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Il segreto della seconda pergamena
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Il segreto della seconda pergamena
E-book432 pagine5 ore

Il segreto della seconda pergamena

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Info su questo ebook

«Da leggere assolutamente.» Matteo Strukul, autore della saga bestseller I Medici

Genova, 1501. Martino Durante è fuggito da Milano con la speranza di imbarcarsi per il Nuovo Mondo. Insieme a lui ci sono il fi glio di due anni e suo fratello Niccolò. Mentre si trovano in città, però, vengono attaccati a sorpresa: sulle tracce di Martino c’è un nobile milanese, Goffredo Landriani, che non solo è in cerca di vendetta per quanto accaduto a Milano, ma che vuole anche mettere le mani su Niccolò, l’unica persona in grado di leggere un manoscritto in codice, fondamentale per i suoi piani di potere. Intanto a Venezia un forestiero sbarca nella laguna: si tratta di Sofia, mercenaria al soldo di Landriani, cui è stato assegnato il compito di recuperare un’antica pergamena. La Serenissima però vive nel terrore, perché da tempo si verificano degli inspiegabili incidenti che portano al crollo di numerosi palazzi. Per portare a termine la propria missione, Sofi a dovrà scoprire chi si cela dietro a un complotto che sta mettendo in pericolo la sopravvivenza della Repubblica. Il premio che l’aspetta è la testa di Martino Durante, l’uomo che a Milano l’ha sfigurata e le ha rovinato la vita per sempre.

Autore del bestseller La congiura delle tre pergamene

Chi trama contro la Repubblica di Venezia?

Hanno scritto di lui:
«Un affascinante romanzo in grado di incollarti gli occhi alle pagine. Da leggere assolutamente.»
Matteo Strukul, autore della saga bestseller I Medici

«Di Giulio è tra gli eredi di Scerbanenco.»
Il Sole 24 Ore
Matteo Di Giulio
scrittore, saggista e traduttore, è nato a Milano, ma vive a Bremen, nel Nord della Germania. Come critico cinematografico ha collaborato con festival e riviste italiani e internazionali. È autore di diversi romanzi, tra i quali i thriller storici I delitti delle sette virtù (2013) e, con la Newton Compton, La congiura delle tre pergamene.
LinguaItaliano
Data di uscita24 set 2018
ISBN9788822726728
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    Anteprima del libro

    Il segreto della seconda pergamena - Matteo Di Giulio

    parte prima

    Uomini in fuga

    I

    Genova, 1501

    Il volto dell’uomo si specchiò nella lama.

    La sua nuova spada.

    L’immagine riflessa nell’acciaio gli strappò una smorfia, ma nulla più. I suoi tratti erano scavati dalla stanchezza, la barba spuntava a ciuffi sul mento e lungo le guance: una maschera sofferente.

    Non disse niente, non sospirò, né guardò in faccia chi aveva di fronte. Si limitò a pagarlo.

    L’armaiolo gli porse l’arma e Martino, senza nemmeno provare se il filo fosse tagliente come doveva essere, o il peso bilanciato nel modo in cui aveva chiesto, la ripose nel fodero di cuoio, che agganciò al fianco.

    Si voltò verso il suo compagno di viaggio, che gli porse il bambino. Martino lo prese e se lo strinse al petto, quindi si voltò verso il mare, per farsi rassicurare dalla placida calma dello specchio d’acqua.

    Era stato un viaggio massacrante.

    La fuga da Milano, deviando per Torino, seguendo una pista più tortuosa per confondere eventuali inseguitori, a rotta di collo. I cavalli erano spossati, e poco importava che a ciascun posto di cambio Martino avesse pagato a caro prezzo bestie nuove e riposate: finivano sempre per stremarle, costringendole a galoppare per ore e ore, senza sosta. Si erano fermati soltanto di notte, quando si sentivano al sicuro, protetti dalle tenebre. Ad Alessandria, Martino aveva comprato vestiti nuovi per sé e per il suo compagno di viaggio. Aveva bruciato i vecchi: e con essi ogni ricordo che lo legava alle disavventure di Milano.

    Memorie di sangue e di morte.

    In quella città, Martino aveva perso tutto, in una lotta disperata contro il tempo: che si era conclusa nel sangue.

    Si voltò a guardare il piccolo Zaccaria, che dormiva tra le sue braccia.

    «Hai soltanto due anni», disse al bambino, «e hai già perduto tua madre».

    I ricordi di quei giorni lo tormentavano e si trasformavano, di notte, in incubi che non gli davano tregua.

    Un complotto sanguinario.

    Lui era riuscito a sventarlo, ma a quale prezzo?

    Almeno, si disse, era riuscito a salvare suo figlio da una setta di pericolosi assassini.

    Erano stanchi, provati. E non sapevano se qualcuno li stesse braccando.

    Adesso voleva soltanto ricominciare da capo. Da quel Nuovo Mondo di cui tanto aveva sentito parlare.

    Guardò ancora una volta suo figlio, ne osservò i lineamenti distesi. Senza accorgersene, contrasse i muscoli delle braccia e lo strinse a sé con troppa foga.

    Il piccolo si svegliò e cominciò a gemere.

    «Cosa succede?», gli chiese l’uomo alla sua destra.

    Aveva la voce profonda e il corpo di un gigante, ma la sua testa ragionava come quella di un ragazzo.

    «Nulla, Niccolò, non preoccuparti».

    Martino si passò una mano sul viso, si premette con due dita la radice del naso e strizzò gli occhi.

    «Sei stanco?», domandò Niccolò.

    «Sì, ma per fortuna siamo quasi arrivati».

    Lo sguardo di entrambi si spostò dal piccolo Zaccaria e scivolò lungo le colline che li circondavano, fino all’orizzonte. Verso oriente.

    Martino guardò le mura della città, ai loro piedi, quindi Niccolò, suo fratello maggiore, e gli sorrise: «Ancora mezza giornata di marcia».

    Il cammino era stato lungo, ma finalmente non erano più così distanti dal porto di Genova.

    Lì si sarebbero imbarcati per le Indie lasciandosi alle spalle ogni legame con il loro doloroso passato.

    II

    Venezia

    La pioggia intensa non impediva ai mercanti di sbracciarsi per attirare i potenziali clienti. Le bancarelle lungo le fondamenta erano stipate di merci di ogni genere e la folla era tale che avvicinarsi era molto difficile. Sotto i tendoni, ricoperti di cera perché l’acqua filtrasse il meno possibile, i commercianti cercavano di ripararsi dal gelo e dal vento stringendosi nei mantelli foderati di pelliccia. La ressa era dovuta anche al barcone carico di forestieri, che, appena messo piede a terra, erano sciamati a macchia d’olio per tutto il sestiere di Carnareggio.

    Nonostante la grande confusione, però, quando lo sconosciuto sbarcò non passò inosservato.

    Camminava a testa bassa, il volto coperto in parte da un cappellaccio sgualcito la cui falda larga mostrava a malapena la benda nera che gli copriva l’occhio destro.

    A differenza degli altri passeggeri del battello non si fermò ai banchi, né li degnò di un’occhiata, ma tirò dritto verso il centro della città.

    Un omino seduto mesto dietro un carretto colmo di libri tentò di fermarlo. «Vi interessa l’ultima edizione di…», provò a dire, ma bastò uno sguardo fugace del nuovo arrivato per fargli morire in bocca la frase.

    Sedutosi di nuovo, il mercante di libri osservò lo sconosciuto, vestito di nero, muoversi con cadenza marziale, finché un cliente non gli domandò se avesse alcuni classici greci da vendere.

    Il forestiero si lasciò presto alle spalle il porto. La pioggia e la nebbia lo avvolsero fino a che scomparve dalla vista altrui, in una delle tante calli che partivano da lì.

    Un uomo silenzioso. Un’ombra.

    Una macabra processione, la sua, subito dimenticata dai venditori e dai passanti.

    Vicino al porto, i commerci continuarono fino a notte fonda, quando il buio ebbe la meglio sulle candele e sulle torce; e l’umidità sulla pazienza dei mercanti.

    Il locandiere, un vecchio veneziano che aveva ereditato il palazzo e l’attività dal padre, accolse l’ospite di fronte a lui con un sorriso spento.

    «Signore, benvenuto», fu tutto ciò che disse.

    L’uomo guardò la taverna con cupidigia, ma prima posò delle monete d’argento sul bancone.

    «Una camera».

    La sua voce era strana. Parlava lentamente, per farsi capire: l’accento di fuori era molto forte.

    Il locandiere prese un pesante registro rilegato in pelle. «Per quanti giorni?»

    «Quanti mi serviranno», rispose secco l’uomo.

    Il locandiere alzò la testa e lo fissò, ma abbassò subito lo sguardo.

    «Sono qui per affari».

    «Certamente, signore», balbettò il vecchio. «Il vostro nome?»

    «Scegline tu uno».

    Altre tre monete passarono di mano e un sorriso imbarazzato rese ancora più rugoso il viso stanco del veneziano, che però annuì e ripose il registro senza compilarlo.

    «Al piano di sopra, la prima stanza a destra. Se volete che faccia portare su i vostri baga…».

    L’uomo non gli fece terminare la frase. Si voltò e raggiunse il bancone della taverna collegata alla locanda.

    L’oste, vedendolo arrivare, gli allungò una tazza sbeccata colma di vino.

    Non ha fatto storie, come immaginavo, pensò il forestiero, fissando con l’unico occhio verde il locandiere. Bevve il vino in un sorso, quindi sbatté il bicchiere sul bancone. «Un altro!», ordinò all’oste.

    «Da dove venite?», gli chiese quest’ultimo.

    Lo sconosciuto lo ignorò. Bevve in silenzio.

    Ora, si disse, sarà meglio riposare.

    Aveva lasciato il suo cavallo a Mestre, dove si era imbarcato. Era in viaggio da molti giorni e non si era fermato mai, dormendo il minimo indispensabile e ripartendo sempre prima dell’alba.

    «Un ultimo bicchiere di vino?», chiese l’oste.

    Per la terza volta la tazza si alzò e fu vuotata. Un’altra moneta passò di mano.

    «Ora devo andare a dormire», si congedò.

    Camminò con passo lento fino alle scalette di legno che portavano ai piani superiori.

    Domani comincia la caccia, pensò. Non posso fallire.

    III

    Salito nella propria stanza, l’uomo si svestì lentamente.

    Il viaggio era stato lungo e privo di soste, ma la prospettiva della missione da portare a termine gli impediva di riposarsi troppo a lungo. La forte umidità di Venezia, inoltre, gli penetrava nelle ossa e, nonostante la sua giovane età, ne metteva a dura prova il fisico magro, dalla muscolatura appena accennata.

    Posò il cappellaccio che gli copriva parte del viso e liberò i capelli ricci, trattenuti sulla nuca da un laccio nero.

    Stanno ricrescendo in fretta, pensò. Devo tagliarli.

    Non poteva rischiare di essere riconosciuto per ciò che davvero era. La maschera doveva rimanere in piedi e nascondere la sua vera identità.

    Maschere, si disse, e dalla sacca in cui aveva riposto il necessario per il suo viaggio ne trasse una di legno, dalle fattezze diaboliche. Vi passò sopra un polpastrello e lo fece scorrere lungo la superficie intagliata a mano da un artigiano che, tanti anni prima, aveva dato forma con la pialla e con lo scalpello a quell’incubo che li univa tutti.

    Un legame insanguinato, costellato di cadaveri e stretto con rabbia attorno alle viscere del più brutale dei collanti: il potere.

    Viviamo nella menzogna, pensò mentre si toglieva la benda nera.

    Non c’erano specchi nella stanza e, qualora ve ne fossero stati, li avrebbe coperti con il mantello, pur di non vedere lo scempio che gli deturpava il volto.

    Il ricordo di quanto gli era accaduto lo disgustava.

    Ciò nonostante, sfiorò con un polpastrello la palpebra chiusa e percorse la spessa cicatrice lì dove un tempo c’era stato il suo occhio destro. Indugiò all’altezza della cavità vuota. Il cerusico che si era preso cura di lui non aveva potuto lavorare di fino, le sue condizioni erano disperate: l’estrazione del bulbo e la cauterizzazione della ferita lo avevano quasi ucciso. Estirpare l’infezione era stata un’operazione ancora più complicata. Era rimasto a un passo dalla morte per molti giorni, finché gli impacchi di erbe medicinali erano riusciti ad avere la meglio e, dopo un’agonia che non avrebbe dimenticato mai, a lenire il dolore.

    Che tu sia maledetto.

    L’uomo strinse i pugni: fremeva per la rabbia.

    Avrei potuto avere denaro e felicità.

    C’era un solo responsabile per la sua situazione.

    Invece mi trovo in questa miserabile bettola.

    Una persona che gli aveva rovinato la vita.

    A cercare la mia vendetta.

    Il suo nome era Martino Durante.

    Ti ucciderò.

    Il giorno dopo, quando il sole penetrò dagli scuri, l’uomo era a letto, in parte ancora vestito.

    Imprecando, si voltò su se stesso per proteggersi dalla luce del mattino.

    Il movimento brusco fece cadere a terra la bottiglia di vino che gli aveva fatto compagnia durante la notte insonne. Il vetro non s’infranse quando incontrò le assi di legno che formavano il pavimento, ma rotolò lentamente verso la porta d’ingresso, tracciando sul suolo una scia rossastra che, da lontano, poteva sembrare sangue.

    L’occhio sano dell’uomo intercettò per un istante i riflessi del sole nel rosso e quella breve immagine lo scosse dal torpore.

    Si alzò e corse verso l’orinale, abbandonato in un angolo della stanza. Vomitò a lungo, finché non ebbe espulso ogni traccia del vino e della scarna cena; poi fu scosso da violenti conati che si trasformarono in colpi di tosse e singhiozzi disperati. Le lacrime colarono lentamente sulla guancia sinistra e lui non fece niente per arrestarle. Le lasciò sfogare, ancora inginocchiato sul pitale, finché non si esaurirono.

    Fu allora che si alzò, si spogliò del tutto e si lavò usando un panno intinto nel sapone e una bacinella riempita d’acqua il giorno prima che, con il passare delle ore, era diventata gelida.

    Lo schiaffo gli servì per svegliarsi del tutto e recuperare quella fermezza di spirito per cui era famoso. Quella freddezza che gli era valsa l’ingaggio da parte di Goffredo Landriani, colui che gli aveva salvato la vita e che lo aveva inviato nella città lagunare.

    «Porta a termine questo importante compito per me», gli aveva detto quando si erano salutati, a Milano, «e ti prometto in cambio molto denaro. E la testa di Martino Durante».

    Lui aveva accettato quel patto di sangue e adesso doveva tenere fede alla sua parte.

    Cambiatosi d’abiti, raccolse i capelli e li nascose dentro il cappellaccio. Quindi, mentre dalla finestra osservava la città prendere vita, nascose parte del suo volto dietro la benda nera, che legò sulla nuca.

    Sono pronto, è ora di mettersi all’opera, si disse.

    Lo attendeva un’impresa ai limiti dell’impossibile, ma lui era sicuro di poterla portare a termine.

    IV

    Il cielo nuvoloso incombeva sul Campo dell’Abbazia. L’umidità si trasformava in condensa, rendendo lucido il pavimento in cotto dello spiazzo.

    «Devo vedere l’avogador», disse sottovoce il capitano. Cercava di nascondere il proprio volto sotto il cappuccio del mantello, come gli era stato ordinato di fare.

    «Messer Gabriel vi sta aspettando».

    Il monaco lo condusse all’interno, facendogli strada lungo la navata centrale. La chiesa dell’abbazia della Misericordia era buia: dalle vetrate a piombo filtrava poca luce e la candela del religioso non riusciva a illuminare che pochi passi di fronte a lui.

    Sulla destra, un piccola cappella votiva dedicata alla Madonna era circondata da ceri. Lì, un uomo era inginocchiato in preghiera, un rosario stretto nel pugno e un cappuccio marrone a renderlo irriconoscibile.

    Il monaco invitò il capitano a raggiungere lo sconosciuto con un gesto della mano, quindi si dileguò portando con sé il cero. Il militare lo osservò scomparire nella sacrestia, la luce sempre più flebile che si perdeva in lontananza.

    «Sedetevi», gli disse l’uomo inginocchiato.

    Si alzò e si sedette a sua volta sulla panca alle sue spalle. Si scoprì il viso.

    «Messer Gabriel», disse il soldato.

    «Niente nomi».

    «Siamo soli, nessuno mi ha seguito».

    «Meglio esserne sicuri. Venite con me».

    I due uomini tagliarono la navata in orizzontale e si diressero sul lato sinistro della chiesa. Quando arrivarono nei pressi del coro, messer Gabriel allungò una mano nella penombra e fece un passo in avanti. Spense il cero e scomparve immediatamente alla vista del capitano, che si guardò intorno sorpreso e spaventato. Il soldato si girò intorno, cercando di scrutare nell’oscurità, quindi mosse qualche passo lateralmente, nella speranza di ritrovare un punto di riferimento.

    «Eccellenza?», sussurrò, senza ricevere risposta.

    All’improvviso, un rumore metallico lo fece voltare. Un lama di luce rivelò, lì dov’era scomparso messer Gabriel, una porta di legno mimetizzata tra due degli scranni del coro.

    «Venite, presto».

    Il volto scavato dell’altro si profilò in quella fenditura. Il capitano si affrettò a raggiungerlo.

    «Qui possiamo parlare tranquilli», disse Gabriel.

    Dalla chiesa erano passati al palazzo adiacente, dove si trovava la Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia. Attraversato un lungo corridoio, erano sbucati in una piccola biblioteca dalle finestre sbarrate con assi di legno. Gabriel posò il cero su un tavolo e prese posto in una delle due poltrone di velluto, indicando al militare di sedersi nell’altra.

    «Perché tanta segretezza?», disse l’uomo, sfilandosi a sua volta il cappuccio.

    «Sta succedendo qualcosa».

    «Vostra eccellenza, io…».

    Il dito indice dell’avogador lo bloccò. «Non serve essere tanto formali, capitano Furlan. Non sono qui in veste ufficiale».

    Il soldato abbozzò un sorriso. «Come devo chiamarvi, allora?»

    «Non importa, in questo momento. Se vi ho convocato è perché sono preoccupato».

    Furlan annuì. «So a cosa vi riferite».

    «A quanti crolli siamo arrivati?»

    «Sei negli ultimi dodici mesi».

    «Un numero impressionante. Io e gli altri magistrati della Quarantia ci interroghiamo da tempo su cosa stia accadendo in città».

    «Pensavamo fosse stato il terremoto».

    «Quello è servito per tenere buona la gente e non far trapelare il panico».

    «Ma il terremoto c’è stato davvero!», esclamò il capitano. «A Verona i palazzi hanno tremato a lungo».

    Il magistrato sospirò. «Però lì non è successo nulla. Nessun crollo, nessuna vittima».

    «Ma da quanto mi hanno riferito a Modena e a Bologna, invece…».

    «Sono disgrazie che capitano», lo interruppe Gabriel, «voi credete che sia il terremoto la causa di questi palazzi che rovinano?».

    Furlan scosse la testa.

    «E come voi», riprese l’avogador, «anche la gente comune presto inizierà a sospettare che ci sia qualcos’altro sotto».

    «Che cosa?»

    «Dobbiamo scoprirlo».

    «C’è un uomo», disse Furlan, «ma forse no…».

    Silvestro Gabriel si sporse in avanti, verso il suo interlocutore, una mano sotto il mento. Quel gesto era molto temuto durante le sessioni d’inquisizione che il magistrato presiedeva a Palazzo Ducale. Era famoso per la sua inflessibilità. Gli altri Avogador di Comun erano meno ligi al proprio dovere e si limitavano a emettere sentenze senza approfondire le prove fornite loro dai nobili veneziani che rappresentavano sul piano del diritto amministrativo e penale.

    «Ditemi di quest’uomo, capitano».

    «Si chiama Marino Sanudo».

    «Un nome che non mi è nuovo».

    «È uno storico. Sta redigendo le cronache della città degli ultimi anni».

    «Fa parte del Maggior Consiglio, se non sbaglio».

    Sentendo che l’uomo era un aristocratico e che apparteneva al massimo organo politico della città, Furlan tentennò.

    «Continuate», lo spronò l’avogador.

    «Anche secondo lui questi crolli non sono casuali».

    «Interessante».

    Silvestro Gabriel si alzò. Era magro e smunto, vestito con un’eleganza sobria che non era tipica del ceto dei notabili cui la sua famiglia apparteneva da generazioni. Il pizzetto nero a punta e la carnagione abbronzata creavano un forte contrasto tra un nobile da palazzo e un marinaio abituato a stare intere giornate a cuocersi al sole.

    «Potete organizzare un incontro con questo… come avete detto che si chiama?»

    «Sanudo. Marino Sanudo».

    «Parlate con lui, quanto prima, e vedete cosa può dirvi. Voglio un colpevole. Venezia non può più attendere».

    «Ai vostri ordini».

    I due uomini si congedarono. L’avogador indicò a Furlan una porticina che dava direttamente sul canale. Un ponticello di legno scavalcava il rio e congiungeva il sotoportego con la fondamenta Misericordia. Il capitano lo percorse velocemente.

    Non poteva sapere che a causa di quel nuovo incarico la morte sarebbe venuta a bussare alla sua porta.

    V

    Genova

    Anche Martino Durante dormì poco e male, quella stessa notte.

    Il giaciglio della sua stanza puzzava d’umidità e dalla finestra il rumore delle prostitute che gridavano gli aveva impedito di rilassarsi. Nella culla ricavata da una cassa di legno che aveva disposto a fianco del suo letto, Zaccaria non aveva invece risentito della sua stessa inquietudine.

    «Tu non piangi mai, sei un bravo bambino», gli sussurrò Martino dopo aver aperto gli scuri per ammirare l’alba. Prese suo figlio in braccio e cominciò a cullarlo. Il bambino si sporse verso di lui e gli tirò la barba.

    «Così mi fai male», sorrise Martino.

    Adagiò il piccolo a terra e lo guardò gattonare per un tratto, quindi provare ad alzarsi in piedi, cadere, risollevarsi e camminare spedito dal letto al tavolo posizionato proprio sotto la finestra. Quando il bambino cominciò ad arrampicarsi sulla sedia, il padre lo prese di nuovo e, tenendolo contro il suo petto, gli mostrò il panorama.

    «Guarda… il mare».

    Quella distesa azzurra che brillava sotto il sole aveva il potere di affascinare il padre e di calmare il bambino. Martino sorrise a suo figlio, stringendolo amorevolmente a sé.

    «Oggi inizia la ricerca di un passaggio a bordo di una nave per le Indie. Tu stai con Niccolò e fai il bravo. Va bene?».

    Il bambino rise mostrando i primi denti che erano spuntati e provò a dire qualcosa, ma le parole che biascicava erano ancora un intrico di suoni incomprensibili.

    «Pa… pà», sussurrò Martino, ma suo figlio non lo accontentò.

    Tornò a guardare fuori dalla finestra, a osservare tutti i dettagli.

    Erano arrivati da due giorni, ma non era riuscito ancora a orientarsi, nonostante avesse studiato la mappa della città a lungo. Quei vicoli bui gli sembravano tutti uguali, non riusciva a distinguerli.

    Perché siamo qui?, si domandò.

    Martino si sentiva un animale braccato. Ogni ferita era ancora aperta e bruciava come se fosse stata cosparsa di sale. Aveva perso ogni ricordo che lo legava a Firenze, la sua città natale, e alla sua famiglia. La scatola con i segreti di suo padre era bruciata in un castelletto nei sobborghi di Milano, mentre il suo kopis, la corta spada d’origine macedone al cui uso era stato addestrato in gioventù, era stato infranto da un colpo d’archibugio e ridotto in mille pezzi.

    Martino si passò un dito lungo una cicatrice nerastra che gli solcava l’avambraccio. Lì dove si erano conficcate alcune schegge della lama frantumata.

    «Ti fa ancora male?».

    La voce alle sue spalle era quella del fratello. Niccolò era alto e le sue spalle massicce passavano a malapena tra gli stipiti della porta della vecchia locanda in cui avevano trovato alloggio.

    «No, non più».

    Nonostante le parole appena pronunciate, Martino depose nella culla Zaccaria e non smise di massaggiarsi il braccio.

    Si avvicinò a Niccolò. Anche lui aveva sofferto le pene dell’inferno. Nessuno di loro era stato graziato dall’ingiustizia, ma avevano sempre trovato la forza per rialzarsi e combattere.

    Fino ad allora.

    «Ancora un ultimo sforzo», disse Martino a suo fratello, che ricambiò con un sorriso amaro. «Tra poco saremo liberi».

    Non era un indovino, ma l’esperienza gli suggeriva di non credere troppo alle sue stesse parole. Avrebbe potuto rimanerne deluso e pentirsene.

    VI

    I tre uomini osservavano la scena dalla finestra del palazzo di fronte.

    «Potremmo fare irruzione e ucciderli».

    «No, Filippo, non è una buona idea».

    Dietro di loro, il gigante lavorava in silenzio, affilando una grossa ascia che nessuno degli altri due sarebbe stato in grado di maneggiare e che, nonostante gli anni di onorato servizio, era in grado di tagliare qualsiasi oggetto con la precisione di un rasoio.

    «Ma li abbiamo trovati… sono a portata di mano. Perché no?»

    «Perché non è il momento giusto».

    Vedendo che Filippo non lo stava ascoltando, Goffredo Landriani si frappose tra lui e la finestra e tirò la tenda, oscurando la stanza.

    «Non possiamo correre il rischio che si accorgano di noi, non devono sapere che siamo sulle loro tracce».

    Filippo scosse la testa e si versò da bere con l’unica mano che gli era rimasta. Mentre portava il boccale alle labbra, fissò il moncherino del braccio destro, per il quale poteva ringraziare una sola persona, quella che con tutte le sue forze voleva vedere morta.

    «Ci hai ingaggiati per ucciderli e ora che li abbiamo rintracciati ti tiri indietro?».

    Il suo sguardo di sfida non piacque a Landriani, che senza alzare il tono di voce si impose sul compagno di stanza: «Si fa ciò che dico io. Io pago, io comando».

    «Ma non è a te che quel porco di Durante ha tagliato un braccio e rovinato la vita».

    Goffredo Landriani si soffermò sul volto di Filippo. Le ustioni che ne avevano devastato i lineamenti gli impedivano di uscire alla luce del sole senza vergognarsi del suo aspetto. Un tale scempio, unito al braccio mancante, aveva trasformato Filippo in un mostro, nonostante il lungo tabarro e il cappuccio con cui cercava di nascondere la propria deformità.

    Era l’uomo nero, il protagonista dei peggiori incubi dei bambini.

    Ed era straripante di rabbia.

    «Abbi pazienza, ti ho promesso due cose. Denaro, e lo hai già avuto», disse Landriani, soppesando con calma le parole, «e vendetta, e avrai anche quella». Fece una lunga pausa, sbirciò fuori dalla finestra, sfruttando uno spiraglio tra le tende, quindi si voltò verso Filippo e concluse: «Ma ricorda che solo uno dei due fratelli Durante deve morire. L’altro lo voglio vivo».

    Filippo sbuffò e andò a sdraiarsi sul giaciglio che divideva con il gigante.

    Quest’ultimo nel frattempo aveva portato a termine la manutenzione dell’ascia e l’aveva riposta al proprio fianco. Quindi aveva estratto da sotto il letto una grande placca metallica che ora lucidava con altrettanta cura.

    «Ma non ti stanchi mai tu di pulirla? Sembri una serva».

    Il gigante mugugnò qualcosa d’incomprensibile, ma non alzò la testa e continuò a lavorare con buona lena.

    «Filippo», intervenne di nuovo Landriani, stavolta visibilmente seccato, «lascia in pace Ursus».

    «Come se capisse quello che dico, questo idiota».

    Ursus non si mosse, ma una scintilla percorse per un istante il suo sguardo e Landriani se ne accorse, perché si affrettò a dire: «Non sottovalutarlo. In un duello contro di lui saresti morto in un baleno».

    «Questo è tutto da vedere», borbottò Filippo, si sdraiò e si voltò sul fianco, dando la schiena al gigante. «Questo è tutto da vedere».

    La scintilla brillò di nuovo nello sguardo di Ursus, ma subito si spense. Landriani fece due passi in avanti: si fermò al suo fianco e gli mise una mano sulla spalla. Sei l’unico di cui posso davvero fidarmi, pensò; e il gigante annuì, come se attraverso quel semplice contatto fosse riuscito a leggere nella mente del suo padrone.

    «Lucida la tua armatura», disse sottovoce Landriani, «presto sarà tempo di sfoggiarla in battaglia».

    Il gigante continuò per tutta la mattina ad allestire il proprio arsenale.

    VII

    Venezia

    «Goffredo Landriani».

    Una domanda da settimane girava nella testa del forestiero. Chi era veramente l’uomo che lo aveva inviato lì a Venezia, in missione?

    La risposta era una sola: non lo sapeva.

    «E forse è meglio non saperlo», pensò a voce alta, mentre si chiudeva alle spalle la porta della sua stanza.

    Goffredo Landriani era un mistero. Aveva denaro, molto denaro, ed era determinato a ottenere vendetta. Si erano trovati subito in sintonia: entrambi erano stati segnati dalla vita in maniera indelebile, fino alle più tragiche conseguenze. Ciò aveva spazzato via i pochi scrupoli che ancora albergavano nei loro cuori. Avrebbero fatto di tutto pur di raggiungere i propri obiettivi.

    Di tutto, si disse lo sconosciuto mentre lasciava la locanda e s’immergeva nell’umidità di Venezia.

    «Che odoraccio», mormorò mentre s’incamminava, «questa città puzza di morte».

    Il sestiere di San Polo, dove aveva preso alloggio, non era famoso soltanto per le prostitute, ma anche per i depositi di sale della Serenissima e per le botteghe di frutta e verdura.

    L’uomo si avvicinò a un banco e ordinò dei datteri. Voleva addolcirsi la bocca e cancellare le tracce di vino che ancora gli provocavano conati e nausea.

    Non contrattò sul prezzo, anche se era piuttosto salato.

    «Ce li spediscono direttamente dal sud», disse il bottegaio mentre incartava la merce. «Roba

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