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Interludio Cento di questi anni
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E-book158 pagine1 ora

Interludio Cento di questi anni

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Info su questo ebook

Questo romanzo è il sequel ucronico di "Cento di questi anni. Preludio". I personaggi attraversano una storia immaginaria che dal 1958 arriva fino a i giorni nostri, una storia completamente diversa da quella che c'è davvero stata ma che in qualche modo, soprattutto nella parte finale, rimanda alle paure e alle speranze che realmente impegnano l'uomo contemporaneo.
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2020
ISBN9788831665940
Interludio Cento di questi anni

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    Anteprima del libro

    Interludio Cento di questi anni - Pietro Ferrari

    sequel

    Pie­tro Fer­ra­ri

    In­ter­lu­dio Cen­to di que­sti an­ni se­quel

    TI­TO­LO | In­ter­lu­dio- Cen­to di que­sti an­ni se­quel

    AU­TO­RE | Pie­tro Fer­ra­ri

    ISBN | 978-88-31665-94-0

    Pri­ma edi­zio­ne di­gi­ta­le: 2020

    © Tut­ti i di­rit­ti ri­ser­va­ti all'Au­to­re.

    Que­sta ope­ra è pub­bli­ca­ta di­ret­ta­men­te dall'au­to­re tra­mi­te la piat­ta­for­ma di sel­fpu­bli­shing You­can­print e l'au­to­re de­tie­ne ogni di­rit­to del­la stes­sa in ma­nie­ra esclu­si­va. Nes­su­na par­te di que­sto li­bro può es­se­re per­tan­to ri­pro­dot­ta sen­za il pre­ven­ti­vo as­sen­so dell'au­to­re.

    You­can­print Self-Pu­bli­shing

    Via Mar­co Bia­gi 6, 73100 Lec­ce

    www.you­can­print.it

    in­fo@you­can­print.it

    Qual­sia­si di­stri­bu­zio­ne o frui­zio­ne non au­to­riz­za­ta co­sti­tui­sce vio­la­zio­ne dei di­rit­ti dell’au­to­re e sa­rà san­zio­na­ta ci­vil­men­te e pe­nal­men­te se­con­do quan­to pre­vi­sto dal­la leg­ge 633/1941.

    Ben al­tri in­di­vi­dui avreb­be­ro me­ri­ta­to di es­se­re qui rac­con­ta­ti, ma an­ch’es­si sta­vol­ta e co­mun­que, ma­sche­re in­si­gni­fi­can­ti avreb­be­ro in­dos­sa­to sul vol­to.

    Ci so­no mo­men­ti che si le­ga­no ad una più in­ten­sa ve­lo­ci­tà, co­me fer­ra­glie sot­ti­li cat­tu­ra­te da una gran­de ca­la­mi­ta, mo­men­ti che spin­go­no da sen­tie­ri im­per­vi ad ario­se ra­du­re. Mo­men­ti co­me fo­to­gram­mi, che tro­va­no un sen­so ap­pe­na vi­sti nel flui­re del­la lo­ro di­re­zio­ne, co­me tra­spor­ta­ti da un di­ret­to­re d’or­che­stra che sa agi­ta­re quel­la ca­la­mi­ta a mo’ di ves­sil­lo. Il tem­po sem­bra ca­la­re un si­pa­rio quan­do gli at­to­ri fan­no l’in­chi­no, ma il pub­bli­co non è sem­pre con­sa­pe­vo­le al­la pri­ma di un’ope­ra di qua­le sa­rà la pros­si­ma sce­na, qua­li no­te mu­si­ca­li la con­dur­ran­no e co­me sa­ran­no, se mo­no­to­ne e ca­ta­to­ni­che co­me l’eco di uno stil­li­ci­dio in una grot­ta o se scal­pi­tan­ti co­me gli zoc­co­li di ca­val­li sel­vag­gi tra le im­men­se step­pe. Qual­cu­no im­ma­gi­na di vi­ve­re dun­que da pro­ta­go­ni­sta l’ach­mé di una cli­max cre­scen­te, men­tre for­se nel­lo sfol­go­rìo del­le ar­ca­ne co­reo­gra­fie è sol­tan­to un qua­lun­que spet­ta­to­re di un in­ter­mez­zo. Il fi­gu­ran­te di un in­ter­lu­dio.

    ***

    Gio­van­ni se ne sta­va ac­quat­ta­to nel suo bu­gi­gat­to­lo pol­ve­ro­so, tra chin­ca­glie­rie d'an­tan, umi­di opu­sco­li di viag­gia­to­ri cin­que­cen­te­schi, uten­si­li ar­cai­ci tra­fu­ga­ti da ra­du­re pe­de­mon­ta­ne o sco­va­ti sot­to i fun­ghi, sta­tuet­te ab­ban­do­na­te da an­ti­qua­ri squat­tri­na­ti e va­sel­la­me d' oc­ca­sio­ne re­pe­ri­to nel­le aste de­gli og­get­ti smar­ri­ti. Tra gli scaf­fa­li del­la sua im­pro­ba­bi­le gip­so­te­ca vi era an­che qual­che pez­zo d'au­to­re vin­to a car­te con­tro gen­ti­luo­mi­ni dis­so­lu­ti, si­gno­rot­ti de­ge­ne­ra­ti che usa­va­no co­me pe­gni per i lo­ro vi­zi, i gio­iel­li di fa­mi­glia.

    Si in­tra­ve­de­va l’om­bra di un pas­san­te che si di­ri­ge­va ver­so l’in­gres­so del suo bu­gi­gat­to­lo, sem­bra­va al­to e zop­pi­ca­va un po’ fi­no a quan­do non aprì la por­ta.

    - Si ac­co­mo­di pu­re, ven­ga e non fac­cia ca­so al di­sor­di­ne.

    - Buon­gior­no, so­no un tu­ri­sta te­de­sco che al­log­gia qui vi­ci­no; mi oc­cu­po di nu­mi­sma­ti­ca e vor­rei da­re un’oc­chia­ta al ne­go­zio.

    - Ci man­che­reb­be, pre­go, le mo­stro i pez­zi che ab­bia­mo, è tut­ta ro­ba del pe­rio­do an­gioi­no ed ara­go­ne­se. Ab­bia­mo an­che dei ma­ra­ve­dis di Car­lo V con cui il so­vra­no pa­gò An­to­nio Pi­ga­fet­ta al se­gui­to dell’esplo­ra­to­re Ma­gel­la­no.

    Lo­thar Zie­ge con le sue fe­rie ar­re­tra­te da re­cu­pe­ra­re, in­tan­to ave­va già vi­si­ta­to Ve­ne­zia, Fi­ren­ze e ades­so a Na­po­li cer­ca­va pro­prio mo­ne­te dell’an­ti­co re­gno, pres­so­ché in­tro­va­bi­li al­tro­ve.

    Lo­thar già ave­va avu­to mo­do di vi­si­ta­re la pe­ni­so­la ita­li­ca. Una ma­sche­ra fu­ga­ce lo ave­va ra­pi­to tra i vi­co­li neb­bio­si di Ve­ne­zia, una ma­sche­ra che la­scia­va tra­spa­ri­re sul col­lo un vi­sto­so ta­tuag­gio. Ogni tan­to gli tor­na­va in men­te, co­me se quel­la vi­sio­ne fos­se col­le­ga­ta ad uno stra­no omi­ci­dio av­ve­nu­to a Bu­ra­no di cui ave­va let­to l’in­do­ma­ni del Mar­te­dì Gras­so sul gior­na­le. For­se li­be­re as­so­cia­zio­ni men­ta­li, di­scon­nes­se sug­ge­stio­ni, del tut­to ar­bi­tra­rie, ma Lo­thar ogni tan­to ci ri­pen­sa­va.

    Una gon­do­la pie­na di ve­tro sof­fia­to che co­pre il ca­da­ve­re di un ame­ri­ca­no. Que­sta in sin­te­si è l’im­ma­gi­ne che sve­glia dall’umi­da not­te la cit­tà la­gu­na­re. L’uo­mo era un tu­ri­sta ame­ri­ca­no, un in­ge­gne­re elet­tro­ni­co esper­to in si­ste­mi crit­to­gra­fi­ci. Gli in­qui­ren­ti so­no im­pe­gna­ti nel­la ri­cer­ca di te­sti­mo­ni e in­di­zi.

    Que­sti i re­so­con­ti mec­ca­ni­ci che ri­cor­da­va, ma ben al­tro lo ave­va col­pi­to.

    Quel­le ma­sche­re, co­sì so­len­ni e in­quie­tan­ti, mu­te e al­tis­si­me, tut­te com­po­ste ec­cet­to una…mah, sa­rà che quan­do ti tro­vi in un po­sto co­sì in­cre­di­bi­le co­me Ve­ne­zia non ti aspet­ti di es­se­re get­ta­to su­gli spal­ti di una sce­neg­gia­tu­ra, una sce­neg­gia­tu­ra che fi­ni­sce nel­la cro­na­ca ne­ra lo­ca­le. Ac­qua pas­sa­ta.

    Du­ran­te l’iti­ne­ra­rio in Ita­lia, Lo­thar ave­va già in­con­tra­to la de­le­ga­zio­ne di com­pa­trio­ti, giun­ta per se­gui­re gli aspet­ti or­ga­niz­za­ti­vi e lo­gi­sti­ci nell’in­te­res­se de­gli atle­ti te­de­schi che sa­reb­be­ro giun­ti a Ro­ma per le Olim­pia­di. Un at­ti­mo im­pa­sta­to di tri­stez­za e no­stal­gia lo as­sa­lì, ap­pe­na so­prag­giun­se in lui il pen­sie­ro di quel­le Olim­pia­di che mai riu­scì a rag­giun­ge­re, e che tra l’al­tro mai fu­ro­no ce­le­bra­te nel 1940. Quel ma­le­det­to in­ci­den­te che lo re­se zop­po per sem­pre, la sto­ria con Eva che eva­po­rò dal­le lo­ro vi­te e le tan­te sto­rie che eb­be suc­ces­si­va­men­te, più ma­tu­re e sod­di­sfa­cen­ti, ma for­se me­no in­ten­se. Sì, per­ché l’in­gre­dien­te ma­gi­co che co­lo­ra i cie­li è la gio­vi­nez­za in­te­rio­re.

    Ogni tan­to era pen­sie­ro­so. Pen­sie­ro­so co­sì, in qual­che mo­do va­gan­te ma que­sto non gli im­pe­di­va af­fat­to di pren­der­se­la un po’ co­mo­da e di di­strar­si con qual­co­sa di più ef­fi­me­ro o an­che ma­ga­ri di più se­rio ma del re­sto, al­me­no sin dai tem­pi di J. W. Goe­the, ai te­de­schi era sem­pre pia­ciu­to mol­to gi­ra­re, co­gi­ta­bon­di, per le cit­tà d’Ita­lia.

    - Re­sto a Na­po­li due gior­ni, do­ve pos­so pren­de­re un buon caf­fè?

    - Da tut­te le par­ti dot­tò, ma aspet­ta­te che mo ve lo pre­pa­ro qua, co­sì me lo ri­pren­do pu­re io. Ten­go la mo­ka sem­pre pron­ta.

    Nel frat­tem­po do­po aver vi­sto Gio­van­ni ge­sti­co­la­re, en­tra­ro­no nel ne­go­zio due suoi ami­ci con un vas­so­io di bab­bà, era­no Mi­che­le e Al­ber­to, gli ami­chet­ti del cor­ti­le, quel­li del­la fi­na­le mon­dia­le di Pa­ri­gi, quel­li del­la pic­co­la ban­da di fan­ciul­li sca­vez­za­col­lo che im­per­ver­sa­va­no nel quar­tie­re tra il 1935 e l’ini­zio del­la Guer­ra Ci­vi­le Eu­ro­pea.

    - Sal­ve, gra­di­te pu­re que­sta spe­cia­li­tà col caf­fè, se vo­le­te far­vi una gi­ta in bar­ca fi­no a Pro­ci­da sia­mo a vo­stra di­spo­si­zio­ne, pu­re se vo­le­te pe­sce fre­sco cot­to e man­gia­to.

    - Vi rin­gra­zio, ma­ga­ri ne par­lia­mo più tar­di se pas­sa­te sot­to l’al­ber­go, mi tro­vo in Via Fran­co Ga­lan­ti­ni.

    - Ah l’al­ber­go è quel­lo nuo­vo, sap­pia­mo dov’è e co­no­scia­mo pu­re la sto­ria del sol­da­to a cui han­no in­ti­to­la­to la stra­da. Mio zio mi rac­con­ta spes­so di lui, era un suo ami­co Fran­co Ga­lan­ti­ni, ca­du­to a Dun­quer­ke.

    - An­che io ho avu­to un ca­ris­si­mo ami­co, Karl Voel­ler, ca­du­to in quel­la bat­ta­glia. Ma­ga­ri si sa­ran­no pu­re co­no­sciu­ti.

    A Gio­van­ni era ca­pi­ta­to di ri­pu­li­re qual­che tu­ri­sta gio­can­do a car­te, ma sta­vol­ta una for­ma di par­ti­co­la­re ri­spet­to gli im­pe­dì di in­vi­ta­re Lo­thar ad una gio­ca­ta.

    Si sa­lu­ta­ro­no cor­te­se­men­te.

    Lo­thar chiu­se la por­ta del­la sua stan­za, qua­si co­me se aves­se get­ta­to di fuo­ri tut­to il re­sto del mon­do men­tre gi­ran­do­si, si re­ca­va ver­so la fi­ne­stra per apri­re le an­te. Ora non ave­va nes­su­no at­tor­no a sé e sa­pe­va che nean­che gli ad­det­ti al­le pu­li­zie lo avreb­be­ro di­stur­ba­to coi lo­ro sa­la­me­lec­chi e le lo­ro af­fet­ta­te di­spo­ni­bi­li­tà. Ne eb­be ge­li­do con­for­to, qua­si un fa­sti­dio. Quel­la bol­gia vo­cian­te di vi­ta, con­fu­sio­ne e tea­tra­li­tà gli ri­scal­da­va il cuo­re pu­re se, o ma­ga­ri pro­prio per­ché, co­sì dis­so­nan­te ri­spet­to al suo gri­gio e com­pas­sa­to aplomb. La ve­ri­tà co­me spes­so ac­ca­de è pe­rò un’al­tra. Tal­vol­ta la so­li­tu­di­ne si fa sen­ti­re quan­do me­no te l’aspet­ti.

    Quel­lo scien­zia­to paz­zo che co­nob­be da gio­va­ne, tra le sue sfre­na­te cor­se e i suoi stu­di eco­no­mi­ci, ogni tan­to gli tor­na­va in men­te. Quel­lo che pro­get­ta­va raz­zi spa­zia­li. Sì, per­ché la no­ia che ti as­sa­le la vin­ci se rie­sci ad ave­re de­gli ob­biet­ti­vi. Co­sa avreb­be fat­to di ri­tor­no in Ger­ma­nia? Il suo am­bien­te la­vo­ra­ti­vo do­po tan­ti an­ni gli da­va nau­sea, co­me può dar­la un te­nue ac­que­rel­lo guar­da­to trop­po in­ten­sa­men­te o trop­po a lun­go. Sof­fia­va un ven­to stra­no in Ger­ma­nia, co­me un con­trac­col­po a co­tan­ta po­ten­za sca­te­na­ta­si in quei for­mi­da­bi­li an­ni. Un ven­to cor­ro­si­vo di in­quie­te am­bi­zio­ni che agi­ta­va­no trop­pi no­vel­li ba­ro­ni. Un ven­to di cor­ru­zio­ne.

    Ria­prì la por­ta ed uscì d’im­pe­to dal­la stan­za. Ave­va bi­so­gno di tor­na­re nel­la bol­gia.

    Tor­nò al ne­go­zio di Gio­van­ni che sta­va per chiu­de­re, gli chie­se di chia­ma­re pu­re i suoi ami­ci, com­prò sta­vol­ta qual­che og­get­to ed in­vi­tò lui e gli ami­ci pe­sca­to­ri a ce­na.

    - Dot­tò, pri­ma che ve ne an­da­te vi fac­cia­mo ve­de­re i Quar­tie­ri Spa­gno­li e Ca­po­di­mon­te ma poi, ce lo do­ve­te pro­met­te­re dot­tò, do­ve­te pas­sa­re a Pom­pei e ad Amal­fi.

    - Ci ave­vo pen­sa­to.

    - Con una bel­la si­gno­ri­na pe­rò dot­tò, sa­reb­be me­glio.

    Lo­thar tor­na in Ger­ma­nia, con­su­ma­to dai rit­mi or­di­na­ri, tra let­te­re e one­ri la­vo­ra­ti­vi scri­ve­va il suo in­ter­mi­na­bi­le sag­gio sul­la mo­ne­ta, in­trat­te­nen­do scam­bi epi­sto­la­ri con ami­ci ame­ri­ca­ni per una tra­du­zio­ne in lin­gua in­gle­se. Dell’Ita­lia con­ser­va­va an­co­ra do­po an­ni un ri­cor­do di fa­sci­no so­la­re e di mi­ste­ro.

    Glen­da lo sa­lu­ta­va sem­pre con un to­no ga­lan­te che dis­si­mu­la­va la sua pas­sio­ne, a trat­ti con­te­nu­ta dal ruo­lo su­bal­ter­no di se­gre­ta­ria; uno ste­reo­ti­po quel­lo del fa­sci­no ge­rar­chi­co dal qua­le la leg­gia­dra fan­ciul­la sa­pe­va usci­re, rag­gi­ran­do­lo gra­zie ad una vo­ce sua­den­te. Lui dal to­no spar­ta­no, sem­pre se­rio­so e di­stac­ca­to la­scian­do le emo­zio­ni fuo­ri dai luo­ghi di la­vo­ro, por­ta­va an­co­ra ad­dos­so suo mal­gra­do quell’at­mo­sfe­ra na­po­le­ta­na, che poi è una va­rian­te di quel­la la­ti­na, gre­ca, ara­ba e me­di­ter­ra­nea. Ave­va vo­glia di cam­bia­re il rit­mo del­la sua vi­ta e quel­la ra­gaz­za co­sì gio­va­ne e chia­ra­men­te in­va­ghi­ta di lui, ri­schia­va di rap­pre­sen­ta­re un de­to­na­to­re mi­ci­dia­le o un tre­no da pren­de­re al vo­lo.

    Ci pen­sa­va.

    - Dot­tor Zie­ge sal­go in di­re­zio­ne e le por­to i fa­sci­co­li del­la fu­sio­ne so­cie­ta­ria, quel­la sot­to in­chie­sta.

    - Glen­da gra­zie per la tua pun­tua­li­tà. Fac­cio una pic­co­la pau­sa nel frat­tem­po.

    - Dot­to­re so­no con­fu­sa, mai mi ave­va da­to del tu.

    Una ci­vet­te­ria da gat­ta mor­ta un po’ trop­po af­fet­ta­ta che spiaz­zò per un at­ti­mo Lo­thar, di­sto­glien­do­lo dal suo già ti­mi­do ap­proc­cio.

    - Ha ra­gio­ne Glen­da, mi scu­si ma ero so­vrap­pen­sie­ro.

    No, idio­ta che fai? Ri­met­ti le di­stan­ze? Co­sì la mor­ti­fi­chi.

    Lei che già so­gna­va di chia­mar­lo sem­pli­ce­men­te Lo­thar, ven­ne a per­de­re l’en­tu­sia­smo co­me ge­la­ta, vi­si­bil­men­te in dif­fi­col­tà men­tre lui im­ba­raz­za­to la guar­da­va ine­be­ti­to.

    - No, ma mi ha fat­to pia­ce­re… cioè no, non si pre­oc­cu­pi dot­to­re. Va­do e tor­no.

    Non era il ca­so.

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