Nessuno sceglie il drago
Di Jam Marotta
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Anteprima del libro
Nessuno sceglie il drago - Jam Marotta
IL RAPPORTO RECENTE CON LA SCRITTURA
Sono anni che non scrivo. Che non scrivo realmente.
Ho smarrito la vena creativa tra i monti ed i boschi e, da allora, ho sempre faticato a ritrovarla.
Ora che sono qui, dinnanzi un foglio bianco, sento di voler essere onesto in primis con me stesso, forse, ed ammettere che non ho fatto molto per distruggere quel blocco dello scrittore che, prima o poi, colpisce tutti.
Avevo paura.
La mia mente, per diverso tempo, è stata invasa da pensieri pessimi, deprimenti e maledettamente folli.
I miei figli letterari non meritavano una sorte simile ed io, d'altro canto, non avevo voglia di affrontare quegli ostacoli interiori dandogli vita su carta.
Mi sono nascosto dietro un computer spento, una penna scarica ed un foglio strappato.
Mi sono riempito di scuse per continuare a non scrivere, ho abbracciato diversi altri hobby ed ho coltivato quelli.
Scrivere, in effetti, mi faceva stare male. Anche solo il pensiero di dover scrivere. Di dover entrare nella mia mente caotica e distrutta, mettere a posto sentimenti e sensazioni e razionalizzare un pensiero mettendolo nero su bianco.
No, grazie!
, mi dicevo.
Ho chiuso ogni comunicazione tra la mente e il cuore, ho scavato a fondo nel mio petto e ho gettato quell'organo battente dentro uno scrigno, destinandolo agli abissi dell’oceano, come Davy Jones.
Peccato che la mia Olandese Volante non è mai stata pronta per salpare. Ancorata ad un porto sconosciuto, lontana anni luce dalla possibilità di navigare per mari e fondali.
Ma ho dovuto farlo, per sopravvivere.
Ho dovuto farlo, per non impazzire.
1 giorno sulla terra, 10 anni in mare
.
Un duro prezzo da pagare, certo. Ma quale altra possibilità avevo, realmente?
Un salto nel vuoto, per raggiungere il nulla assoluto? Oppure vivere io stesso nello scrigno di Davy Jones, ove la pazzia mi avrebbe lentamente divorato non lasciando nulla di me?
Ho scelto di salvarmi, di conoscermi, di cambiarmi.
Ho scelto di vivere.
Ho scelto di essere me stesso, nonostante tutto.
A volte nella vita siamo costretti ad indossare maschere che nemmeno vogliamo, dire bugie bianche per non appesantire situazioni, assumerci colpe per evitare inutili discussioni tra menti fin troppo orgogliose.
A volte si tenta di essere dolci, accondiscendenti, pronti ad ogni sacrificio pur di dimostrare che si ama in maniera reale.
A volte si sopportano sfuriate e litigi senza senso, rimanendo immobili e muti, attendendo che lo sfogo cessi.
A volte, comunque, ci rendiamo conto che tutti gli sforzi, i sacrifici, le rinunce e le scelte difficili non servono a nulla.
A nulla davvero.
Tutto si risolve con un incendio che divora quanto di buono hai creato e quel che rimane non è altro che cenere che il vento, soffiando, ti porta via non lasciandoti altro che alcuni residui impercettibili.
La scrittura, in questo senso, è sempre stata la mia salvezza.
Il mio Porto sicuro.
La mia Tortuga.
Amo il genere Fantasy e il genere Noir. Mi sono anche spinto a scrivere qualche thriller ma mai, mai mi ero cimentato a scrivere una storia come quella che andrete a leggere.
È stata una sfida, che ho accettato di buon grado.
Uno stimolo per mettere me stesso e la mia mente alla prova dopo un lungo periodo di sonnolenza.
Non scrivevo così assiduamente da diversi anni ma, quando è arrivata la possibilità di dare alla luce questo romanzo, non ci ho pensato un attimo e la mia inventiva, piuttosto riposata dopo il lungo letargo, mi ha spinto a fare ciò che non sapevo fosse possibile fare: scrivere un intero libro in 15 giorni appena.
Quanto segue, quindi, è la storia di Alex, detto Fallen
, un ragazzo borderline che si racconta, pagina dopo pagina, mettendo su carta una vita divisa tra momenti difficili, scelte sbagliate e la propria paranoia, dettata dal dualismo della propria personalità con una figura minacciosa all'agguato, nascosta nei meandri di se stesso e pronta a saltar fuori alla prima difficoltà.
Con questa breve introduzione, dunque, non mi resta che augurarvi una buona lettura e ringraziarvi di avermi dato l'opportunità di dare alla luce questo mio nuovo figlio letterario e la sua travagliata e profonda storia scrivendo la sua avventura interamente da cellulare.
Jam Marotta
Awen Soul
ADOLESCENZA E POCO PIÙ
IL SOLITO RISVEGLIO
Non ricordo se, quando nacqui, provai un trauma simile. Tuttavia, ogni mattina per me è uguale, una sfida che fatico a vincere e che, spesso, mi lascia segni profondi per lungo tempo; sì, parlo del risveglio, il dannatissimo risveglio.
Ancor prima di mettere giù i piedi dal letto ho già la sigaretta in bocca, ravvivo i capelli con le mani, mi stropiccio gli occhi e le palpebre ancora incollate e sbadiglio smodatamente.
Non di certo il ritratto cinematografico al quale ci hanno abituati in tv, anzi, io ne sono il perfetto ritratto dell'antitesi.
Per terra e sul letto sembra un campo di battaglia: calzini caduti dopo un'onerosa battaglia lunga un'intera giornata, qualche lattina di birra riversa, una maglietta arrotolata con le lenzuola e foto. Maledettissime e dolorosissime foto.
Certi ricordi ti rimangono addosso.
Certe notti ti rimangono addosso.
Certe pelli, certi ansimi, certi piaceri rimangono addosso e si fatica a lavarli via.
Ogni mattina è una battaglia contro la vita reale: io tento di riconquistare il sonno e la sveglia mi ricorda che devo rendermi operativo in un tempo misero.
Ho sempre reputato violento questo metodo di svegliarsi.
Una sveglia, un suono metallico ed odioso che, giorno dopo giorno, ci costringono a dure levatacce anche se ci sentiamo ancora stanchi, stravolti e non preparati.
Ma la vita se ne frega di noi. La vita è sempre di corsa. Ci vuole preparati, funzionali ed operativi fin da subito.
Forse per questo mi sono sempre sentito inadeguato alla vita.
Forse per questo sulla mia carta d'identità dovrebbe comparire, nei segni particolari, la dicitura: Non idoneo a questa realtà
.
Non idoneo.
Uno sbadiglio, un grugnito senza alcun significato e via, bisogna alzarsi.
Ogni mattina la stessa prassi: ci si ficca in bagno per una sciacquata alla faccia e ai denti, una pisciata liberatoria e poi il ritorno in camera a cercare dei vestiti idonei, dall'olezzo non così pungente e, dunque, ancora vivibili. Una ravvivata ai capelli con le mani, un elastico logoro per fermare la lunga coda in maniera che sembrasse vagamente curata, e poi fuori ad accendere il motore dell'auto.
È appena trascorsa un'altra notte rubata al sonno per scrivere una decina di pagine di un racconto che da tempo cerco di concludere. Quando la mia testa si intestardisce che deve partorire le proprie idee, non c'è stanchezza che tenga; devo mettermi davanti alla tastiera del pc e cominciare a digitare parola dopo parola, paragrafo dopo paragrafo, concetto dopo concetto, tutto quello che la mia fantasia riesce a creare.
È il motivo per cui sono perennemente stanco.
Dormo poco, scrivo tanto.
E ho milioni di pensieri.
Si, l'ho sempre detto che il peggior nemico di me stesso sono io.
La mia mente, il mio pensiero.
Ho scritto novelle, racconti brevi, romanzi, articoli di giornale e sceneggiature. Ho scritto poesie e testi di canzoni. Ho scritto di me stesso, di altri e ho dato alla luce migliaia di personaggi immaginari.
Ho scritto anche diari segreti come una ragazzina quattordicenne che riempie le pagine di cuori e nomi, attimi impreziositi da sogni e speranze, paure e verità che, vomitate di getto su quei fogli bianchi, hanno il potere di diventare reali.
E spesso, a rileggerli, fanno male.
La notte è fatta per dormire, dicono.
Maledetti bugiardi.
La notte è il momento di pace per eccellenza.
Nessun rumore e nessuna distrazione.
Solo il rumore dei tasti del pc che vengono pigiati con veemenza e velocità.
Alle 05:00 a.m. suona la sveglia, sei giorni su sette.
Alle 04:00 , spesso, sono ancora immerso nel capitolo che mi impongo di finire.
Ma le mie passioni non si limitano a questo.
Suono, compongo, pirografo il legno, modello il filo di alluminio per creare monili e sono un fottutissimo nerd impallinato con videogame e serie tv.
Insomma, cerco di tenere la mente impegnata per evitare che essa prenda il reale sopravvento sulle mie intenzioni e i miei stati d'animo e, quando nemmeno i miei hobby riescono a distrarmi, stappo una birra, la verso nel bicchiere e guardo la mia vita galleggiare in quel liquido ambrato sfidando idealmente me stesso e tracannandola tutto d'un fiato.
Da ragazzino bevevo a dismisura, per piacere ai più grandi, per dimostrare di essere uno tosto, per ficcare i miei problemi sotto litri e litri di alcool che bruciavano le mie inibizioni e mi trasportavano in un mondo di piacevoli imprevisti. Lontano dalla costringente realtà che, da lì a poche ore, mi aspettava nuovamente a braccia aperte, pronta a recuperarmi e a incatenarmi ancora una volta a sé.
Il solito risveglio dietro la fastidiosa voce metallica di una sveglia, con poche ore di sonno sulle spalle, con la schiena dolente per via del lavoro e con le gambe troppo affaticate per correre.
Corri, vita, galoppa veloce.
Io ho deciso di andare a passeggio.
MI PRESENTO
Mi elevo a servitore dell'arte ma sono solamente uno schiavo di me stesso. L'arte è una via di fuga dalla realtà, la mia via di fuga, con tutto ciò che questa scelta comporta.
Non sono un artista, un musicista, un artigiano o chissà cosa.
Sono me stesso con tutte le paranoie, le complicazioni e i disagi di cui sono composto.
Per la società rispondo al nome di Alex da circa trent'anni.
Per il web, per le mie opere, per il mio animo, invece, mi sono sempre fatto riconoscere come Fallen.
Il caduto.
Colui che nella corsa campestre scatta in avanti e a un centimetro dal traguardo inciampa, cade e guarda i piedi degli avversari superarlo vincendo. Colui che rimane sempre indietro.
Colui che non riesce a stare al passo con i tempi e si trova sempre ad inseguire, ansimante, le vicissitudini della quotidianità.
L'inadeguato e perennemente sbagliato Fallen.
In fondo, se non si fosse ancora capito, Fallen e Alex hanno un rapporto burrascoso.
Certo, siamo la stessa persona, ma dentro me c'è una battaglia furiosa che sembra non avere fine tra la razionalità di un ragazzo trentenne che sente il dovere di dimostrare al mondo di essere adulto, maturo, responsabile e pronto ad affrontare la vita come i suoi coetanei e la parte irrazionale e sognatrice che non accetta le catene imposte dalla vita adulta e preferisce continuare a voler vivere di sogni, di speranze e di utopiche fantasie.
Tra i due contendenti c’è, quindi, la mia esistenza.
Ed io, anche se non è troppo un segreto, e nonostante accetti la visione di Alex, patteggio per lo stile di vita di Fallen, anche se, pubblicamente, non posso certo espormi troppo. Anzi… forse, l'ho appena fatto.
Da servitore dell'arte, come mi amo definire, a puttana del caos.
Sì, il caos mi scopa violentemente come una puttana pagata per soddisfare i suoi desideri servilmente.
Sono un casinista nato, incapace di mantenere l'ordine e di prendere ordini, e maestro indiscusso nel rovinare ogni cosa nel momento meno opportuno.
Una dote che mi porto dietro da sempre e che mi sento cucita addosso da quando ero un bambino in procinto di rapportarsi con i propri coetanei nei primi anni delle elementari.
C'erano gli estroversi, gli introversi, le ragazzine che facevano gruppo… e poi c'ero io: un fantasma di carne che non trovava posto in nessun gruppo sociale, nonostante non mi mancasse certo la dialettica.
Semplicemente mi son sempre sentito fuori luogo e, quando cercavo di avvicinarmi a qualche compagno per stringere amicizia, immancabilmente qualcosa andava storto.
A lui piaceva Star Wars, io non lo sopportavo.
Lui amava le arti marziali, mentre io non mi ero mai avvicinato a nessuno sport fino ad allora.
Lui aveva già un computer e qualche gioco su floppy disk, ed io non avevo nemmeno idea di come potesse accendersi lo schermo.
Diversità che mi hanno sempre portato a sentirmi differente, inadeguato, sbagliato e diverso.
Diversità che io stesso sottolineavo, apparendo più sfigato di quanto già non fossi agli occhi dei miei coetanei.
Credo che sia nato in quegli anni il dualismo che ancora porto dentro me.
Proprio in quei primi anni di scolarizzazione mi venne regalato, non ricordo per quale evento, un libro su un drago che regnava da secoli su un regno fantastico e cacciato, per lande infinite e monti innevati, dal solito eroe di turno che cercava di liberare le proprie terre dalla morsa di quell'immensa bestia.
Ricordo ancora che non riuscivo a comprendere come mai in quella storia tutti provavano odio per il drago.
In nessuna pagina si menzionavano atti di violenza della leggendaria bestia, tuttavia, capitolo dopo capitolo, il drago venne messo in fuga dall'eroe, acclamato successivamente dal popolo, perdendo così il suo regno.
Provai empatia per il drago ed odio per l'eroe.
Provai il dolore e la rassegnazione che doveva aver provato quella creatura volando via, oltre l'infinito, abbandonando le terre che da secoli proteggeva solo perché il popolo aveva deciso cosi.
Solo perché era diverso.
Solo perché, non essendo un essere umano, ed avendo un aspetto spaventoso, non era ben accetto nelle sue terre.
Ricordo quel libro come se lo avessi ancora tra le mani oggi e, per assurdo, non ricordo nemmeno il titolo di quell'opera ma, in cuor mio, ricordo bene che patteggiai per il drago.
Perché in fondo io ero quel drago, sono quel drago e si sa, nessuno sceglie mai il drago.
AMORE ATTO I- L'INCONTRO
Il cielo plumbeo ruggiva in maniera ben poco fine sopra la mia testa, la mano sinistra stringeva il volante, la destra era appoggiata al cambio ed i piedi giocavano sapientemente sui pedali della mia automobile.
Avevo da poco inserito la quarta marcia, percorrendo la strada ai 90 km/h, mandando il motore a quasi 3000 giri.
Frizione, quinta.
E accelero.
Accelero ancora sulla statale che divide il mio paese dal capoluogo di provincia dove, in effetti, trascorrevo il 90% del mio tempo libero.
La velocità ha sempre esercitato un certo fascino su di me.
La voglia di correre, di arrivare prima ovunque e sempre.
Ciò mi porta a pensare che questa mia passione
passi anche attraverso la mia idiosincrasia nei confronti dei ritardi.
Sono sempre stato il tipo che ama arrivare venti minuti prima sul luogo dell'incontro per poi sbuffare impaziente, in attesa che giunga l'ora prestabilita, incazzandosi per eventuali ritardi.
Quel giorno, mentre viaggiavo sul grigio asfalto tra le nere nuvole che adornavano il cielo autunnale, mi resi conto di quanto un raggio di sole avrebbe rasserenato anche il mio inquieto essere.
A dir la verità era da un anno che la bella stagione si faceva attendere e l'estate appena trascorsa, di certo, sarebbe passata alla storia per i continui sbalzi di temperatura e i violenti temporali che aveva scatenato.
Non esistono più le mezze stagioni
, ripetono i vecchi.
Non esistono più le stagioni, mi trovo spesso a pensare.
Ma quel giorno, di monotona e stressante quotidianità, qualcosa era in agguato per stravolgermi la giornata.
Infatti, per puro caso, o per volere del destino, quel giorno io la incontrai!
Avevo trascorso tutto il sabato pomeriggio al bar, seduto nella sala fumatori a sorseggiare Campari col Bianco in compagnia del mio computer portatile.
Avevo sempre amato sedermi in mezzo alla gente, tenere un profilo basso e travestirmi da osservatore del mondo.
Origliare conversazioni, studiare gesti e stati d'animo e, quindi, riprodurre una versione romanzata delle vite che avevo rubato, ascoltando.
Scrivere, vivere un centimetro oltre la realtà e non farsi scalfire dagli avvenimenti di questo piano astrale.
Così amo trascorrere il mio tempo libero: la mente immersa nella nebbia dell'alcool e la fantasia che galoppa libera e senza freni su un foglio di testo del pc.
Fu in quel momento di quel giorno apparentemente anonimo che, immerso nel mondo da me creato, fui catapultato violentemente nella realtà sentendo entrare nella sala fumatori che occupavo due ragazze, di cui una zoppicante e con le lacrime a rigarle il viso.
Senza farmi fermare dai pensieri mi alzai di scatto e, avvicinando la malcapitata come farebbe un malintenzionato, la presi in braccio e la adagiai con calma sopra il divanetto dall'altra parte della stanza.
Mi occupai anche di recuperare del ghiaccio, lasciando momentaneamente la stanza e tornando poco dopo accompagnato da alcune risolini ben poco celati. Probabilmente stavano ridendo di me e della mia irruenza ma, in quel momento, ignorai la cosa.
Senza conoscerla le sfilai la scarpa da ginnastica nera e mi preoccupai di tenerle premuto il ghiaccio sulla caviglia.
Grazie
, mormorò lei.
Una voce gentile, delicata e rotta dal pianto che non aveva ancora cessato di rigarle il viso.
Sentii le guance tirare e un inspiegabile calore prendere il sopravvento.
Non le risposi, mantenendo lo sguardo sul suo piede come se, fissandolo, potessi farle scomparire il dolore.
Dopo qualche minuto di interminabile silenzio decisi di provare a proferire qualche parola.
Come hai fatto a farti male?
, le chiesi, sperando bene di non essere troppo invadente.
"Ho appoggiato male il