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Bestie d'Italia - volume 3
Bestie d'Italia - volume 3
Bestie d'Italia - volume 3
E-book206 pagine2 ore

Bestie d'Italia - volume 3

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Info su questo ebook

Lupi, draghi, cervi e tori mannari. L’Italia è ricca di leggende, che si annidano, come folletti dispettosi, nelle cantine di ogni casa, nei giardini incolti, nei borghi antichi che costellano gli Appennini e che gridano di vita, nonostante gli uomini fatichino a udirne la voce. Eppure, come il canto delle sirene, a volte ammaliano i viandanti, conducendoli nei loro mondi fantastici.
Il progetto “Bestie d’Italia” parte dal recupero delle tradizioni folcloristiche italiane, per raccontarle a chi non le conosce, per guardare con occhi diversi il territorio, ricco di storia, misteri e magia.

La terza tappa di questo viaggio ci porterà lungo le coste del Mar Adriatico e dello Ionio, fino alle isole del Mar Mediterraneo, in compagnia di dieci scrittori italiani.

Il volume 3 di “Bestie d’Italia” contiene dieci racconti: Il sortilegio della Biddrina, di Giuseppe Gallato; Assedio notturno, di Francesca Cappelli; Bakunin aveva ragione, di Giuseppe Chiodi; L’urlo della vita, di Alessio Del Debbio; Respiro d’inverno, di Elena Mandolini; Il cavallo d’argento, di Alessandro Ricci; Il giorno della taranta, di Alessandra Leonardi; La natura vince su tutto, di Maria Pia Michelini; Fuga da Malaperla, di Debora Parisi; Caccia al drago, di Monica Serra.

Esistono leggende nate dai barlumi sempre mutevoli dell’immaginazione, leggende che danzano nell’empireo e ardono di magia: ataviche, affondano nelle radici dell’umanità e sfuggono al controllo della logica. Alcune hanno perfino la forza di insediarsi nel mondo, di farsi carne attraverso le gesta o le colpe di esigue anime, plasmando eroi o generando mostri.
LinguaItaliano
Data di uscita10 nov 2020
ISBN9788831910354
Bestie d'Italia - volume 3

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    Anteprima del libro

    Bestie d'Italia - volume 3 - autori vari

    casuale.

    INTRODUZIONE

    In una meravigliosa lectio magistralis dell’ottobre 2013, alle Nazioni Unite, Umberto Eco metteva in guardia dalla perdita della memoria, dal disinteresse odierno per il passato, per la storia, chiudendo così il suo mirabile intervento: In un mondo in cui si è tentati di dimenticare o ignorare troppo, la riconquista del nostro passato collettivo dovrebbe essere tra i primi progetti per il nostro futuro.

    Riscoprire le nostre tradizioni, le nostre origini, per comprendere come siamo arrivati a questo punto, come siamo diventati quello che siamo, dovrebbe essere stimolo vitale per ogni essere umano e per ogni organizzazione, politica, sociale e culturale.

    Nel nostro piccolo, l’associazione Nati per scrivere, fin da quando ha lanciato il marchio editoriale NPS Edizioni, ha cercato di valorizzare i luoghi, soprattutto quelli italiani, tirandone fuori la magia, perché farlo contribuisce a renderli vivi, vitali, punto di incontro dell’umanità e delle sue storie, e contribuisce a valorizzare anche chi in quei luoghi ha vissuto, chi quei luoghi li ha vissuti e ne porta ancora addosso l’odore, il sapore della loro Storia.

    In questa scia di recupero e valorizzazione del patrimonio culturale italiano, anche folcloristico, si è inserito il progetto Bestie d’Italia, cresciuto negli anni grazie alla partecipazione dei lettori e degli scrittori (ben sedici, in tutto) che hanno aderito, mettendo in campo la loro creatività e il loro amore per il fantastico e le leggende. Progetto impreziosito dalle illustrazioni di Marco Pennacchietti che, ispirato dai racconti letti, ha dato vita grafica alle bizzarre creature fantastiche che popolano le regioni d’Italia.

    Ecco allora, in questo terzo volume, la conclusione del viaggio, una conclusione momentanea perché, ovviamente, di leggende e storie da raccontare il Belpaese è pieno e questi nostri volumi non hanno mai avuto pretese enciclopediche, né di esaustività. Solo un gioco, una passione per la magia, quella vera, che impregna i luoghi a noi familiari, ma che spesso siamo troppo stanchi, annoiati o disattenti per notare.

    Che questi volumi, che queste storie, siano per tutti noi un momento di risveglio, un’occasione per riaprire gli occhi e accorgersi del bello e del magico che circonda la nostra esistenza. Facciamone tesoro, impariamo ad amarlo e a conservarlo. Buon viaggio, amici lettori, per i mari e le isole d’Italia, per gli Appennini e i tanti borghi che li popolano. Siamo certi che farete conoscenze interessanti, e davvero singolari!

    Alessio Del Debbio

    Presidente Nati per scrivere

    IL SORTILEGIO DELLA BIDDRINA

    Giuseppe Gallato

    Esistono leggende nate dai barlumi sempre mutevoli dell’immaginazione, leggende che danzano nell’empireo e ardono di magia: ataviche, affondano nelle radici dell’umanità e sfuggono al controllo della logica. Alcune hanno perfino la forza di insediarsi nel mondo, di farsi carne attraverso le gesta o le colpe di esigue anime, plasmando eroi o generando mostri.

    Nei pressi di Montedoro, 1989

    Amalia scivolò sulla terra viscida e cadde malamente in una pozzanghera. Con le poche forze rimaste, e gli ultimi accenni di disperazione, si rimise in piedi. Il volto, impasticciato, si era ridotto a una maschera sofferente di lacrime e melma. Tremante, si scostò i capelli arruffati dagli occhi: il sudore e la pioggia che le colavano dalle tempie si mischiavano con il fango appena ingurgitato. Sputò, trattenendo a stento un conato di vomito, alla sensazione della terra che scricchiolava tra i denti.

    Stava per riprendere la sua fuga, quando uno schiaffo la colse di sorpresa. Crollò sulle ginocchia, ma questa volta non si rialzò. Non ci riuscì.

    «Brutta bastarda, dove cazzo scappi?» gridò Tonio.

    Luisa si fece avanti e con il piede la spinse al suolo. «Volevi raggiungere le miniere. Non è vero, storpia?» sogghignò.

    Un terzo individuo la sollevò per i capelli. Amalia rabbrividì, il cuore le mitragliava nel petto e il respiro si era contratto in rantoli agitati.

    «Tremi? Hai paura?» urlò Diego, tirandole un manrovescio.

    La ragazza deglutì e aprì la bocca in una smorfia deforme. I singhiozzi si persero fra lo scroscio dell’acqua e le risate sguaiate delle quattro canaglie.

    «Guardatela, piange e prova a parlare. Ridicola!» la beffeggiò Luisa. «Te la sei andata a cercare! Quante volte ti abbiamo detto di non avvicinarti alle nostre zone? Guardati! Sei malata, contagiosa, un rischio per la gente come noi!» Le sputacchiò in faccia.

    Lei si divincolò, ma Diego le assestò un pugno allo stomaco. Stramazzò al suolo, e lui le fu subito addosso per schiaffeggiarla ripetutamente. «Ora ti ammazzo, maledetta!»

    La storpia questa volta trovò la forza per reagire: annaspando con le braccia, afferrò un sasso con cui colpì il cranio dell’aggressore. Il ragazzo strillò e ruzzolò di lato, lasciando la presa. Senza perdere tempo, approfittando del momento di confusione, Amalia scappò via.

    «Dove credi di andare, lurida? Dove scappi? Ti ammazzo, ti ammazzo!» strepitò Diego.

    La fuggitiva si buttò all’impazzata per i campi. Incalzata, spaventata, fradicia, con i piedi nudi frustrati dall’erba secca e dai cardi, correva senza avere il coraggio di guardarsi indietro. Percorse un terreno scosceso per un centinaio di metri, scavalcò un muretto a secco e, superato un ripido avvallamento, si ritrovò nella proprietà del Forno Roma, una grande struttura in ferro usata per l’estrazione dello zolfo.

    Sfruttando un’apertura nella rete, passò oltre la recinzione e attraversò la vecchia zolfara, fino a giungere alle miniere di Gibellini.

    Lo scenario, in quella giornata uggiosa e sferzata da raffiche di vento, era terrificante. C’erano forni, tracce di ganga accatastata ovunque, vecchi vagoni, alberi rinsecchiti e colture danneggiate dall’anidride solforosa. E lì, in mezzo a quel teatro di anime marce, la discenderia l’attendeva. Oscura, tetra, profonda.

    Per un momento esitò, guardandosi intorno alla ricerca di altre soluzioni. Scappare ancora era fuori questione: era allo stremo, le sue gambe vacillavano e non aveva più fiato in corpo. Cercare altri nascondigli, d’altronde, non le sarebbe tornato utile. I suoi inseguitori avevano appena superato lo stabilimento e presto sarebbero giunti. Non le restava che varcare l’ingresso della miniera.

    Lì non l’avrebbero seguita.

    Nessuno lo avrebbe fatto, poiché nessuno avrebbe mai osato sfidare la leggenda della grande vipera. Giù in paese ne parlavano tutti. Non c’era uomo, donna o bambino che non conoscesse la Biddrina, la letale e gigantesca serpe ammaliatrice che albergava nei recessi della zolfatara. Alcuni sostenevano che la sua evocazione immaginifica fosse un semplice spauracchio per i bambini, un’invenzione nata per evitare che questi si avventurassero nelle vaste e pericolanti gallerie. Altri, invece, asserivano di aver addirittura incrociato la bestia. Visibile prevalentemente di notte per via degli occhi rossi e luminosi, si aggirava per le campagne mangiando capretti, agnelli e persino esseri umani, attirandoli e incantandoli con lo sguardo. Si diceva che vivesse nascosta nei giacimenti di zolfo, caduti in disuso a causa della grande crisi dell’86, e che bevendo l’acqua sulfurea acquisisse forza e invulnerabilità.

    «Fermati, dove credi di andare?» le intimarono da lontano.

    Amalia rinsavì, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Quindi superò una piccola cresta di vecchio materiale di scarto e discese rapidamente verso l’entrata.

    «Non oserai cacciarti lì dentro, non lo farai!» le urlò contro Tonio. «Non hai le palle!»

    La storpia lanciò un’occhiata al gruppo, che si era fermato a una dozzina di metri da lei. Poi tornò a scrutare l’apertura, laddove la morte sembrava gettare imponente la sua ombra. Per un istante sentì un brivido salirle lungo la schiena, così intenso da irrigidirle tutti i muscoli. Si toccò con delicatezza la guancia ferita e, con una mano scossa dal batticuore, si pulì il sangue denso e caldo che le era sgorgato dal naso. Avrebbe preferito perdersi nei meandri oscuri della miniera, o essere divorata da qualsiasi genere di creatura immonda, piuttosto che farsi brutalizzare ancora da quei degenerati figli di puttana.

    «Ti vengo a prendere e ti trascinerò per i capelli fino in contrada!» esclamò Diego che, preso dalla rabbia, si arrampicò sulla montagnola di ganga.

    I due compagni lo raggiunsero, ma solo per impedirgli di proseguire oltre.

    «Cosa fai, scemo? La Biddrina… è lì che vive!» affermò la giovane, cercando di farlo ragionare.

    Diego digrignò i denti. «Che si fotta la Biddrina! Io voglio massacrare di pugni quella maledetta!»

    «Calma, calma, per oggi ci siamo divertiti abbastanza!» intervenne Tonio. «Non mi va proprio di scendere là sotto. È buio, fa freddo e poi…»

    «Non c’è nessun cazzo di mostro, volete capirlo? Siete una rottura!» protestò Diego, ma non si mosse. Preso dalla collera, afferrò un sasso e lo lanciò contro Amalia. La storpia fece in tempo a schivarlo, riparandosi dietro una trave di legno. Subito dopo gliene giunse un altro e un altro ancora. I tre la stavano bersagliando, costringendola a retrocedere e a infilarsi nel varco.

    Nella confusione del momento però, complice il panico, la ragazza inciampò su una sporgenza e perse l’equilibrio. Cascò all’indietro, atterrando malamente di schiena, ruzzolò di lato e andò a finire su una pozza di acqua stagnante. Provò a rialzarsi, ma una fitta improvvisa al bacino la fece crollare nuovamente al suolo: un attimo dopo si trovò a scivolare in maniera incontrollata sulla fanghiglia, inghiottita da un tunnel sempre più buio e freddo. Cercò un appiglio con le mani, ma più si muoveva più il terriccio le entrava nel naso e in bocca, impedendole di respirare.

    Fin quando non perse conoscenza.

    La storpia rinsavì di colpo, boccheggiando in preda agli spasmi. Si ripulì la faccia, aprì le palpebre e si guardò intorno: era sola, immersa nella totale oscurità, e aveva perso completamente la cognizione del tempo. Uscire da lì sarebbe stato impossibile.

    Pianse. Pianse come mai aveva fatto prima, così forte che i singhiozzi echeggiarono tetri per tutta la galleria. Sentiva il bisogno di raggomitolarsi sul letto, chiudere gli occhi e riaprirli sperando solo di risvegliarsi da quel brutto sogno.

    Ma l’incubo era appena iniziato.

    Un rumore sommesso e improvviso alle sue spalle, simile a un respiro sottile, la fece trasalire. Si volse e rimase immobile, con i sensi in guardia. Avvertiva un senso di freddo, uno strano formicolio e la sensazione di essere osservata. Udì un sibilo leggero e qualcosa strisciare sul terreno limaccioso. C’era una presenza lì con lei che la stava studiando e che si avvicinava lentamente.

    A quel punto le sue gambe si mossero da sole, vinte dall’istinto e dall’ansia. Cominciò a correre alla cieca, tenendo larghe le braccia a tastare le pareti rocciose. Svoltò un angolo, tirò dritto e s’inerpicò per un breve tratto.

    Quando discese, tuttavia, andò a finire dentro un fosso, sprofondando nell’acqua melmosa fino alla vita.

    Nell’aria adesso aleggiava un silenzio penetrante, capace di opprimere e annichilire ogni pensiero. Una quiete apparente spezzata dall’entità: arrivò sbucando dallo stesso stagno in cui la giovane era sprofondata. Era enorme, la percepì librarsi attorno a lei, volteggiando, sondando, emettendo strani versi.

    Il terrore ormai aveva preso il sopravvento, avviluppandola in una spirale di angoscia e afflizione. Era bloccata, con lo sguardo fisso e perso nelle tenebre, incapace di riflettere, di cogliere qualche forma razionale in quella raffica di manifestazioni.

    E poi accadde… la leggenda divenne realtà.

    Un odore acre di zolfo le giunse violento alle narici, mentre alzava il capo a incrociare due orbite indefinite che, simili a sfere infuocate, emersero dal nulla dell’oscurità. Subito dopo si sentì artigliare i piedi da qualcosa di viscoso, che le aggrovigliò le gambe e strisciò fino alla gola. Seguì un morso: non fu doloroso, a parte un leggero senso di bruciore. Il corpo adesso era intorpidito, tranne il collo; in quel punto aveva la sensazione che le stessero conficcando degli aghi nell’osso.

    Siamo simili noi due, mostri generati dallo stesso padre. L’odio.

    Amalia sgranò gli occhi. La voce proveniva direttamente dalla sua testa.

    Non puoi parlare, sei nata incompleta, deforme. Non avere paura, non temermi. Sei un obbrobrio, un orrore… proprio come me. Sei arrabbiata, lo capisco, ti capisco. Sei afflitta da una vita ingiusta che non ti appartiene, che non meriti. Lo percepisco. Sono in te. Avverto ogni cosa, la tua coscienza mi è chiara, nuda. Odi lavorare la terra, sopportare i piagnistei di tua madre mentre sbriga le faccende di casa con la diligenza di una schiava. Odi tuo padre, sottostare alle leggi ingiuste che ogni giorno ti impone.

    Vorresti poter correre libera per i prati, annusare fiori, buttarti in mezzo alle margherite, sorridere e guardare il sole rinascere all’alba. Vorresti poter cantare, parlare, gridare… ma non puoi. Ti hanno tolto il diritto di farlo. La vita ti ha tolto il diritto di farlo, essere libera, completa, felice. Ti hanno tolto tutto. Eppure io posso appagare il tuo senso di vuoto. Io posso.

    Posso darti ciò che vuoi, ciò che desideri, lì nel profondo. Quello che freme risvegliarsi. Io lo so, sì. Perché adesso sono in te… sono te. Posso darti ciò che brami da tanto.

    La bestia rilasciò la sua spira mortale. Amalia fu colta da un forte senso di nausea, i suoi occhi si ribaltarono e, prima che perdesse conoscenza, riuscì a cogliere un’ultima parola. Aveva il sapore di un anatema, la maledizione di un’entità che alla stregua di un parassita si era insinuato nella sua parte più recondita.

    Vendetta.

    Riaprire le palpebre fu altrettanto doloroso. La coscienza, distorta dai postumi di un incubo che l’aveva tenuta segregata in un limbo indefinito, risorgeva in lei come un fuoco dal profondo.

    Bruciava.

    Priva di cognizione, si trovava distesa su un manto di erba umida all’esterno della miniera, davanti all’ingresso. Com’era giunta fin lì? Quanto tempo era trascorso? Si era trattato di un delirio o aveva realmente incontrato la Biddrina? Provare a dare una spiegazione razionale a tutti quegli interrogativi sarebbe risultato tanto impossibile quanto inutile.

    Si arrampicò su una duna di ganga, anche da lassù il panorama non offriva nulla di nuovo. Rabbrividì e solo in parte a causa dell’aria fresca. Quel paesaggio, così statico e silenzioso, le trasmetteva uno smarrimento mai provato. Il cielo pian piano si schiarì e all’orizzonte il sole iniziò la sua scalata verso il nuovo giorno.

    Sette giorni dopo

    Amalia si alzò dal letto alle prime luci dell’alba e come ogni mattina si guardò allo specchio. A causa di una fusione prematura delle suture della base cranica, le orbite e il complesso

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