio. È questo, al giorno d'oggi, un piccolo paese di contadini che sorge nella piana di Sibari. Il nome di Sibari ha sempre evocato ai miei occhi i bagliori di un passato glorioso: Sibari la potente, l'orgogliosa, la dissoluta che un giorno, scomparve dalla storia sotto la melma del fiume Crati.

    La casa sorgeva su una bellissima collinetta circondata da un folto boschetto con, nei pressi, una fonte di acqua purissima; così, non appena appresi che una mia zia me ne aveva fatto dono morendo, in me si fece strada l’idea di farne un luogo ideale di riposo, dopo i gravosi impegni settimanali nel tribunale di Rossano. Tra una incombenza e l’altra, un po' per trascuratezza e un po' per pigrizia, fu soltanto nel settembre di quest'anno che decisi di intraprendere qualche lavoro di restauro.

    La casa era in pessime condizioni: un'ala era molto segnata da crepe, i muri erano pieni di erbacce e il tetto sfondato in più punti. Decisi che l'opera di restauro doveva essere quanto più drastica possibile, con l'abbattimento di un'intera ala e la sua successiva ricostruzione. Quando ormai i lavori procedevano a buon ritmo, un improvviso avvallamento del terreno rese necessario un muro di sostegno della struttura. Il 3 di novembre, mentre si effettuavano gli scavi per erigere il muro, la nostra terra di Calabria, ricca di innumerevoli tesori, intese restituirne alcuni che aveva inghiottito. Nulla di eccezionale: qualche dito di una statua di marmo, qualche coccio d'anfora, parecchi pezzi scanalati di antiche colonne e, infine, un paio di metri quadrati di un pavimento che, da quanto si poteva osservare, era fatto anch'esso di marmo lavorato a mosaico e raffigurante la testa e parte dell'addome di un insetto, probabilmente uno scarabeo. A quel punto ordinai di sospendere i lavori, per avere tempo di riflettere. Abituato com'ero, infatti, a vivere a contatto con il male, con ladri, assassini, tagliagole e borseggiatori, si era fatta subito strada in me l'idea che gli operai, attirati dal pensiero di poter depredare qualche oggetto prezioso, avrebbero potuto distruggere un'opera d'arte o, peggio ancora, ritornare in forze e compiere scempi inauditi. Mi dispiaceva lasciare la casa priva di un importante puntello, ma mi dispiaceva ancor di più annientare quella che, ad una prima occhiata, sembrava una pregevole opera artistica. Presi quindi una decisione: era alle porte una festività paesana che tutto il popolino onorava, giorno ideale per ritornare accompagnato da due uomini di assoluta fiducia, il mio fattore Serafino e suo figlio Francesco, e riprendere i lavori senza rumore. Lo scopo era quello di allargare ulteriormente il perimetro dello scavo, per valutare se fosse possibile divellere i marmi dal pavimento e ricomporli in un altro posto, magari a lato della casa restaurata o anche al suo interno. Sarebbe stato un meraviglioso decoro e, in più, avrebbe pacificato la mia coscienza artistica.

    Infatti un paio di giorni più tardi ritornammo armati degli attrezzi necessari e, dopo che avemmo liberato il resto del pavimento dalla terra che lo ricopriva, Francesco suggerì di staccare una lastra: le altre sarebbero venute poi via con relativa facilità.

    Sennonché, dopo qualche deciso colpo di martello e punzone, parte del pavimento improvvisamente crollò e io rimasi meravigliato a guardare il buco che si era creato. Vi era una specie di cantina là sotto? Un sotterraneo? Strisciai fino all'orlo dell'apertura e provai a sbirciare dentro, ma il buio mi impedì di scorgere alcunché. Mandai Serafino a prendere una lampada a olio che tenevo sul carrozzino, contando impaziente ogni secondo che passava, divorato dalla curiosità. C'era qualcosa nascosto là dentro?

    Finalmente Serafino tornò portando la lampada e, molto opportunamente, anche un pezzo di corda. Respinsi fermamente le sue proteste circa il pericolo di calarmi in un posto che poteva rivelarsi insicuro, perché l'eccitazione mi faceva quasi sragionare. Accettai solamente che egli mi accompagnasse nel pertugio mentre suo figlio sarebbe rimasto fuori di guardia, pronto a soccorrerci se vi fosse stato pericolo. Scivolai giù, e Serafino dopo di me.

    Alla fioca luce della lampada capimmo di trovarci in un'ampia sala sotterranea completamente spoglia, tranne che per tracce di antichi stucchi alle pareti e sul soffitto a volta e due ordini di colonne ai lati. I nostri piedi affondavano in una polvere finissima che ricopriva totalmente il pavimento. Ovunque vi era un odore come di funghi andati a male, di terra e di antico. Dentro di me un senso di delusione aveva preso il posto dell'euforia del primo momento: non potevo negare che anch'io avevo sperato di scoprire tesori, cimeli, preziosi. Una sala segreta, proprio perché celata agli occhi comuni, avrebbe dovuto occultare a sua volta qualcosa, anche una piccola cosa; ma là sotto non vi era proprio nulla. Avanzammo di qualche passo, sollevando le lampade bene in alto, e scrutammo nei recessi più bui. A un tratto Serafino sobbalzò: in un angolo remoto aveva scorto un grosso cumulo di terra che rompeva la, fino ad allora, monotona uniformità dell'ambiente. Ci guardammo per un attimo e poi, all'unisono, ci precipitammo verso il cumulo e prendemmo a scavare freneticamente a mani nude, finché sotto le nostre dita non avvertimmo il contatto freddo del metallo. Rimuovemmo di buona lena e con facilità tutto il terriccio e, alla fine, Serafino soffiò con forza sulle ultime tracce di polvere sul coperchio e grugnì di soddisfazione. Avevamo riportato alla luce una cassa tutta incrostata ma perfettamente sigillata.

    Asciugandoci il sudore, io e Serafino ci guardammo: nei suoi occhi vidi brillare un lampo di curiosità che mi fece sorridere. Il mio fattore è una persona solitamente imperturbabile, la cui unica preoccupazione è quella di sorvegliare l'abbondanza dei raccolti nei miei poderi. L'ho visto alterarsi soltanto dopo qualche grandinata particolarmente intensa o durante gli sporadici periodi di siccità estiva che affliggono la nostra terra: più preoccupato della salute delle piante che di quella degli uomini. In quel momento sembrava più che altro contento di non aver sprecato energie inutilmente.

    Provammo a sollevare il baule: era piuttosto pesante, ma meno di quanto potessimo attenderci. Illusi che fosse pieno di oggetti preziosi, sollevandolo rimanemmo delusi. Se dentro vi erano dei preziosi, la quantità doveva essere irrisoria. Mi avvicinai alla bocca del solaio e ordinai a Francesco, rimasto di sopra, di passarmi una pala. Facendo leva con essa, dopo vari tentativi, riuscimmo finalmente a scardinare il coperchio dello scrigno. Serafino sbirciò per primo dentro la cassa e subito se ne ritrasse insoddisfatto, sputando di disappunto per terra. All'interno c'erano soltanto alcuni rotoli di pergamena. Ancora non lo sapevo, ma si trattava di un tesoro inestimabile. Feci trasportare a casa mia, a Rossano, il baule di bronzo coi rotoli di pergamena. Congedai Serafino e Francesco con una lauta mancia, raccomandando loro di non far parola con nessuno del ritrovamento. Essi stessi, sottolineai, avevano visto che non vi erano tesori, ma solo alcune pergamene erose dal tempo chiuse in una cassa di nessun valore. In verità, in cuor mio, non mi dispiaceva l’idea di chiudermi nello studio ed esaminare i rotoli con attenzione, poiché pensavo che se qualcuno si era preso la briga di seppellirli sotto il pavimento, vi doveva pur essere una valida ragione.

    I rotoli, ad un primo esame, sembravano piuttosto malridotti. Notai qua e là chiazze di muffa. La pergamena, in alcuni punti, era indurita e tendeva a sbriciolarsi sotto le dita. Sollevai delicatamente un lembo che un tempo doveva essere stato fermato da un nastro di tela e lessi il primo rigo. Era scritto in greco antico, una lingua che masticavo appena. Tradussi pressappoco così:

    Queste sono le parole di Clinia di Turio, così come le ha ricevute da Polimneste di Fliunte...

    Mi fermai, cercando di non compiere gesti affrettati. Un intimo conflitto si stava scatenando in me: da un lato il desiderio di andare avanti e leggere il resto, dall'altro il timore che la fretta di procedere mi potesse far rovinare quel documento. Non sapevo ancora quanto fosse importante, ma mi sembrava un peccato sciuparlo per una leggerezza dopo che la Fortuna aveva deciso che cadesse in mano mia dopo chissà quanti secoli. Cercai di riflettere: mentre il nome di Clinia di Turio non mi faceva tornare alla mente alcunché di importante, nel leggere di Polimneste di Fliunte qualche reminiscenza degli studi giovanili affiorò, ma troppo povera e scarna perché potessi individuare il personaggio. Mi sembrava di aver letto di lui da qualche parte, ma nulla più. Andai avanti, traducendo con difficoltà:

    ...che le ricevette, attraverso Diocle, da Echecrate, Senofilo Calcidese, Policrate Crotoniate, Crisodemo Lacedemone e da Filolao di Turio che le aveva apprese da Filesia. Esse narrano le imprese di Senofonte Ateniese e dei greci, dopo la morte di Ciro per mano del fratello Artaserse...

    L'angolo della pergamena che stringevo in mano si sbriciolò perché, per la viva delusione, non riuscii a trattenere un gesto di stizza. Si trattava soltanto dell'Anabasi di Senofonte, ossia nulla di prezioso, perché la famosa ritirata dei diecimila mercenari greci, dopo la sconfitta di Cunassa del 401 a. C., era nota a chiunque avesse un minimo di istruzione classica. Tutti ci eravamo commossi per le peripezie di quei soldati valorosi che, intrappolati nel cuore dell'impero persiano e circondati da nemici preponderanti per numero e mezzi, erano riusciti a ritornare al mondo civile dopo una lunga e sanguinosa ritirata, facendo affidamento solo sull'intelligenza e sul coraggio. Per quanto bella, era solo l’Anabasi, di Senofonte, diamine!

    Ero tanto seccato da quell’ alternarsi di speranze e delusioni che, quando udii un rumore di zoccoli proprio sotto la finestra e un rude cozzare del batacchio della porta, fui veramente contento. Quella sera avevo un ospite a cena, un ospite oltremodo gradito che, vista la situazione, capitava veramente a puntino. Si trattava di Eugenio De Frattolis, un amico di lunga data, persona di nobile famiglia, sommamente appassionato di fatti antichi e cronache moderne. Abbiamo l'abitudine di farci visita con una certa frequenza: noi due non abbiamo mogli né figli, un po' di tempo libero a disposizione e dividiamo una comune passione per gli scacchi. Da qualche tempo, però, il nostro argomento preferito di conversazione era la storia, soprattutto le imprese del generale Bonaparte.

    Siamo d'accordo nel considerarlo solo un avventuriero che, col pretesto di ergersi ad alfiere dei princìpi cosiddetti rivoluzionari di Parigi, a null'altro mira se non a ritagliarsi un impero personale nel cuore dell'Europa.

    Quando, qualche mese prima, era giunta la notizia che la flotta repubblicana di Francia era stata pesantemente sconfitta dall'Ammiraglio Nelson ad Abukir, in Egitto, il giubilo che ci aveva colto era stato pari all'illusione che fosse scoccata l'ora della riscossa contro la tracotanza francese. I francesi stavano umiliando sempre di più gli stati italiani, giungendo perfino ad insediarsi con spregio e prepotenza in Campidoglio e, da ultimo, avevano rivolto lo sguardo rapace verso l'unico stato della penisola ancora libero: il nostro. Speravamo che quella sconfitta avesse fermato un'avanzata fino ad allora irresistibile.

    Ceschina, la mia governante, come di consueto introdusse l'ospite in salotto, dove lo raggiunsi di lì a poco. Trovai Eugenio sprofondato nella solita poltrona, le lunghe gambe esili accavallate e già con un bicchiere di Porto in mano. Non appena mi vide tracannò il liquore d'un fiato, schioccò le labbra ed esclamò:- Ottimo! Ben trovato, amico mio.

    Ci salutammo cordialmente e, prima ancora che avesse il tempo di pronunciare altre parole, dissi:

    -Capiti proprio a proposito, ho da rivelarti una cosa.

    Il mio tono e l'espressione del viso dovettero colpirlo, perché strinse il monocolo sull'occhio destro e sollevò contemporaneamente il sopracciglio dell'altro, ostentando una educata curiosità.

    - Perbacco, - osservò infine - non ti ho mai visto così in tensione per una partita a scacchi.

    - Sì, sì; ho da dirti una cosa e farti vedere un 'altra. Se vuoi seguirmi...

    Gli feci cenno di venire con me nello studio, dove gli mostrai i rotoli sul tavolo. Fui lesto a bloccare la sua irruenza poiché si stava precipitando ad afferrarli, mandando la sua compostezza alle ortiche. Lo feci sedere e gli narrai la storia del ritrovamento.

    - Una cassa di bronzo contenente pergamene... - rifletté ad alta voce, mentre il suo pizzetto spruzzato qua e là di bianco vibrava di eccitazione, quasi a pregustare una ghiotta scoperta. Sapevo fin dal primo momento che lo avrei messo al corrente della scoperta, poiché conoscevo la sua padronanza della storia e della lingua della Grecia antica (era il suo lavoro); e, in più, non volevo privarlo e privarmi della gioia di esaminare insieme un autentico manoscritto d'epoca. Mi sarebbero stati preziosi i suoi dotti commenti.

    Eugenio fissava le pergamene con rispetto religioso.

    - Sapevi che fossero là sotto? - domandò, con una punta di invidia.

    - No, ho solo avuto un colpo di fortuna - risposi.

    Egli prese a esaminare con attenzione un rotolo, inquadrandolo con l'occhio ingrandito dalla lente del monocolo. A tratti emetteva piccoli grugniti di soddisfazione.

    - Sembrano autentiche e sono conservate non troppo male - commentò infine.

    - Credo che gli scacchi questa sera possano andare a farsi benedire. Se non altro, grazie a queste pergamene, avrai evitato la solita sonora sconfitta.

    Ridendo, mi recai velocemente in salotto e tornai con la bottiglia di Porto. Eugenio trangugiò un'abbondante sorsata e si pulì la bocca con un fazzoletto di seta, che trasse dal taschino.

    - Non è il caso di eccitarsi tanto per un doppione - dissi con candore volutamente esagerato. - Ero altrettanto entusiasta in principio, amico mio, ma tutto l’ardore si è dissolto quando mi sono accorto di essere incappato in una copia dell'Anabasi di Senofonte. Se avevi già fatto pensiero di metterti a tradurre le pergamene, ebbene puoi accantonare l’idea: sarebbe un lavoro inutile.

    Eugenio abbandonò la pergamena sul tavolo, lanciandole un'occhiata colma di delusione.

    - Accidenti a te e agli scherzi che fai! - sbottò. - Prima mi fai balenare il pensiero di una scoperta archeologica importante e poi mi presenti una minestra riscaldata. Confesso che cominciava a piacermi il pensiero di avere fra le mani un'opera antica della quale non erano stati ritrovati finora neppure dei frammenti.

    Occhieggiò la bottiglia di vino.

    - Temo che per zittire il mio animo profondamente deluso ci vorrà tutta la bottiglia.

    Io mi avvicinai al tavolino con la scacchiera, che faceva mostra di sé vicino al caminetto, fregandomi le mani infreddolite - C'è tempo di dare inizio alla partita prima che la cena sia pronta. Stasera il bianco tocca a me.

    Iniziammo la partita senza altri indugi. Dopo che ebbi fatto le prime tre mosse con pedone, cavallo e alfiere, Eugenio sogghignò.

    - Aha... L'apertura ideata da Gianuzio. Molto interessante.

    Mentre si lisciava il pizzetto, assorto, mi sembrò quasi di sentire un perfetto meccanismo di precisione mettersi in azione dentro il suo cervello per estrarre, dai recessi della sua prodigiosa memoria, le contromisure alle mie mosse, tutte già perfettamente studiate in precedenza.

    - Se non ti sapessi capace di ricordare a menadito gli schemi di innumerevoli aperture di scacchi, direi che fai così per tentare di impressionarmi.

    Allargai le braccia. - Ma che gusto c'è a giocare così? Non è più divertente inventare volta per volta, piuttosto che ridurre tutto quanto a un meccanico susseguirsi di mosse e contromosse precedentemente schematizzate ?

    - Matematicamente predeterminate, direi – replicò, spocchioso.

    - Il gioco degli scacchi è matematica; e sono proprio le prime mosse le più importanti, perché permettono di eliminare un gran numero di varianti e riconducono gli eventi successivi entro binari noti. Inoltre quelli che tu definisci schemi sono importantissimi, poiché consentono di risparmiare energie che saranno utili nel proseguimento della partita, al momento opportuno. Amico mio, non sarai mai un buon giocatore di scacchi se non segui i miei consigli.

    - Nomi... Si dà un nome a tutto - replicai in tono scherzoso.

    - Questa è l’apertura secondo Gianuzio, quell'altra secondo Polerio o Salvio... Bla... bla... bla. È un difetto comune a tutti i tempi: anche quelle pergamene esordiscono con una sfilza di nomi.

    Eugenio annuì chiudendo gli occhi. Il pizzetto puntò verso l'alto mentre declamava con voce grave: - Vediamo se la mia memoria è ancora buona. L’Anabasi inizia

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