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Zetafobia 2 - La città morta
Zetafobia 2 - La città morta
Zetafobia 2 - La città morta
E-book429 pagine5 ore

Zetafobia 2 - La città morta

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Info su questo ebook

Fantascienza - romanzo (322 pagine) - Con gli zombie si può convivere, sono gli altri sopravvissuti il vero pericolo.


Sono trascorsi sei anni dalla pandemia di H5N1v2, la mutazione del virus dell’aviaria che ha dato il via all’apocalisse zombie.

Domenico, suo figlio e la moglie Lucrezia, scampati per il rotto della cuffia a orde di non-morti famelici, sono riusciti a sopravvivere fino a oggi.

L’isolamento della famiglia è bruscamente interrotto da un’automobile che si schianta contro una cabina elettrica. All’interno una giovane donna in travaglio sta dando alla luce suo figlio. Appena il bimbo è nato la madre taglia tre pezzi di cordone ombelicale e chiede a Domenico di consegnarli al distretto militare di Torino. Ottenuto ciò che voleva la donna estrae una pistola, uccide il neonato e si spara.

Chi era la donna? Perché quel pezzo di materiale organico è così importante? E soprattutto Domenico e la sua famiglia sono pronti a rischiare tutto per portare a termine una missione di cui non sanno nulla, addentrandosi nel pericoloso territorio della città morta, Torino?

Finalmente il seguito del romanzo bestseller Zetafobia, che ha rivelato il talento di Gualtiero Ferrari.


Gualtiero Ferrari nasce a Torino nel 1970. Sposato, con un figlio quattordicenne, cresce e vive in questa splendida città, salvo trasferirsi alcuni anni all’estero, per motivi di studio e di lavoro. Parla fluentemente l’inglese, il francese e quel minimo di tedesco necessario a ordinare del cibo caldo e una birra fresca. Di formazione economico-scientifica, più che umanistica, si è avvicinato alla lettura nel corso dell’adolescenza e si è rifugiato nella scrittura, ormai adulto, durante un difficile periodo personale. Attualmente lavora presso un’azienda di meccanica di precisione. Zetafobia, finalista al Premio Odissea, è stato il suo primo romanzo e ha riscosso un lusinghero successo.

LinguaItaliano
Data di uscita29 giu 2021
ISBN9788825417005
Zetafobia 2 - La città morta

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    Anteprima del libro

    Zetafobia 2 - La città morta - Gualtiero Ferrari

    Dedicato alla mia famiglia

    La storia fino a oggi

    Domenico, un chimico specializzato nello stampaggio dei metalli, vive insieme alla bella moglie Lucrezia, e al figlio Sebastiano, in un piccolo borgo sulle colline della provincia Torinese. Affetto da una leggera forma di psicosi, un disturbo allucinatorio che si presenta con le sembianze di un leprecauno, il folletto della tradizione Irlandese, si trova a dover fronteggiare un’epidemia d’influenza aviaria che teme possa progredire fino a livello di pandemia, con la conseguente fine della civiltà umana per come la conosciamo.

    Quando il virus evolve nella sua versione più letale, capace di tramutare in zombie chiunque sia deceduto a causa dell’infezione, il protagonista trova la salvezza proprio nella sua latente paranoia che, nel corso degli anni, lo ha spinto a compiere scelte di vita eccentriche, portandolo a trasformare la propria abitazione in una fortezza pressoché autosufficiente.

    I Governi, impreparati alla crisi, reagiscono tardi, permettendo al virus di dilagare a livello planetario. La società civile collassa, trascinando nel caos uno Stato dietro l’altro. Ignari di quanto accade nel resto del mondo, mantenendo i contatti solo con pochi amici e parenti, i membri della famiglia riescono a creare un angolo di normalità nell’Inferno che è ora la Terra. Col passare dei giorni le relazioni con l’esterno vengono meno, riducendo il loro universo alla gabbia dorata in cui si sono rifugiati.

    Un barlume di speranza arriva sotto forma di un convoglio corazzato. Questo, inviato in città per verificare lo stato del territorio e riprenderne il controllo, stabilisce la propria base operativa in una zona resa sicura da una precedente azione di sabotaggio. Il protagonista tuttavia, scopre che i ponti che avrebbero dovuto essere demoliti per isolare la base dalla massa degli zombie, sono in realtà integri, pertanto la missione di messa in sicurezza è fallita. L’esercito, all’oscuro di tutto, si è acquartierato in uno dei quartieri più popolosi della città, alla mercé dei non-morti.

    Attaccati da decine di migliaia di zombie, gli esigui sopravvissuti del contingente militare trovano riparo presso la villa. Qui, affrontano l’imminente bombardamento dell’area metropolitana, secondo quanto previsto dalle regole d’ingaggio ispirate al protocollo CONOP 8888, ora in uso presso le forze armate.

    Terminato l’attacco, i non-morti superstiti migrano altrove, in cerca di nuovi territori di caccia e prede vive. Per farlo utilizzano strade ampie e di grande scorrimento, quali statali e autostrade, che purtroppo passano a poche centinaia di metri dal rifugio. In una disperata corsa contro il tempo, Domenico e la sua famiglia, con l’aiuto dell’unico militare ancora in vita, cercano di deviare gli zombie costruendo una serie di posti di blocco chiamati SIERRA, ECHO e OSCAR, posizionati in modo da dirottare il flusso lontano da casa. Numerosi imprevisti, compreso il tragico tentativo di fuga d’un manipolo di persone di cui si ignorava l’esistenza, causano il fallimento del diversivo, rivelando agli zombie la posizione dei sopravvissuti.

    Circondati dai famelici non-morti, senza altre vie di scampo, la fortezza è persa quando i mostri danno l’assalto all’ingresso, riuscendo a entrare. Il protagonista si gioca il tutto per tutto con una manovra disperata, sperando sia risolutiva. Recuperate alcune cariche al plastico, Domenico fa esplodere una parte della casa e del giardino, ed è proprio grazie a questo espediente che, insieme alla moglie e al figlio, unici superstiti, riesce a salvarsi fuggendo nei boschi.

    Prologo

    Tutte le notti lo stesso incubo.

    Ogni volta che mi addormento, un mese dopo l’altro da oltre cinque anni, trascorro le ore che vanno dal tramonto all’alba in un eterno déjà-vu.

    Una montagna di sabbia dalle vaghe fattezze umane mi opprime il petto rubandomi il respiro, mentre con gli occhi chiusi ripercorro la fine della civiltà umana.

    Rivivo i giorni dell’incredulità e dello sgomento, quando i telegiornali sparavano notizie a raffica e le urla dei video amatoriali rimbombavano nelle orecchie, sovrastando le immagini che scorrevano sgranate sullo sfondo.

    Il ricordo delle vittime sbranate dagli zombie m’infiamma i sensi.

    Sudo.

    Tremo.

    Ho paura.

    L’inconscio vomita immagini raccapriccianti.

    Tante, troppe.

    Talmente numerose da non permettere alla parte razionale di elaborarle, e si sovrappongono.

    Il suicidio dei miei genitori si mescola al massacro dei militari, e la morte di Aurora si fonde col sacrificio di Alex, il fuciliere che non amava il suo cognome.

    Ansimo, mi manca il respiro.

    I muscoli si contraggono fino a imprigionarmi, impedendo qualsiasi movimento.

    Sono sveglio, o credo di esserlo, ma resto bloccato, disteso sul materasso lercio, inerme.

    Solo ora li vedo arrivare.

    Sono migliaia, decine di migliaia!

    È impossibile definirne l’ordine di grandezza.

    Rimango ipnotizzato dall’orrore, incapace di distogliere lo sguardo fino a quando lo sciame circonda la casa.

    Poco dopo sfondano il cancello. Si muovono lenti eppure in una manciata di secondi raggiungono la porta.

    Lucrezia e Sebastiano piangono e io non posso fare altro che unirmi a loro.

    Il legno cede.

    Ci sono addosso.

    Percepisco le mani che mi afferrano e rabbrividisco di fronte alle bocche spalancate.

    Il tanfo putrescente della morte s’insinua nelle narici riscuotendomi dal sonno.

    Sono lucido, però non riesco a muovermi.

    Incatenato dal terrore che m’inchioda a terra attendo il sorgere del sole, conscio che là fuori ci sono miliardi di zombie pronti a divorarmi.

    Dovrei aver paura. Anzi: vorrei avere paura, e invece non è così.

    Alla fine ci si abitua a tutto, o quasi; ma al fottuto incubo che mi tormenta ogni singola notte, proprio non riesco a farci il callo.

    È a causa sua se odio dormire.

    Beh… non odio solo quello.

    Lunedì 6 luglio 2015, ore 06:13

    Odiavo i turni di guardia.

    Spesso, anzi direi quasi sempre, non accadeva nulla e mi ritrovavo solo, al buio, a pensare.

    Nelle tenebre della solitudine la paura si rinvigoriva, cresceva, ramificava. Protendeva i suoi tentacoli in ogni remoto anfratto della mente, uccidendo la speranza che incrociava sul proprio cammino.

    Il terrore stritolava la lucidità spezzando la ragione; e là, dove non riusciva ad arrivare, gettava il seme dell’incertezza.

    Così mi sentivo: nudo e inerme, di fronte a qualcosa più grande di me.

    Erano quelli i momenti in cui i pensieri negativi che mi frullavano in testa prendevano il sopravvento, gli attimi in cui l’ansia mi si insinuava dentro, schiacciando il petto fino a togliermi il fiato.

    Talvolta, la sensazione di soffocamento era così forte che ne rimanevo paralizzato. In quegli istanti ogni fibra del mio corpo urlava, agonizzante e disperata, mentre il cervello lavorava senza sosta per disinnescare la bomba e rompere il meccanismo logico secondo cui, a dispetto di tutte le evidenze empiriche, ero portato a vedere solo il lato più oscuro delle cose.

    Era in quei momenti che la mia psicosi prendeva forma. Più forte della parte razionale, assumeva il controllo e per quanto ci provassi, nonostante i miei sforzi, faticavo a uscire da quella condizione.

    Non c’era logica che tenesse.

    L’intelletto rassicurava l’anima con riflessioni positive e ponderate, eppure il cuore e lo stomaco se ne sbattevano. Ignoravano i fatti e si lasciavano catturare dall’angoscia, cedendo al panico.

    Ne risultava una sensazione di malessere strisciante.

    Iniziava con un piccolo cedimento. Un mattone mentale che si spezzava; poi, nel breve volgere d’un ragionamento malato, l’intero palazzo della mia psiche crollava, minato alle fondamenta dalla paura e sotto il peso del terrore.

    Per rompere il loop, il dannato circolo vizioso che mi trascinava nella depressione più nera, dovevo spegnere il cervello; congelare i neuroni in uno stato di sospensione dal quale non riuscissero a fuggire.

    Il mio cervello, però, era un gran bastardo e di spegnersi non ne voleva sapere.

    Quando la resistenza era troppa, e mi accorgevo che a breve avrei perso la battaglia, partivo all’attacco inondando le sinapsi di complessi pensieri alternativi.

    Nel corso degli anni avevo perfezionato la tecnica, trovando un efficace sollievo nel gioco degli scacchi.

    Lasciavo che l’ansia procedesse col suo piano d’invasione, senza opporle resistenza, ma giusto un attimo prima di venirne del tutto soggiogato dedicavo una porzione di logica a immaginare una scacchiera vuota.

    La visualizzavo in ogni dettaglio, tanto che, oltre a poterla descrivere minuziosamente, riuscivo quasi a percepirne la consistenza fisica.

    Appena soddisfatto posizionavo i pezzi.

    A volte la disposizione era casuale, altre volte ricalcava lo schema di partite celebri che avevo studiato; più spesso era l’evoluzione di una partita mentale precedente.

    Cavallo in b6.

    Regina in g4, scacco.

    Le altre mosse a seguire.

    Creare una struttura così complessa e giocare una partita solo visualizzandola con l’immaginazione, richiedevano una concentrazione assoluta.

    Infatti, all’aumentare dei pezzi coinvolti, corrispondeva la diminuzione del numero di neuroni impegnati ad alimentare l’ansia.

    Di solito, nel breve volgere di un’ora, quest’ultima moriva di fame e io riuscivo a calmarmi.

    Era questo il motivo per cui sceglievo sempre il terzo turno di guardia, l’ultimo, quello dalle cinque alle otto del mattino; così, in caso d’emergenza, avrei potuto lasciar dormire Lucrezia e Sebastiano, guadagnando abbastanza tempo da riuscire a riprendere il controllo dei nervi.

    Le poche volte che avevano chiesto spiegazioni li avevo convinti che in quel modo potevano riposare più a lungo, e la soluzione andava bene a tutti: io avevo la mia privacy durante i gli attacchi di panico, mentre loro restavano a letto fino a tardi.

    Prima dell’apocalisse, prima di quell’ultima dannata notte in cui perdemmo per sempre la nostra casa, anch’io amavo crogiolarmi nel tepore delle lenzuola; ma, trascorsi sei anni in cui lo stesso incubo mi scavava nel cranio ogni singola notte, il sonno aveva perso ogni fascino, riducendosi a una pura funzione fisiologica e nulla più.

    Patrick, la proiezione mentale che nel mio immaginario assumeva le sembianze di un leprecauno, incarnando da decenni le mie paure più inconfessabili, riteneva si trattasse di stress post-traumatico. Trovavo divertente che il mostriciattolo vestito di verde, un’allucinazione da delirio paranoide, psicanalizzasse il cervello che l'aveva creato. Non che servisse un dottorato di ricerca per una diagnosi tanto banale, però, era un punto di partenza.

    In un mondo diverso avrei potuto lavorarci, magari frequentando qualche laboratorio di ceramica o seguendo un corso da solista di flauto peruviano. Mettendomici d’impegno, in un lustro o giù di lì, sarei riuscito a dormire una notte intera senza svegliarmi madido di sudore.

    In questo mondo avevo altri problemi in cima alla lista delle priorità. In particolare la necessità di vuotare la vescica balzò in testa alla classifica; quindi, attento a non svegliare mia moglie o mio figlio, calai la scala a pioli, la nostra linea di difesa terminale contro i non-morti, e m’avviai verso la fossa che usavamo come latrina.

    Abitavamo nel rudere d’un capanno a due piani senz’acqua corrente, riscaldamento o elettricità, intorno al quale avevamo disposto una serie di trappole e allarmi artigianali per evitare di essere colti alla sprovvista da qualche zombie intraprendente, o da qualche umano troppo curioso.

    Scavalcai il filo da pesca, pressoché invisibile, legato a diverse piante e arbusti tutto intorno al rifugio, decorato da lattine mezze piene di sassi. Un vecchio trucco che funzionava a meraviglia.

    Qualche decina di metri più avanti salii sul terrapieno, una sorta di muraglia che fungeva da protezione.

    Ci erano voluti mesi per realizzarlo, però era di gran lunga il sistema più efficace per bloccare qualche non-morto che si fosse spinto fino nel folto del bosco, arrampicandosi su per la riva della collina.

    In origine il piano era di scavare un fossato in stile medievale, profondo e largo a sufficienza da non potersi arrampicare fuori o essere attraversato da una falcata abbastanza lunga.

    Non mi ci volle molto a cambiare idea.

    Il terreno era troppo compatto e denso di pietre per permettermi di scendere come da progetto.

    Appena raggiunto circa un metro la pala non affondava più con facilità, e spesso non lo faceva affatto.

    Mi scervellai sulla questione per diverse settimane, senza venire a capo di nulla.

    Fu Lucrezia a suggerirmi come portare a termine l’opera.

    Più a valle, vicino a una casa in ristrutturazione, aveva visto parecchio materiale edile tra cui diverse cataste di assi da cantiere, quelle utilizzate per le gettate di cemento. Usandole avrei potuto costruire una palizzata ottenendo l’effetto desiderato: un muro alto un paio di metri, liscio e senza appigli.

    Colsi l’idea al volo e realizzai un canale lungo tutto il tracciato dell’area che volevo proteggere, profondo una cinquantina di centimetri e largo altrettanto. Per rendere la struttura più solida ammassai la terra smossa sul lato opposto alla trincea, compattandola contro le assi piantate mezzo metro nel terreno.

    Certo, quella recinzione un po’ raffazzonata non avrebbe fermato un’orda di zombie affamati, ma per qualche dozzina di non-morti sarebbe stata una barriera insuperabile.

    Scesi sul lato esterno del perimetro e raggiunsi la latrina: due sassi con una trave di legno appoggiata di traverso, circondata da un lenzuolo sdrucito per garantire un minimo d’intimità. Qui, ai piedi della roccia di destra, una scatola di plastica conteneva i giornali e volantini che usavamo come carta igienica.

    Era in questi momenti di privacy che riflettevo sulle comodità della vita pre-apocalisse di cui sentivo maggiormente la mancanza.

    Ero giunto alla conclusione che, oltre al fuoco, pochissime altre invenzioni nella storia umana erano altrettanto necessarie, e la carta igienica rientrava tra queste. Un paio di inverni senza la possibilità di una doccia calda, sprovvisti degli utili rotoli, avrebbero convinto chiunque della sua imprescindibile necessità.

    Portata a termine l’incombenza, presi la pala e gettai un paio di badilate di terra umida nel fosso maleodorante.

    Anche questa latrina aveva esaurito la sua vita utile. In settimana avremmo dovuto scavarne una nuova, qualche metro più in là. Prima, però, dovevamo ripristinare la scorta di giornali. Grazie al cielo se ne trovavano ancora moltissimi in giro. Nessun sopravvissuto razziava le edicole; e se lo faceva di certo non si caricava pesanti pile di carta stampata sulle spalle. L’unico tanto pazzo da farlo ero io, e secondo me ne valeva la pena.

    Sebastiano non avrebbe apprezzato dovermi aiutare nello scavo, né accompagnarmi a cercare la carta.

    Era irrequieto e scontroso, alla faccia degli ormoni impazziti, e come ogni adolescente intrattabile, le regole gli andavano strette, tuttavia sentivo che le sue preoccupazioni erano altre, più profonde.

    Avevo provato a parlargli dopo la terrificante esplosione di rabbia d’inizio anno. Purtroppo non c’era stato verso di farlo aprire; anzi, tutto il contrario. Si era chiuso come un’ostrica tagliando me e Lucrezia fuori dal suo mondo interiore.

    Desideravo aiutarlo, ma appena provavo a instaurare un rapporto che andasse oltre la semplice conversazione di cortesia, se ero fortunato, mi sentivo rispondere che ero troppo vecchio, che non capivo. Se gli animi si scaldavano, rischiavo l’insulto.

    Altre volte invece, quando lasciavo perdere e provavo a tagliare corto, lui reagiva balzando fuori dal suo guscio, cercando la rissa verbale solo per il gusto di farlo.

    Era un tira e molla sfibrante e continuo, cadenzato dagli sbalzi d’umore del ragazzo.

    Sapevo che il suo scopo era di affrancarsi dalla cappa di protezione familiare e quel modo di bullizzarci un sistema per darsi coraggio. Ciononostante, pur comprendendo la necessità che Sebastiano si ritagliasse i propri spazi, avrei preferito si rivolgesse a me o a sua madre per condividere ciò che lo turbava.

    Perché, che qualcosa lo turbasse, era fuor di dubbio.

    Però si teneva tutto dentro e questo non era un bene, né per lui, né per noi.

    Con questi pensieri che mi si affollavano in testa iniziai a guardarmi intorno, alla ricerca di un posto adatto allo scavo per la nuova latrina.

    Fu in quel momento che il terrore mi assalì alle spalle, sotto forma di un suono che non sentivo da anni, e che avrei preferito non sentire.

    Lunedì 6 luglio 2015, ore 07:01

    Quando raggiunsi il rifugio trovai solo mia moglie ad aspettarmi, Sebastiano non c’era.

    – Dov’è tuo figlio? – urlai a Lucrezia intuendo la risposta.

    Era sempre così: se il ragazzo faceva un’idiozia diventava il figlio dell’altro, quasi a voler prendere le distanze dalla cazzata incombente. Le volte in cui combinava qualcosa di buono, invece, tornava a essere il frutto della propria carne.

    La malcelata preoccupazione che s’intuiva sui lineamenti del viso era già una risposta sufficiente.

    – Ha sentito il clacson ed è corso via, verso il paese – confermò ammiccando nella direzione presa dal ragazzo.

    Merda, proprio ciò di cui avevo bisogno: un adolescente col complesso di Superman.

    – Vado a cercarlo. Tu resta qui, e se torna impediscigli di scappare un’altra volta – sbottai furente – se è necessario legalo, o sparagli in un piede.

    Era un eufemismo, ma solo fino a un certo punto; se il ragazzo non avesse imparato a controllarsi in fretta ci avrebbe uccisi tutti.

    Presi l’arco e la katana, dal coltello non mi separavo mai, neppure per andare in bagno, e corsi di sotto.

    Non servivano grandi doti da boy-scout per individuare l’origine del rumore, perciò mi affrettai a uscire dal bosco tagliando verso la Strada Provinciale 122, più o meno all’altezza della postazione SIERRA, quella che un tempo utilizzammo come avamposto per controllare gli spostamenti dello sciame di zombie in arrivo da Torino.

    Il suono del clacson era continuo, come se il pulsante si fosse bloccato, e l’eco che si creava nella valle rimbalzava da una costa all’altra amplificandone il volume.

    Chiunque fosse il responsabile di quel dannato casino era un pazzo, o un suicida. Forse, entrambe le cose.

    Il fischio avrebbe richiamato zombie a centinaia, trascinandoli fuori dagli anfratti nei quali erano rimasti a marcire per mesi.

    Corsi a perdifiato, dirigendomi diritto verso quella che aveva tutta l’aria di essere una trappola mortale, costeggiando la strada in parte invasa dalle piante e avendo in mente una sola cosa: mio figlio.

    Un chilometro dopo i polmoni bruciavano, mentre i muscoli, indolenziti dall’acido lattico che si era accumulato tra le fibre, faticavano a rispondere ai segnali che ricevevano dal cervello.

    Passato il ponticello sul torrente che tagliava il paese, rallentai il passo, cercando di riprendere fiato e domandandomi dove si poteva essere cacciato il ragazzo.

    Arrivato ai piedi di quella che tutti conoscevano come la strada della Rezza, alla base della collina che ci separava da Torino, mi diedi un’occhiata intorno.

    La provinciale procedeva dritta per un paio di chilometri, tagliando il fondo valle e attraversando i gruppi di villette costruite a bordo strada, annegata tra i boschi che le facevano da cornice. Proseguiva fino al semaforo, giù, in paese, dove incrociava la statale che invece di attraversare il colle gli girava intorno.

    Con la coda dell’occhio notai tre zombie barcollare in una via laterale, a poco più d’una cinquantina di metri da dove mi trovavo, diretti verso una stradina secondaria. Erano le avanguardie, i primi delle centinaia che sarebbero arrivati a breve.

    Passai oltre, attento a non attirare la loro attenzione.

    Fu il mio personale folletto irlandese a farmi notare l’incongruenza. Strisciò fuori dal buco del mesencefalo dove stava schiacciando un pisolino, e iniziò a sbracciarsi indicando a destra i non-morti, e a sinistra l’origine del suono che mi aveva spinto fin lì.

    Nonostante il suo aiuto mi occorse un attimo per capire che gli zombie non si stavano dirigendo verso il bersaglio più ovvio e rumoroso, perciò: dove diavolo stavano andando?

    Merda, Sebastiano!

    Tornai sui miei passi, m’infilai nella via in cui li avevo individuati e li attaccai alle spalle, senza esitare.

    Furono tre fendenti facili, tre teste e tre corpi crollarono al suolo.

    Mio figlio era una ventina di metri più avanti, concentrato sulla strada che aveva di fronte piuttosto che stare attento a coprirsi le spalle.

    Mi avvicinai di soppiatto e quando gli fui addosso sussurrai: – Devi imparare a essere meno impulsivo.

    – E tu devi imparare a essere più silenzioso – sghignazzò – ti si sente da chilometri, soffi come un mantice!

    Gli indicai i corpi decapitati con un rapido cenno del capo, come a voler sottolineare l’imprudenza.

    Scrollò le spalle e liquidò la questione con un mezzo sorriso.

    – Sapevo che stavi arrivando e che ti saresti occupato di loro. Alla peggio me ne sarei fatto carico io – dichiarò piatto.

    Lo guardai, indeciso se credere alla versione che mi voleva propinare, quella in cui aveva tutto sotto controllo, oppure convincermi d’avergli salvato la vita. Scelsi la seconda opzione, ma solo per non ferire il mio orgoglio paterno.

    – Okay, andiamo a vedere chi è il genio che sta chiamando a raccolta tutti gli zombie a portata d’orecchio – suggerii incamminandomi verso la Statale.

    Procedemmo affiancati, coprendoci a vicenda, controllando tutti gli angoli ciechi prima di avanzare. Ci lasciammo alle spalle la parte rurale del paese, quella più in alto, vicina ai boschi, attraversando la zona residenziale incastrata tra le vecchie cascine e il centro cittadino, che raggiungemmo qualche minuto più tardi, trovando riparo nella rampa del garage d’una villetta bifamiliare.

    Una macchina, un’utilitaria coreana, doveva essere arrivata dalla stessa strada che avevamo percorso a piedi poco prima, l’unica ancora transitabile. Il conducente, giunto all’incrocio, s’era accorto troppo tardi che la carreggiata non esisteva più e che al suo posto c’era un enorme voragine. Si trattava del cratere prodotto dall’esplosione che, circa sei anni prima, avevo usato come diversivo in un’ultima disperata difesa della nostra casa di allora.

    I segni scuri sull’asfalto indicavano il punto in cui era iniziata la frenata. Il rottame, accartocciato contro il muro in cemento della cabina elettrica che torreggiava sulla via, segnava la fine della corsa.

    All’interno, tra le lamiere contorte, s’intravvedeva una figura riversa sul volante.

    Il mistero del clacson era risolto; ora bisognava trovare una soluzione per far tacere quell’assordante latrato, e occorreva farlo in fretta.

    Avessi potuto mi sarei limitato a girare i tacchi, lasciando il malcapitato in balia delle conseguenze dei suoi errori.

    Purtroppo, non era praticabile. Il clacson avrebbe continuato a suonare facendo sciamare centinaia di zombie in quello scorcio d’asfalto a meno di due chilometri dal nostro rifugio. Troppo vicino e troppo pericoloso.

    La soluzione migliore sarebbe stata far saltare in aria la macchina, sperando di limitare i danni, contenendo l’afflusso di non-morti a qualche dozzina, al massimo una cinquantina o poco più.

    In un mondo perfetto sarei stato il fortunato possessore di un panetto d’esplosivo al plastico, con tanto di detonatore e radiocomando. Nello schifo di mondo in cui mi toccava cercare di sopravvivere avevo un equipaggiamento d’ispirazione medievale. Mi aspettava un lavoro di coltello.

    Perlustrai i dintorni e fui sollevato nel constatare che non si vedevano mostri barcollanti; tuttavia, tra gli infiniti posti dove poteva schiantare l’automobile il conducente aveva scelto il peggiore.

    La Provinciale 122 terminava contro la facciata d’un palazzo alto tre piani a ridosso della Statale della Val Cerrina, la 590, formando un incrocio a T. Davanti al caseggiato, circondata da una villa storica sulla sinistra e da un paio di condomini sul lato opposto, spiccava la voragine che aveva causato l’incidente. Più vicino al nostro punto di osservazione, appena oltre il cratere, c’era un secondo incrocio tra la strada principale e le vie che un tempo portavano alle scuole elementari e medie.

    Proprio lì, sul lato della primaria, la vettura semidistrutta sbuffava vapore dal cofano, ululando da sopra il marciapiede, del tutto allo scoperto.

    Tutt'intorno gli edifici, le stradine e i negozi si traducevano in decine di potenziali fonti di pericolo. Accessi dai quali potevano sbucare in ogni momento orde di zombie.

    Per nulla soddisfatto di ciò che avevo davanti agli occhi optai per un approccio diretto.

    – Facciamo così – spiegai a mio figlio continuando a controllare la zona – io corro fino alla macchina, sposto il corpo e tu mi copri da qui. Okay?

    Una cinquantina di metri, venticinque ad andare e altrettanti a tornare, e il problema era risolto.

    Veloce e pulito.

    – Il tizio alla guida – ipotizzò Sebastiano – forse è ancora vivo.

    Una giusta considerazione che decisi di ignorare.

    – Non credo – risposi sfoderando la katana – non si è mosso da quando siamo arrivati.

    Mio figlio mi squadrò, scettico, ma non disse nulla.

    Sospirai.

    – Se è vivo me lo porto dietro, okay? – sbottai tradendo l’eccesso di nervosismo.

    Ci fissammo negli occhi per qualche attimo, poi scattai.

    Le gambe si fecero subito legnose, ero stato troppo fiducioso sulle mie doti di velocista, malgrado ciò strinsi i denti e mi sforzai di proseguire.

    Giunto a un paio di metri dalla vettura rallentai fino a camminare.

    Mi guardai intorno e, grazie al cielo, ero ancora solo.

    Sapevo che la dose di fortuna si sarebbe esaurita fin troppo presto, però finché durava l’avrei sfruttata.

    Sbirciai all’interno dell’automobile, controllando i sedili posteriori e attraverso i vetri luridi vidi una grossa sacca rossa con una croce bianca e la scritta Medical Kit stampata appena sotto. Una doppia cerniera era cucita vicino alle maniglie, tenendola chiusa.

    Medicine! Era il mio giorno fortunato.

    Ignorai quel piccolo tesoro e mi concentrai sulla parte anteriore della macchina.

    Il posto del passeggero era libero. Sparse sul sedile vidi qualche bottiglia d’acqua, vuota, e carte di merendine preconfezionate, vuote pure loro. Un oggetto spiccava in mezzo alla confusione: una pistola in metallo brunito sul cui manico campeggiavano tre cerchi con altrettante frecce puntate verso l’alto. Il logo della Beretta era inconfondibile anche a chi, come me, non si intendeva di armi.

    Il lato del conducente era tutt’altra storia.

    Una giovane donna riversa sul volante schiacciava con la spalla sinistra il pulsante del clacson.

    Era immobile, in una posa innaturale che immaginai fosse dovuta alla lussazione dell’articolazione superiore.

    Non vedevo il viso, la testa era girata dalla parte opposta, scorgevo solo la nuca. I capelli castani, raccolti in una treccia bloccata in punta da un elastico rosso, scendevano fino alla base del collo dove s’intravvedeva un tatuaggio: due lettere C, una intrecciata all’altra. Un lavoro professionale, piuttosto ben fatto, simile ai tribali celtici che andavano di moda una decina di anni fa, e quel disegno l’avevo già visto, anche se non riuscivo a ricordare dove.

    Il vestito era ampio e leggero, di cotone stampato con fantasie a fiori.

    Non proprio elegante, anzi, tutt’altro.

    Bussai sul finestrino per attirare la sua attenzione, sempre ammesso che fosse ancora viva, senza ottenere risposta.

    Per puro scrupolo bussai una seconda volta, col medesimo risultato.

    Mi voltai verso Sebastiano e gli comunicai che la conducente era morta mimando il segno della croce.

    Il ragazzo capì al volo e annuì.

    Provai ad aprire la portiera ma, come mi aspettavo, la serratura era bloccata dall’interno.

    Potevo forzarla usando il coltello, però preferii un metodo più sbrigativo.

    Col pomolo della katana diedi un colpo al vetro temperato il quale esplose in mille sfere innocue.

    Ora dovevo solo spostarla, in modo da interrompere la sirena, poi sarei potuto tornare a casa da mia moglie.

    Un compito semplice, quasi banale. Eppure, esitavo.

    L’idea di toccare la ragazza non mi piaceva, tuttavia temporeggiare non serviva a nulla se non a peggiorare la situazione, che era di per sé già abbastanza complicata.

    Infilai il braccio nell’abitacolo attraverso il finestrino rotto, raccolsi il coraggio necessario e le diedi una spinta.

    Il corpo non si mosse, come se qualcosa le impedisse di scivolare sul lato.

    Riprovai mettendoci più energia, ma la situazione non cambiò di molto.

    Appoggiai la spada contro la portiera, per averla pronta in caso di necessità, e questa volta usai entrambe le mani.

    Niente da fare: la ragazza era incastrata.

    Non riuscivo a capire cosa potesse bloccarla in una posizione così infelice.

    Controllai i dintorni un’ultima volta, feci un cenno a mio figlio, quindi infilai la testa ed entrambe le braccia nell’abitacolo del rottame.

    Afferrai il vestito sulle cuciture delle spalline, il punto che ritenevo più resistente, in modo da poter tirare il corpo sfruttando tutta la mia massa.

    Contai fino a tre, poi diedi uno strattone deciso.

    Come immaginavo un sonoro scricchiolio d’ossa mi confermò che la spalla, già lussata, si era disarticolata del tutto, disincastrando il corpo e facendo cessare quel baccano infernale.

    Due le cose che non avevo previsto: né l’urlo che la ragazza cacciò appena riuscii a spostarla, né che fosse incinta.

    Lunedì 6 luglio 2015, ore 07:43

    La sua reazione mi colse del tutto alla sprovvista, tanto che scattai indietro sbattendo la testa contro il bordo superiore del finestrino della macchina.

    Il dolore mi fece trasalire. D’istinto mi toccai dove avevo subito il colpo e tra le dita sentii colare un liquido caldo e denso.

    Merda.

    Sperai che nella borsa sul sedile posteriore ci fosse del disinfettante; le nostre scorte erano ridotte ai minimi termini, e non volevo dover fare un giro tra le farmacie della zona a cercare tra gli avanzi delle precedenti razzie.

    Mi accucciai, appoggiando le spalle alla portiera posteriore, tamponando la ferita come meglio potevo, ma il grido della donna aveva sostituito il suono del clacson e faticavo a pensare.

    Guardai Sebastiano.

    Gli sorrisi per fargli capire che stavo bene.

    In risposta alzò quattro dita indicando

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