Voglio essere punk
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Anteprima del libro
Voglio essere punk - Belén Gopegui
punk
Voglio essere punk
Belén Gopegui
Voglio essere punk
Voglio essere punk
In memoria di Luis Salarich
Senza Román G. Alberte non sarebbe stata possibile la colonna sonora di questa storia.
Toro Seduto è morto: non ci sono tamburi che annuncino il suo arrivo nelle Grandi Praterie. Voglio essere pellerossa.
Leopoldo María Panero
Prima parte
1
Detestavo la loro musica. Di solito sono i genitori che detestano la musica dei figli. Ma il fatto è, primo, che io non avevo musica e, secondo, che per loro sarebbe stato lo stesso se l‟avessi avuta perché io non cercavo di rifilargli quello che piaceva a me. Forse non dovrei raccontartelo. Che importa? Avere sedici anni e non avere musica. Ci sono ragazze della mia età che non hanno i genitori né una famiglia, né un letto, che ne so. Già, ma a cosa serve fare confronti? Le cose devono andare bene per come sono, e non perché sono meglio o peggio di qualcos‟altro. La mia penna è perfetta. Argentata, di quelle che schiacci per far scendere la punta. E ha i ricambi. Mi piacciono i ricambi. La mia penna così è unica, ha cinque ricambi che ho scelto io, due di inchiostro blu e tre di inchiostro nero. E basta. Non la presto a nessuno, non mi va. È con questa che ti sto scrivendo ed è tutto quel che mi serve. Penso che avere sedici anni, chiamarsi Martina e non avere musica è proprio uno strazio. Perché immagino che se ce l‟avessi sentirei di appartenere a un posto. Avere musica è come avere un codice. Ed è strano perché io credo di avercelo, un codice.
You, who are on the road, must have a code, that you can live by: tu, che sei per strada, devi avere un codice secondo cui poter vivere. In inglese suona meglio, fa anche un po‟ rima. È il testo di una delle canzoni che piacciono ai miei genitori. Io non le reggo, forse perché parlano di cose di cui mi importa, e le rovinano. Per capirci, gruppi come la Oreja de Van Gogh mi fanno schifo, anche se in fondo non se lo meritano. Mi corazón lleno de pena, y yo una muñeca de trapo, puah, è un‟idiozia, melensa, mi immagino qualcuno che la ascolta mentre aspetta in coda al supermercato con il carrello stracolmo di yogurt, detersivi e prosciutto cotto. Il mio cuore, prendo gli yogurt, pieno di tristezza, prendo il detersivo, e io una bambola di pezza, tiro fuori il portafoglio. In realtà, non è musica. Sono suoni preconfezionati, come quei giocattoli a pile per bambini che dicono premi qui
e tu schiacci e suonano. La musica, quella vera, non suona: ti trapassa il corpo da parte a parte.
È strano, mentre ti scrivo mi vedo scrivere ma non mi vedo dalla porta, è come se mi trovassi nell‟alloggio del piano di sopra e il pavimento fosse di vetro. Mi distendo sul pavimento dei vicini per guardarmi mentre ti scrivo, con un gomito appoggiato al tavolo e i capelli che mi coprono la faccia. Quassù non c‟è nessuno. Né i vicini, né il cane dei vicini. E allo stesso tempo sono lì sotto, sul quaderno, con te. Credo che mi capiti perché da qualche giorno sono uscita dalla storia: quella dei miei genitori, quella della mia scuola, quella della mia vita; quella che dovrebbe essere la mia vita, intendo.
All‟inizio pensavo che la vita fosse una di quelle feste in piscina in cui tutti fanno il bagno nudi ma qualcuno rimane vestito, cioè io. Ma ultimamente, per come mi sentivo, era il contrario: mi ero spogliata, mi ero tuffata in acqua nuda e fiduciosa, per scoprire che invece tutti gli altri erano rimasti vestiti, e qualcuno sembrava pure disposto a entrare in acqua con me, però con un supercostume bermuda o un bikini bianco. E così me la sono svignata, sai? Cioè, non sono uscita, ho chiesto un asciugamano e ho fatto una faccia da che bella l‟acqua si sta da dio. No. Mi sono asciugata, mi sono rivestita, e poi me la sono filata; e adesso me ne vado in giro con i capelli bagnati e l‟estate in corpo anche se nevica.
Da un po‟ di tempo i miei genitori hanno deciso che sono strana, come la maggior parte degli adolescenti se non di più. Pensano che ora vado male a scuola per questo, per un‟adolescenza difficile o qualcosa del genere. Ma la mia storia ha un inizio, è stato il 4 dicembre, me lo ricordo molto bene. Ho smesso di stare in classe. Cioè, visto che a scuola ci andavo, passavo le verifiche, non facevo cazzate, tutti erano tranquilli. Insomma: è come se dicessero che oggi è martedì, e quindi sarà sempre martedì. Non era martedì. Io ci andavo, ma non ero lì. Puoi far finta di seguire, questo lo sanno tutti. Arriva un momento in cui di certe cose non te ne frega più niente. Quando chi ti parla non ci sa fare, le parole non sono altro che un brusio di sottofondo. E visto che non ci sanno fare, possono anche menartela col domani, con la materia interstellare o con la storia mondiale dell‟hip-hop, ma io non me la bevo. Mi sembra che se mi avvicino a uno qualunque di quegli insegnanti e gli metto un dito sulla spalla, il mio dito indice sulla loro spalla, e spingo un po‟, così, e ancora po‟, ecco che cadono. E lo stesso i miei genitori: parlano e ascoltano canzoni ma poi, quando succede qualcosa, non stanno in piedi, se la svignano o corrono a nascondersi dietro una frase. E così, be‟, finisce che qui non c‟è nessuno, chi fa finta di parlare, chi fa finta di ascoltare, ma dove siamo?
La settimana dopo il 4 dicembre ci sono state le verifiche e mi sono andate male. Ne ho passate due, non so nemmeno come, in realtà. Nelle altre ho preso un 2, un 1, un 2.5, un 4.3 e un 3.9. Io prendevo sempre ottimi voti. Crisi. Prima arriva mio padre e mi chiede cos‟è successo:
«Be‟, non le ho passate. M‟è andata male».
«Martina».
La faccenda del nome mi scoccia, sai? È come una specie di scongiuro: guardi qualcuno e ti limiti a dire come si chiama. È pazzesco, ma lo si dovrebbe fare pochissime volte. Rovinano le frasi, rovinano la musica, sciupano tutto. Raccolgo il mio nome da terra e, mentre ci sono, anche quello di mio padre, che gli è caduto, e glielo do:
«Juan».
Ci è rimasto malissimo. Non so se volevo che ci restasse così male. Ma ho sedici anni. Alla mia età i cani sono pronti per l‟ospizio. E dicono che negli Stati Uniti ti lasciano guidare. Guidare una macchina è come avere una pistola carica. Ti prende un attacco di rabbia: bang, spari a qualcuno che ti infastidisce. Con la macchina puoi fare lo stesso: sei lì, sulle strisce pedonali, e vedi il tipico padre di famiglia con un vassoio di paste e la faccia di uno che ha i figli che vincono tutte le gare e prendono i voti migliori, cioè la faccia di uno che non li ha mai guardati negli occhi in tutta la sua vita, e allora togli il piede dal freno e acceleri: la fai finita, investi lui e le sue paste, addio. A sedici anni, se lui dice Martina, io dico Juan.
«Vuoi farti bocciare? Ti divertirebbe ripetere l‟anno?»
Non ho risposto. Ti giuro che non volevo affondare il coltello nella piaga. Sono rimasta a guardarlo come se continuassi ad aspettare che mi dicesse qualcosa e in effetti stavo davvero aspettando. Perché parlare è dire qualcosa, no? La Oreja de Van Gogh non canta anche se canta, niente musica niente parole niente dentro. E a volte nemmeno le persone parlano, anche se parlano. E così sono rimasta zitta, ad aspettare che dicesse qualcosa che venisse fuori da lui e arrivasse a me, non qualcosa che restasse a fluttuare come la filodiffusione in una sala d‟aspetto. Siamo rimasti così, a guardarci. Lui era molto arrabbiato, si vedeva. È passato mezzo minuto e se n‟è andato. Ma io non mi sono mossa nemmeno di un millimetro. Invece di mio padre, adesso vedevo un pezzo dello scaffale e mezza poltrona rossa. Ho notato che una parte dello schienale della poltrona era molto consumata, sembrava di colore arancione chiaro e si vedevano le righe dei fili orizzontali e verticali che la attraversavano, come quando un video è difettoso e su una parte dello schermo si vedono i rettangolini dei pixel.
Sono rimasta per una decina di minuti in mezzo al salotto. Dopo due o tre ormai non mi aspettavo più che mio padre mi dicesse qualcosa, ma non avevo la minima idea di dove andare. Nella mia stanza? In realtà ultimamente la mia stanza mi sta stretta come una scatola di scarpe e mi sta venendo il complesso del baco da seta. In cucina? Lì potevo di nuovo incontrare mio padre, o mia madre. In strada? A volte l‟ho fatto. Me ne sono andata di casa perché niente andava per il verso giusto, perché avrei voluto soffiare e soffiare e buttare giù la casa
come il lupo dei tre porcellini. Ma poi, per strada, che faccio? Attraverso, passo da una strada all‟altra, quelle nei dintorni le so a memoria. Una volta ho preso un autobus che non sapevo dov‟era diretto. Ed è tutto uguale anche se è diverso. Scendi in una strada qualunque e vedi di nuovo bar, negozi e porte chiuse. Sono la maggioranza, porte e ancora porte, tutte chiuse. Mi sarei perfino infilata in una chiesa se non avessi avuto la sensazione che dietro, da qualche parte, c‟è sempre un prete che guarda e che prima o poi ti si avvicina per chiederti se stai bene.
E allora me ne sono rimasta lì, in piedi. Avrei voluto scomparire. Invece sono entrata in ascensore. Mi girava così. Mi piacciono gli ascensori. Salgono e scendono. O stanno fermi. Sono come una stanza che non appartiene a nessuno. Mi sono accovacciata, con la schiena appoggiata alla parete. A un certo punto l‟hanno chiamato. Allora mi sono alzata e ho fatto finta di salire. Ho salutato, ho sorriso, buon pomeriggio, ciao. Che freddo fa, eh! Arrivederci, arrivederci. E sono risalita. Mezz‟ora dopo ero più tranquilla e me ne sono tornata a casa. Ma a quel punto, figurati, era il turno di mia madre. Poliziotto cattivo, poliziotto buono. Non è tutto schifosamente triste?
Mi ero chiusa in camera. Guardavo fuori dalla finestra. Siccome la nostra strada è stretta, le case di fronte sono abbastanza vicine. Abitiamo al terzo piano. Appartamenti della casa di fronte, un po‟ di cielo se mi chino e allungo il collo, e se guardo giù i marciapiedi e una fila di macchine parcheggiate: grigia, verde scuro, blu, nera, grigia, bianca. Stavo contando i colori delle macchine quando mia madre ha bussato piano alla porta. È educato bussare. È civile. In fondo potrei stare facendo di tutto, no? E se si aprisse di colpo… Una pedata alla porta, come i poliziotti dei film: non sarebbe educato, ma almeno sincero. Bah, non voglio dire questo. Di solito mi fa piacere che bussi alla porta. Ma oggi non mi è piaciuto. Suppongo che sia per tutto quello che ha detto dopo.
«Parliamo un po‟, Martina?»
«Stiamo parlando».
«Sedute».
Mi sono seduta sulla sedia. Le ho lasciato il letto, non volevo che si sedesse accanto a me. Perché? Non lo so, ma non volevo.
Lei si è seduta sul letto.
«Se adesso non hai voglia di parlare, dimmelo».
Va bene, non ne ho voglia. Avrei dovuto dirglielo. Ma il brutto dei genitori è che devi pure consolarli.
«Non ho passato le verifiche. Le passo quasi sempre, ma non parliamo mai in quei casi. Martina, sei stata promossa, sei ammessa alla classe superiore, ti diverte l‟idea? Poi troverai un lavoro orribile e passerai la vita a dire sì. Te ne rendi conto? Ne sei consapevole?
».
«Molto acuto. Ma adesso vorrei che mi spiegassi perché non le hai passate».
«Le verifiche mi sono andate male, capita a tutti, prima o poi».
«C‟è qualcosa che ti preoccupa?»
Non ho risposto.
«Forse preferisci parlarne con qualcun altro, non con noi. Ma se hai bisogno di aiuto, sai che siamo qui. E la storia del lavoro orribile è solo una scusa. Adesso il tuo dovere è essere promossa. Più avanti, potrai decidere cosa fare della tua vita. Per quanto potrai. Perché non tutto si può scegliere».
«D‟accordo».
Non dirlo, non dirlo, non dirlo. Ma