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La vita è brutta
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E-book156 pagine2 ore

La vita è brutta

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Info su questo ebook

Desideravo conoscere i luoghi della tragedia, la mia marmellata da rubare. Una sporca storia di provincia appena accennatami da Nick e Matt Ballettieri. Due brutti ceffi che per professione vivevano circondati dalla morte sviluppando un inquietante senso dello humour.
Nick teneva un diario delle proprie avventure, gelosamente custodito, in cui annotava le corbellerie dei pazienti che assisteva in punto di exitus.
Matt, un autentico figlio di puttana, risoluto, efficace, immediato, meglio morti che feriti, diceva. Sosteneva di essere l’unico al mondo ad aver colloquiato con una zombie solo perché in un esilarante caso di morte apparente, il cadavere della donna affidato alle sue cure si destò all’improvviso e gli sussurrò: “Giovanotto, mi sento tutta sfossata”. Evitava accuratamente di aggiungere, però, di aver completato l’opera per non perdere il cospicuo cachet.
LinguaItaliano
Data di uscita20 gen 2024
ISBN9791222498102
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    Anteprima del libro

    La vita è brutta - Michele Rubini

    Introduzione

    Cari lettori non voglio tediarvi con una lunga introduzione. Utilizzo queste poche righe per dichiarare il mio profondo rispetto per chi divora i libri. Questo romanzo nasce da lontano dalla morte che ho incontrato sin da bambino, prima per caso e poi per professione. Questo libercolo è una catarsi per cui non posso che ringraziarvi per la condivisione dei sentimenti vergati su carta.

    Buona digestione.

    Michele Rubini

    "Ti tranquillizza non dover pensare,

    e finisci schiavo di un principe fantoccio".

    Osvaldo Soriano

    La taverna del mancato frate

    Il bestione di ferro arrancava sul tortuoso asfalto, giganteschi tartufi somigliavano vagamente a pneumatici. Le impegnative curve a gomito si affacciavano sul precipizio, il mal d’auto non era un optional ma una certezza, una sorta di allenamento per ciò che mi aspettava. Milleseicento metri da scalare in prima e seconda, il marmittone ad ogni cambio di marcia sbuffava maleodoranti nubi di diesel. La strada ai lati era un cimitero di carcasse ambulanti, falsi zombie.

    Orrore a buon mercato.

    I viaggiatori erano in preda a piaceri orgasmici, urlavano e si accalcavano ai finestrini. C’era chi fotografava con molesti flash, chi abbracciava i propri figli, indicando col dito:

    «Eccoli Stefy, Marco, guardate sono qui, da questa parte».

    Uno zoo-zombie! Manco fossero cerbiatti, scimmiette e pavoni. Guardando dal finestrino i fotogrammi del viaggio, mi chiedevo se i colori autunnali ben si unissero al momento della consapevolezza degli esseri umani sulla caducità della vita. Domanda inutile, il cartello all’ingresso del paese recitava:

    Benvenuti nella città dei Fantasmi e degli Zombie.

    Non ero qui per un tranquillo week-end di paura, ma per documentare un fatto realmente accaduto. Pensavo alla macabra storia dello psicologo e della sua famiglia e intanto i sobbalzi dell'autobus pungolavano le vertebre lombo-sacrali sino a stimolare il vomito.

    Arrivai al paesino di prima mattina, in giro si respirava un’aria posticcia. Tutto costruito a dovere fin nei minimi dettagli. Nel prezzo del biglietto erano compresi falsi stermini e uccisioni. Hostess all’accoglienza rigorosamente attillate di rosso. Minibus per il trasporto dei turisti in città. Schiere di volontari in tenuta antisommossa procedevano compatti al suono della marcia trionfale dell’Aida. Confusionarie barriere contenitive costituite da carcasse di automezzi, banchi di scuola, travi e macerie di ogni sorta, accatastate e infilate alla rinfusa rappresentavano un approssimativo sistema difensivo anti-zombie. Uffici turistici e info point distribuivano ticket per l’ingresso nel parco dei divertimenti, i soldi scorrevano a fiumi, i bambini schiamazzavano inconsapevoli. Tutto perfetto, perverso e geniale.

    Benvenuti nella città dei Fantasmi e degli Zombie, e dei dollari facili.

    Per rendere tutto più verosimile vi erano qua e là fuochi per dissolvere tutto ciò che si ritenesse insensatamente infetto. Nei falò s’intravedevano suppellettili, carcasse di animali e manichini a simulare cadaveri, immolati in un unico e inseparabile fuoco purificatore. Dense e compatte, colonne di fumo s’innalzavano in cielo quasi a voler dare l’illusione di un ricongiungimento col divino. Tuttavia, il profumo dello zucchero filato, mi ricordava di essere in una grande e perfida sagra di paese. Musica, ricchi premi e cotillons.

    Stand ammucchiati uno accanto all’altro di commercianti annoiati, vendevano merchandising horror-zombie: T-shirt con pubblicità di serie televisive a tematica horror, cappellini con l’effige di Bub, maglie, pantaloni, giubbotti, guanti, pantofole, lingerie con illustrazioni zombie, perfino carta igienica con il viso di Romero, una schifezza assoluta, un circo della stupidità, un vero e proprio immondo business degenerativo.

    Questo scialbo zoo fruttava un sacco di quattrini e i soldi, si sa, sono per pochi esseri umani assetati di potere, denarocrazia. Il miraggio di un improvviso e spropositato guadagno economico aveva preso il sopravvento sulle menti più lucide tra i cittadini di questa città, il business aveva ottenebrato e corrotto anche i più illuminati. Poche le briciole a disposizione dei bifolchi, ma sembravano bastare.

    Arrotolai un pizzico di tabacco umidiccio in una cartina marrone che pretendeva essere biologica. Biologica un paio di palle. Dopo averla accesa, me la sparai nei polmoni, e i teschi sul pacchetto di tabacco parvero ghignare.

    Accesi nervosamente la sigaretta, diedi un click così energico allo zippo tanto da cadermi dalle mani. Magicamente l'accendino rimase pochi istanti per aria, prima che una mano ossuta lo afferrasse al volo e lo avvolgesse furtiva nella sua felpa. Guardai negli occhi la paffutella creatura, che sorrise. Gli occhi chiari e gentili, lo sguardo buono.

    Restituì immediatamente il maltolto e mi fece l’inequivocabile gesto con la mano: vuoi copulare? Le dilatai le pupille con un bigliettone da cinquemila centesimi che intascò con diffidenza. Disse di chiamarsi Cinzia e credo fosse la strappa mutande del paese. Cinzia si sbottonò parecchio sino a farsi vedere le pagnotte di lattosio, mi invitò più volte nella sua alcova per mungerla e, ovviamente, essere munto di altre banconote.

    Ci appartammo nella biblioteca comunale, l’ufficio pubblico era chiaramente deserto. Lei voleva scopare, io parlare. Le srotolai altri venti euro e finalmente mi raccontò dello psicologo, sul conto del quale conosceva particolari molto intimi.

    Mi pregò di non osare altre domande con gli abitanti perché ne avrei tratto solo sospetti e indifferenza:

    «È per il tuo bene».

    Allungò le punte dei piedi, diresse il suo corpo infuocato verso il mio addome. Quando la sua lingua si posò fulminea sul collo, il mio callo ebbe un sussulto da anguilla. Nessuno accenno di scuse, si allontanò con passo saltellante, si voltò, girò il capo, mi lanciò un bacio. Sorrisi imbarazzato.

    Non persi tempo e avvicinai i passanti. Fu difficile parlare con loro, diffidenza e paura si palesarono in maniera evidente. Spargendo cocuzze a destra e a manca, riuscii a strappare ulteriori elementi sulla macabra storia dello psicologo e della sua famiglia. Con tutti quegli indizi, l’intera storia iniziò a prendere forma.

    In quel borghetto fu firmato un diabolico patto di sangue tra contadini, cittadini e amministratori, dando vita ad un tacito accordo meramente economico, finalizzato a sconfiggere la povertà che soffocava il tessuto sociale dell’intera comunità.

    Un’unica famiglia godeva di enormi fortune, proprietaria di un antico cascinale, immobili e diversi ettari di vigneti delimitati da muretti in pietra lavica dai quali si produceva un rinomato vino, conosciuto per il particolare sapore intenso e per la rarità delle uve che crescevano ai bordi di una piccola bocca eruttiva di una solfatara. Una parte della villa era stata adibita ad attività di ristorazione e B&B.

    La maggior parte degli abitanti, invece, erano braccianti dediti all’agricoltura, alla pastorizia, quasi tutti dipendenti dell’azienda di famiglia. I pochi disposti a parlare dopo aver ingoiato soldi come slot machine, narrarono che al momento della tragica vicenda si stava svolgendo una riunione familiare.

    Erano in cinque seduti a tavola, quattro fratelli, due maschi e due femmine e lui, lo psicologo, sangue estraneo che aveva sposato la più brutta delle due sorelle. Chissà perché. Proprio lui, il geniale strizzacervelli, aveva organizzato l’ultima cena.

    Lo psicologo adorava cucinare all’italiana, si nutriva principalmente di carne e interiora di animali per tonificare i muscoli e infervorare le sinapsi. Curava il proprio corpo con duri allenamenti fisici, amava i soldi e la ricchezza. Il dottore era molto famoso in città, adorato come un eroe di guerra e gratificato di un encomio solenne del Presidente della Repubblica per aver salvato tre pensionati tedeschi, rimasti intrappolati in un auto alla deriva sulle acque di un fiume tracimato. Aveva un passato politico burrascoso, giovanissimo simpatizzante e sostenitore di una cellula associativa parafascista, col tempo le sue posizioni politiche si erano ammorbidite o, almeno, così sembrava. Era un collezionista di moto storiche che con grande fatica riusciva a restaurare e rimettere in strada. Intollerante verso il comunismo, i negri, i rom, gli ebrei e ogni altra etnia catalogata nel suo cervello alla voce sterminabili.

    La sua vita, dopo un periodo d’oro e decoro, procedeva a singhiozzi e afflizione soprattutto per i continui litigi con la consorte la quale, stando ai bene informati, veniva spesso offesa in pubblico e pestata a sangue in privato. Quando il maschilismo ercolino di lui prendeva il sopravvento, schiaffi e cinghiate arrossavano la candida epidermide di lei. Un bel giorno, stufo di sopprimere il proprio istinto violento, scelse di porre rimedio all’inerzia matrimoniale dando una virata a quell’esistenza da gregario. D'altronde, era o non era un eroe?

    Aveva escogitato il piano perfetto per diventare unico erede dei beni familiari. Uno spietato assassino che aveva calcolato tutto nei minimi dettagli, eppure la sorte gli fu benevola, riservandogli gloria e imperitura memoria. Nessuna targa commemorativa, nessuna intestazione di vie, larghi e scuole avrebbe riconosciuto la genialità di un delitto perfetto. Sarebbe stato come intitolare una scuola per l’infanzia a Nicola Furia, Adolf Hitler o a Joseph Stalin, assassini.

    Armando, il maggiore dei fratelli, saccente, borioso e austero. Preciso, pulito e metodico, lavorava con fatica nelle attività di famiglia. Divideva il ricavato per quattro e nonostante alcune incomprensioni, amava i propri cari. Dopo una storia d’amore depresso con una donna che gli aveva graffiato il cuore, si era trasformato in un mostro tendenzialmente misogino.

    Leila, moglie dello psicologo, taciturna e psichiatra. A giorni avrebbe dovuto sostenere un concorso per un posto di dirigente medico. Tipica sorca secca, quando sorrideva contorceva il collo da un lato coprendo la bocca con la mano. Una santa.

    I due innamorati, Leila e lo strizzacervelli, si erano conosciuti durante le sessioni di clinica universitaria e sin dal primo giorno decisero di battezzare ogni aula deserta sperimentando posizioni di sesso estremo. Erano apprezzati e ben voluti dalla comunità scientifica delle rispettive branche specialistiche, sesso estremo a parte, naturalmente.

    Lo psicologo credeva di essere diventato famoso dopo l’impresa da eroe. Le televisioni tedesche ed italiane gareggiavano a suon di carte filigranate per contendersi la sua presenza. Ben presto l'esposizione mediatica scemò sino alla depressione, profonda, che lo portò a dissipare così gran parte delle fortune economiche trasferendole direttamente nelle vene e polmoni. Dopo anni di sperpero e dissolutezze, l’amore tra i due divenne un macigno di incomprensioni, silenzi e maltrattamenti. Il sesso estremo si volatilizzò e i due stavano per separarsi.

    Tutto questo riuscii a capire di quella notte, ma degli altri commensali poco o nulla trapelò dalle bocche restie e balbuzienti dei paesani.

    Si era fatta sera. Decisi di raggiungere la ruota panoramica che segnalava la zona dedicata al divertimento. Di fianco, la giostra delle macchine da scontro, dove a grande velocità si veniva proiettati contro un’orda di fantocci trapassati e di fronte, il museo delle cere degli Zombie famosi, imperdibile, bastava allungare venticinque euro. In quel punto era facile accedere all’area colpisci lo zombie, dove alcune comparse travestite da orripilanti esseri trapassati venivano bersagliate a colpi di softair. Il premio per chi imbrattava tre crani era

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