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Fedeli alla linea
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E-book257 pagine3 ore

Fedeli alla linea

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Info su questo ebook

Martinelli, Lorenzo e Cristina, tre giovani disillusi e impauriti da un futuro incerto, decidono di non rischiare nulla pur di non perdere quel poco col quale sopravvivono ogni giorno
Cristina compie trent’anni e organizza una festa all’insegna dell’eccesso.
Martinelli rincorre una ragazza fin troppo volubile di cui si è improvvisamente innamorato.
Lorenzo mette a rischio l’integrità delle sue amicizie per la sua ossessione per la droga e le donne.
LinguaItaliano
Data di uscita19 mag 2021
ISBN9791280184962
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    Anteprima del libro

    Fedeli alla linea - Salvatore Martusciello

    Ringraziamenti

    colophon

    Salvatore Martusciello

    Fedeli alla linea

    © 2021 by All Around srl

    ISBN 9791280184962

    redazione@edizioniallaround.it

    www.edizioniallaround.it

    It’s hard and frustrating

    ’cuz not so back in time.

    It’s hard and frustrating

    ’cuz all those times are gone.

    X35 - Hard to believe

    Martinelli

    Mi piacerebbe essere a quel punto della mia vita in cui poter ricordare di adesso. Mi piacciono i ricordi, sarebbe bello sapere che posso non rimpiangere più nulla.

    Mi ricordo di quando scoprii il punk. Quanto mi piaceva tornare a casa e allungare la strada solo per ascoltare un’altra canzone nelle cuffiette. Spero mi piaccia ancora il punk.

    Mi ricordo di quanto mi piacessero i film, specie quelli di Cronenberg. All’università mi convinsi di vedere il mondo come mi avevano insegnato i suoi film.

    Le canne, le Peroni ghiacciate, gli amici. Chissà quanti sono andati via, chissà con quanti ho continuato a farmi le canne e bere le Peroni. Mi ricordo anche le ragazze. Chi lo sa chi mi sono scopato, o chi mi sarei voluto scopare.

    Mi ricordo di essere stato triste e non poter pregare perché in Dio non c’ho più creduto. E io non sono di quelli che ci credono solo quando conviene.

    Mi ricordo quella volta, di notte in centro, dove osservavo tutti quegli ubriachi e mi sentivo l’ultimo degli stronzi perché a differenza loro pensavo troppo. Volevo andare via, rischiare, volevo prenderli a testate perché loro di testate non ne avevano mai date. Così diedi una testata a un ragazzino che mi ricordava il me di dieci anni fa.

    Sono sicuro che a David Cronenberg piaccia il punk.

    La sveglia del cellulare, una musichetta che odio ma che non ho ancora cambiato, suona. È l’unico rumore che si sente in casa. Mi alzo sempre prima dei miei coinquilini e amo il silenzio della mattina perché posso non parlare con nessuno. Come ogni giorno aspetto giusto due secondi per mettere a fuoco il fatto che sto per affrontare un’altra giornata inutile e che, ad oggi, non sono ancora andato via e non ho mai rischiato. Ho solo una cicatrice sulla fronte che me lo ricorda.

    Spengo la sveglia sapendo già che suonerà di nuovo tra dieci minuti. Dieci minuti di sonno in più vitali che aiutano quando la sera prima sei andato a letto strafatto e ubriaco. È una costante della mia vita ormai, tanto da non ricordarmi l’ultima volta che mi sono addormentato realmente lucido.

    Mi alzo a fatica dal cuscino bagnato dalla mia bava e il mio sguardo cade sul posacenere pieno di sgamini. L’aria puzza di mozzicone perché quando non ci sono tengo le finestre chiuse. Ho paura che entrino i piccioni, ne ho dovuti già affrontare un paio. Dimentico anche di chiudere le tende prima di andare a letto e la luce che mi entra negli occhi mi rovina la giornata ancor prima che inizi.

    Infilo la prima polo pulita dirigendomi in cucina. In soggiorno c’è l’ennesimo sconosciuto che dorme sul divano ma la cosa ormai non mi sorprende più, non mi sforzo nemmeno di capire chi sia.

    Il bidoncino del vetro è stracolmo e nella moka c’è ancora il caffè di ieri pomeriggio, quindi devo scegliere se rifarlo o dedicare lo stesso tempo a darmi una sciacquata. Penso a mia madre e quindi mi lavo. Mentre mi spazzolo i denti mi autoconvinco, sempre di più, che ci sia un girone dell’inferno dedicato a chi spreme il dentifricio a metà tubetto. Penso al giudizio di mia madre anche quando vedo il lavandino non pulito da giorni e i miei capelli sempre spettinati.

    Ho ventinove anni e vivo come un fuorisede, e ogni tanto penso al suicidio. Non spesso, ogni tanto. Forse perché ogni mattina non trovo un valido motivo per aprire gli occhi. Quando lo troverò, forse, potrò suicidarmi.

    Quando comincio a fare pensieri del genere mi viene sempre il respiro affannato, sudo e mi contorco nel letto finché non riesco a darmi una calmata e ad accettare, almeno per riuscire a dormire, che un giorno morirò e quel nulla assoluto che si prova nel sonno senza sogni sarà eterno. Credevo fossero attacchi di panico e invece è solo una morbosa paura della morte. Ho un rapporto quasi patologico con la mia fine e ho sempre pensato che sarebbe meglio non accorgersene se stai morendo. Chissà cosa provano quelli che sanno di dover morire, o peggio quelli che hanno una pistola puntata alla testa. Come quando ti fanno l’anestesia, solo che dopo non ti svegli. È tutto nero e tutto diventa immediatamente inutile e forse la vita è uno scherzo, perché quando sarò morto niente e nessuno sarà mai esistito.

    Non accetto ancora che dovrò dimenticare tutto e tutti indifferentemente, tant’è vero che faccio spesso un backup delle foto del cellulare per non perdere niente. Mi chiedo a che serve vivere se siamo destinati a morire e invidio chi non ha paura della morte, senza nessuna ansia dell’ignoto. Non voglio nemmeno essere cremato perché se in qualche modo possono resuscitarmi sarò felice di fare da cavia.

    Sarà mica l’erba? Il pensiero che uno dei pochi piaceri che ho mi abbia portato l’ansia e i finti attacchi di panico mi tormenta. Pensare che da ragazzino mi facevano schifo anche solo le sigarette. Poi, dopo la prima canna, ho cominciato a immedesimarmi continuamente nel borsellino di mia madre per ipotizzare dove potesse essere nascosto ogni volta.

    L’ansia si prende tutto della mia vita, c’è chi dice addirittura che il mio non mangiare verdure è un rifiuto della morte perché non voglio abbandonare il bambino che è in me. Non lo so. Può anche essere. Sta di fatto che le verdure mi fanno veramente schifo.

    Se sono così insoddisfatto da non prendere più nessuno a testate e non trovare un buon motivo per ammazzarmi, oltre al terrore del nulla eterno, è colpa mia. Sono stato pigro, poco furbo e ho perso troppo tempo. Ho solo ventinove anni ma sono sempre in ritardo, nonostante l’ansia mi abbia fatto arrivare sempre dieci minuti prima. Fosse davvero colpa dell’erba affermerei che è un prezzo che però sono disposto a pagare. In un modo o nell’altro, ho conosciuto tutti i miei amici facendo girare spinelli e resta per me il più grande aggregatore sociale che esista. Mi viene l’angoscia se penso che un giorno dovrò pur smetterla di stare sul divano con gli amici a rollare una canna dopo l’altra. Se non è l’erba, e nemmeno l’ansia, non so allora cosa mi tenga sempre preoccupato per il mio futuro tanto da rifiutare di pensarci.

    Considerando quello che faccio per vivere è ovvio essere preoccupati, come certamente tanti altri alla mia età. Lavoro in un ufficio, un’agenzia di comunicazione, che mi paga seicento euro al mese per quaranta ore settimanali. Sul contratto dovrebbe esserci scritto che sono un part-time, ma la cosa divertente è che un contratto non ce l’ho. Poco male, perché il mio lavoro consiste principalmente nel gestire Spotify nella filodiffusione dell’ufficio e grazie a me si ascolta solo bella roba. Dai Nirvana ai Wu-Tang Clan, dai Sonic Youth ai Joy Division e i più disparati. Prendo molto sul serio le mie mansioni e grazie a me quei disperati che disegnano volantini su Photoshop imparano qualcosa di utile.

    Con seicento euro al mese pago l’erba, le birre e la stanza in una casa del centro dove vivo con Fiamma e Lorenzo. Lorenzo fa l’aiuto cuoco in un ristorante di sushi, l’ho conosciuto ubriaco lercio mentre ballava la tectonic in uno SKA, ma sono passati troppi anni per ricordare quando siamo diventati amici. Fiamma fa comunicati stampa e insegna scrittura creativa ai bambini, ma in realtà si fa fare le trecce dalle alunne mentre si appassiona alle loro prime disavventure amorose. Quando era poco più grande di loro continuava a leggere Harry Potter e a farsi le treccine mentre le sue coetanee cominciarono a farsi invece i maschi.

    Frequentiamo le stesse persone da anni, ma credo che ci siamo conosciuti veramente quando siamo andati a vivere insieme. Lorenzo e Fiamma si conoscono dall’adolescenza ma sono certo non si siano mai parlati tanto prima di vivere in questa casa, sempre troppo fredda o troppo calda. Mi chiamano sempre per cognome, tutti mi chiamano per cognome. Lorenzo lo storpia in Martins o Martinellibus, Fiamma lo abbrevia in Marti, gli altri in Martiné. A volte mi chiedo se sappiano come realmente mi chiamo.

    Esco in strada, stamattina ho scelto di ascoltare i Wovenhand, ed è quantomeno curioso vedere illuminati dal sole gli stessi posti dove sarò ubriaco tra qualche ora. Il tragitto che mi porta in ufficio non è lungo e vado a piedi, potrei prendere la mia 50 Special ma dopo tutti i soldi che c’ho rimesso di meccanico ho il terrore solo a togliere il cavalletto. Comprandola ho esaudito un desiderio e infatti è chiusa, come tutti i sogni che avevo nel cassetto, in una cantina che un vecchietto usa come garage. I miei invece abitano molto più vicino all’ufficio e la pausa pranzo la faccio con mia madre. Da quando sono andato a vivere da solo mi stringe e mi bacia come quando avevo nove anni e mi compra sempre la cena. Con mio padre invece guardo le partite e nel mentre fumiamo insieme.

    L’ufficio affaccia direttamente sulla strada, proprio davanti ai cassonetti dell’immondizia che in estate liberano quel fetore di condensa che entra a zaffate non appena si apre la porta. È lo scenario ideale per godersi il primo caffè della giornata, una cialda acquosa che sa di cancrena. Non faccio che rispondere a telefono e mandare qualche mail a pseudo clienti o possibili tali mentre il mio capo si lamenta dei miei capelli e della barba sfatta e controlla dalle telecamere che stia effettivamente facendo qualcosa. Non sa che il metodo per vedere gli episodi dei Soprano in streaming l’ho trovato lo stesso. Di sicuro non sono skills acquisite dal mio percorso di studi universitari.

    Qualcuno potrebbe chiedermi il perché non me ne sono mai andato da questa città e io rispondo che il cameriere posso farlo anche qui, senza dover andare necessariamente a Londra. Non sopporto chi mi dice che in Germania, per esempio, funziona tutto meglio, perché per loro basta iniziare come lavapiatti e finire a fare il manager da McDonald’s. Avere la busta paga, la pensione e tutte queste altre utopie, sono privilegi a cui ho già rinunciato, come ho rinunciato a emigrare per avere delle sicurezze quando sarò vecchio. Semmai lo sarò.

    Il mio migliore amico, Marcello, che tutti soprannominiamo il Maestro per il suo fare alla Califano, pensa che il posto fisso sia la morte, ossia l’unica cosa fissa della vita che riesce ad accettare. A grandi linee sono d’accordo con lui, specie quando con la sua finta parlata da gagà, nel momento in cui è il Maestro e non Marcello, mi regala delle massime o delle citazioni sempre azzeccate. Nonostante il soprannome afferma però di non sapere tutto, anzi, per sua stessa ammissione non sa niente e vuole imparare ogni cosa.

    A sei anni provava già a dare sempre un senso alle cose, si chiedeva perché questo e perché quello, e soprattutto preferiva una zeppola di san Giuseppe alle Goleador.

    Nessuno di queste sue peculiarità è però mai dipesa dalla sua educazione, né dalla sua famiglia. Marcello voleva semplicemente essere come gli idoli che scopriva da solo, senza suggestioni. Una volta sua madre lo sorprese che aggrottava gli occhi davanti allo specchio a ritmo costante e scandito. Gli chiese cosa stesse facendo e Marcello rispose che voleva farsi venire le rughe come Paolo Conte. Aveva già capito di voler invecchiare nel minor tempo possibile.

    Non ho mai ben capito cosa faccia per vivere sebbene una volta mi abbia confessato di sentirsi portato a fare la mamma. C’è chi dice sia un rappresentante di tessuti nautici, chi un sommelier, chi un impresario teatrale. Mi disse di avere anche letto per un periodo le poesie di Basile agli ergastolani. So per certo che frequenta vecchie nobildonne da cui si fa chiamare col nome dei loro amori perduti, e da cui si fa regalare vecchie e preziosissime reliquie. Il suo piano, stando alle sue parole, è recuperare il titolo nobiliare di principe perso chissà come. Mi dice sempre anche di dover imparare a morire e, soprattutto, smetterla di scappare.

    Anni fa sono stato in Kosovo insieme al mio amico Maurizio per un progetto interculturale organizzato dall’Unione Europea. Venticinque ragazzi provenienti da tredici Paesi diversi. I nostri supervisori, classici ragazzi da centro sociale occupato autogestito, vivevano a Marsiglia e campavano girando il mondo, facendo scambi interculturali, tutorato e cose simili. Ho pensato che a Marsiglia c’è il mare, l’hashish è ottimo e bevono il pastis annacquato al posto degli spritz. Quella vita potrei farla anch’io, in giro per il mondo tutto l’anno, scappando una volta e basta. Forse quei venti giorni in Kosovo restano gli ultimi veri momenti in cui mi sono sentito felice.

    Ho rinunciato alla felicità quando ho capito che non esiste, in modo assoluto, se non per pochi attimi. Ma esiste la serenità. Atterrato a casa pensai davvero che a Marsiglia potrei essere sereno. L’ultima volta che ho avuto una tale illuminazione fu quando tornato da Amsterdam decisi che non avrei più fumato sigarette per paura del cancro. Ho deciso che, se e quando fallirò, mollo tutto e vado a fare il tutor a Marsiglia, altrimenti devo andare in Sudan a fare volontariato così da diventare utile per qualcun altro, visto che per me stesso non ho fatto niente di buono.

    Sono così ignavo da non aver fatto niente, neanche per fallire, e sto ad aspettare chissà quale grande grazia cada dal cielo che, oltre a bussami alla porta, magari mi spiccia anche casa. Non mi sono ancora stancato e non lo so perché. Non so perché continuo a vivere così, ma prima di portare avanti quest’idea del suicidio devo trovare qualcosa per cui fallire.

    Quando finisco al lavoro resto sempre in strada a bere Peroni e spritz dal prezzo irrisorio. Molte volte devo buttare via la cena, ritrovandomi a mangiare un kebab quando sento l’alcol contorcermi lo stomaco peggio delle ansie notturne. Un’altra cosa che l’università non mi ha insegnato è nascondere con maestria gli sforzi di vomito causati da abuso di erba e alcol facendoli sembrare sbadigli, ma di certo non scrivo su Facebook che ho studiato presso l’università della strada.

    Finire di lavorare e abitare al centro di questa città equivale principalmente al vivere in un piccolo villaggio dove, storto o morto, conosci tutti e c’è sempre una scusa per fermarsi a bere e fumare. Quel che è certo è che fumano e bevono tutti, o almeno tutti gli abitanti del villaggio che conosco. Come il pervertito sessantenne seduto sempre allo stesso bar che, fumando una sigaretta dopo l’altra, guarda Pornhub sul cellulare senza preoccuparsene. Oppure Alfonsino, un nano peloso che si esprime come un uomo delle caverne e che cambia un lavoro dopo l’altro solo per comprarsi la coca. Ma loro sono solo due tra i tanti esempi.

    Ci sono quelli che hanno trovato il posto fisso, quelli che lo sognano, quelli che hanno ancora dei sogni. Punkabbestia d’ogni età con tutti quei cani sguinzagliati, i tossici e gli ex tossici, i barman che non hanno ancora capito quanto gin mettere in quei maledetti bicchieri di plastica e quelli che ti dicono che gli è rimasta solo birra calda. Ci sono gli studenti giovani e quelli troppo vecchi, ci sono i quarantenni che ancora sperano di fare musica, cinema e poesia e non sono riusciti nemmeno a rubarsi un assegno di disoccupazione. Ci sono quelli che volevano fare musica, cinema e poesia e adesso fanno i fonici nei cori del circolo, i video trap al cugino e il copywriting dei menù del bar dello zio.

    Li odio tutti. Odio i tossici di ketamina, che vanno a ballare solo per pippare nascondendosi dietro al fatto che la techno sia una ragione di vita. Odio chi parla soltanto dell’unico posto che ha visitato, chi fa di tutto per compiacere l’altro, l’incoerenza e l’ignoranza. Odio chi sta con la fidanzata anche alla partita, la Juventus, e gli juventini e chi pensa che il colore della pelle renda diversi. Odio le commesse truccatissime dei negozi di abbigliamento con una croce tatuata sul polso e la puzza delle loro Iqos. Odio i negozi bio, l’ostentazione e il fanatismo, la competitività. Odio Xavier Dolan, le borse con la faccia di Frida Kahlo, i poster della Tournée du chat noir, Banksy e la rivoluzione che fa sui diari delle ragazzine. Odio quelli dei centri sociali che hanno il papà notaio e il non poter far nulla per ripagare i miei genitori. Odio il gay pride e gli omofobi, le femministe e Freeda. Odio i buonisti, i parcheggiatori abusivi, i fasci, la musica di merda e odio stare in mezzo a tutta questa gente che si accalca per un negroni sbagliato. Ma odio anche stare da solo e come in ogni cosa della mia vita cerco un compromesso.

    Sono tanti, tutti riuniti a fumare e a bere in un unico posto, ma il loro numero non supererà mai la somma dei tatuaggi non abbastanza sbiaditi da fargli dimenticare l’errore di averli fatti. Io gli guardo le scarpe, è la prima cosa che guardo in una persona, come Keanu Reeves in L’avvocato del diavolo. Capisco tutto dalle scarpe, o almeno credo di farlo. Io, ad esempio, porto delle Vans di camoscio grigio scuro, coi lacci anche troppo lunghi per delle scarpe da skater. Hanno anche un piccolo buco a sinistra, il che suggerisce il mio preferire la comodità all’eleganza, ma come dice Lorenzo, cocainomane, senza stile non venire!. Lui s’è comprato le Blundstone però continua a pippare.

    Forse è per questo che le poche volte che vado ai baretti, quando sono costretto a sconfinare, non vedo l’ora di rollare una canna. Lì hanno un sacco di scarpe scomode di cui non conosco la marca. Se indossi delle scarpe scomode sei una persona falsa, e non sarà il tuo maglioncino Fred Perry a farmi venire voglia di diventarti amico, né l’impermeabile Burberry a farmi venire voglia di scoparti. Di fatto mi sono sempre reso irrintracciabile da tutte le ragazze che, ad esempio, usano la parola brunch.

    Non baso la mia vita sull’odio naturalmente, ma non saprei stilare la lista delle cose che amo.

    Col tempo ho capito che seguo una mia linea e mi soddisfa farlo. La linea dritta, decisa, retta, autoimposta. Questo sentimento di militanza, il senso cameratesco e collettivista dal sapore romantico. Concedo troppa importanza alla linea, troppa rispetto a quanta ne do alla fedeltà, che sembra scontata. Ho una linea, saprò esserle fedele oppure no?

    Eppure, non mi rendo conto di quanto spesso abbia le idee chiarissime su cosa vada fatto, come sarebbe giusto agire, senza metterlo realmente in pratica. Accumulo piccole eccezioni, trasgressioni, su alcune cose sorvolo e mi illudo che tutto sommato la linea sia ancora lì e la sto ancora seguendo. Essere fedele alla linea non è troppo diverso dall’avere un rapporto di coppia e onorarlo. Non c’è solo una direzione, di me verso il partner, di cui tener conto, ma anche quella del partner verso di me che pure è importante. Lealtà e devozione vengono ripagate, sempre.

    A questo mi serve agire rettamente. Che sia oggi, domani, tra cent’anni. Magari semplicemente sotto forma di idee che sopravvivono e prendono forma nel lavoro di altri. E, proprio come in un rapporto di coppia, essere fedele per essere ripagato non funziona, sto semplicemente seguendo l’obiettivo sbagliato. Questa separazione mi rende distante e incapace di essere veramente fedele alla linea. La base, quindi, non è la linea in sé, ma ciò che mi tiene legato a qualcuno o a qualcosa. Un’adesione così pura da rendere tutto così naturalmente trascurabile.

    Raggiunto questo punto la mia linea sarà così ben piantata dentro di me che non sarò neanche

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