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Titano: fuga dal limbo
Titano: fuga dal limbo
Titano: fuga dal limbo
E-book407 pagine5 ore

Titano: fuga dal limbo

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Info su questo ebook

Fantascienza - romanzo (325 pagine) - Se viveste mille anni, lo spettro della vecchiaia sarebbe ancora più spaventoso. Ma è davvero obbligatorio invecchiare? Romanzo finalista al Premio Urania 2018.


Nel futuro sarà possibile rigenerare il corpo perennemente, mantenendolo giovane in eterno. Ma c'è poco da fare per il cervello: una sofisticata nanotecnologia riuscirà a rallentarne l'invecchiamento, ma alla fine, anche se dopo un tempo lunghissimo, non ci sarà più nulla da fare. Oltre un certo limite i vecchi diventano pericolosi, impazziscono, acquistano poteri strani e vanno espulsi dalla società, rinchiusi in una sorta di "ranch" su Titano. Qui i corpi vengono recuperati e i cervelli immersi in un liquido chiamato "melma".

Salvius Sorrenti ha un compito molto speciale – e terrificante. Entrare nella melma per riuscire a prendere contatto con uno dei cervelli che vi sono stati abbandonati. Un mondo dei morti  in cui miti ancestrali convivono e si mescolano con uomini e donne che continuano ad avere un’apparente esistenza simile a quella della realtà da cui lui proviene. Ma qualcosa non quadra: tutto sembra ruotare attorno a un misterioso segnale alieno captato secoli prima e di cui si è persa memoria.

Uno strepitoso romanzo, giunto in finale al Premio Urania, traboccante di idee e di azione.


Alfonso F. Dama è nato a New York il 7 maggio 1961. Tornato in Italia alla tenera età di quattro anni e mezzo è cresciuto e ha studiato a Boscoreale, sulle falde del Vesuvio. Comincia a scrivere già a sette anni; la passione per la scrittura loi segue e a quindici anni scrive sui quaderni di scuola il suo primo romanzo giallo dal titolo Il fantasma di Candemburg, un thriller gotico ambientato in un antico castello tedesco. Il suo secondo tentativo però, Delitto in ascensore, lo spedisce alla Mondadori e finisce fra i finalisti del premio “Alberto Tedeschi”.

Negli anni successivi scrive sceneggiature per fumetti: Internazionale Ediperiodici, Tirammolla, Topolino, L’intrepido, il Corriere dei piccoli.

Vince un premio, il “Dominium” per la letteratura internazionale non di genere, col romanzo Le folli notti del camionista poeta. Il romanzo breve Il canto delle lucciole diventa un “musical” trasmesso anche dalla RAI, con un discreto successo di pubblico e critica. Verso la fine degli anni ottanta pubblica un racconto sulla rivista horror americana Creepy. Nel 1994 scrive un romanzo ambientato completamente in una realtà virtuale, che verrà pubblicato nel 2012 col titolo Le realtà oscure dalle Edizioni della Vigna. Dello stesso anno è la raccolta di racconti horror Rantoli dal buio (Montecovello Editore). Al secondo tentativo assoluto con la Mondadori è tra i finalisti di un altro premio importante: l’Urania, nel 2018.

LinguaItaliano
Data di uscita8 dic 2020
ISBN9788825414066
Titano: fuga dal limbo

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    Anteprima del libro

    Titano - Alfonso Dama

    2018.

    E se c’è un cielo, è là, e mi dormirà accanto in modo che io possa dormire…

    David Lawrence

    La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda nel pozzo e ci vede il sole o la luna, ma se si butta dentro troverà la verità.

    Leonardo Sciascia

    Prologo

    La luce è fioca. Sembra che un sole pallido e insufficiente disegni righe rosse su un suolo scuro, frastagliato, che fa pensare a sabbia congelata.

    Ma non c’è alcun sole.

    Da più parti si ergono statue, giganti che guardano verso est rispetto alla luce, come se aspettassero qualcosa da un momento all’altro. Grezze figure, di pietra. Abbozzate. Hanno teste lunghe, aliene.

    C’è un contatto… un ponte tra l’Io e la realtà. È un pensiero interiore e non gli importa molto di dove si trovi, né del fatto puro e semplice di trovarvisi.

    Il pensiero scorre, sa di essere.

    Lui è.

    L’Io e il pensiero sono la medesima cosa, e forse dal di fuori essa è simile a quelle statue immonde che paiono attendere ciò che non avverrà mai in questo luogo immoto di forma vaga.

    Ma dentro se stessa questa cosa è viva.

    La sua essenza materiale è paragonabile a un guscio di tartaruga, o alla valva di una cozza, ma dall’interno si scorge l’essere palpitante; l’anima che pulsa e respira simile a un mollusco di spaventose dimensioni.

    I suoi pensieri potrebbero essere interi universi vomitati. Oppure atomi auto-generanti che producono quanti di energia psichica la quale si trasforma subito in interazione pura, secondo una formula creata da Qualcun Altro prima dell’Io.

    La stessa equazione che rende le statue immobili e la polvere svolazzante nella semioscurità.

    Gli universi possono prendere forma e separarsi dall’Io, come amebe scisse da una creatura unicellulare che ne genera in continuazione.

    Non hanno dimensioni. Essi sono dimensioni. Ogni microscopico spazio è infinito in sé, o è parte di un infinito superiore.

    Ora, con una messa a fuoco lenta ed esasperante, prendo coscienza dell’Io senziente.

    Vedo luci, odo voci indistinte, da oltre il Luogo in cui mi trovo, al di là di quelle statue senza barlumi di vita… (e se anche loro fossero come Me?)… apparenti gusci morti… (mentre dentro palpitano, respirano… creano*?)…

    Avverto la sensazione che non lo saprò mai. Devo solo immaginarlo, come l’Io che sta prendendo coscienza. Ancora e ancora….

    Quanti universi sto generando? I suoni e le voci diventano assordanti, le luci sempre più accecanti.

    Se sono una statua o qualcosa di diverso, adesso non conta.

    Adesso conta solo ciò che avverto e ciò che creo con un flusso inarrestabile, come un fiume tumultuoso che trascina detriti verso qualcosa che sta a valle, qualcosa che si avverte in modo flebile, ma che si avvicina inesorabile.

    Adesso è la luce a essere assordante e i suoni accecanti, in un’abnorme inversione dei sensi appena sbocciati.

    So che sto per entrare in un’altra coscienza.

    Diversa.

    Lontana… miliardi e miliardi di questi universi.

    1

    Salvius Sorrenti spalancò le palpebre svegliandosi di soprassalto.

    L’egeir dello psicocomputer gli stava friggendo il cervello, fregandosene delle sinapsi ancora pigre, con impietosi lampi rossastri aizzati dalla solita dannata musichetta. Bongo e flauto, flauto e bongo: un cimelio, sfuggito allo scarico, di una luna di miele scivolata ormai da un pezzo nel riciclatore dei rifiuti.

    Numero uno: calma.

    Perché formulare bestemmie oscene in mezzo a pensieri ancora confusi?

    Numero due: pazienza, anche.

    La fede (o qualche altra cosa sui generis) non era forse la virtù dei forti? Sì, e anche della stirpe italica fin dai tempi di quel tizio che aveva banchettato con carne d’elefante dopo aver preso a calci Annibale a pochi passi da Roma.

    Ok. Va bene, tutto a posto, fare l’esploratore biorganico in fondo si era rivelata la miglior cosa che potesse capitargli.

    Certo non i primi tempi, duri come il rigor mortis: stare costantemente all’erta, evitare i punti focali degli ultrasatelliti, usare mappe transformi costosissime e difficili da reperire. E procacciarsi lavori fra i più schifosi, talvolta poco rassicuranti, per crearsi una copertura.

    Adesso era cambiata, d’accordo, ora il suo vero lavoro era uscito dalla clandestinità grazie alla convenzione di Melbourne, per cui tutti i governi del SiSoUn lo avevano riconosciuto meritevole di encomio davanti agli altari del Progresso e dello Sviluppo. E grazie anche a tutte le divinità dell’Olimpo, del Valalla e del Caso Antropomorfo.

    Stentava ancora a crederci: era un professionista. Ben pagato. Bla bla bla e punto e a capo.

    E poi – come non ripeterselo? – vuoi mettere la possibilità di esplorare dimensioni sconosciute e nuovi abissi ignoti e sensi di cui nessuno avrebbe mai avuto coscienza, del tutto fuori dalla portata della maggioranza dei comuni veniali?

    (Vedere il mondo come un’ape regina, ad esempio, era impareggiabile…)

    Sì, il suo era un lavoro riservato a pochi eletti, gli unici sulla faccia della Terra e nei cubiti del Sistema Solare fino alla colonia di Proxima Centauri ad avere la possibilità di potersi iniettare, con le dovute precauzioni e forme legali, la famosa Mo-z senza il pericolo di passare un guaio con quegli psicolabili del Consiglio.

    Ma.

    Che ci fosse stato sempre un ma in tutta la storia dell’universo, dall’attimo primordiale del Big Bang a quando era andato a nanna la sera prima, lo aveva scoperto fin dagli anni teneri che, con l’aggiunta di quelli tosti, stavano per assestarsi ormai sulla scritta ‘centocinquanta’, bella cubitale e brillante come su un vecchio quadrante olografico.

    Il ma in questione riguardava il trovarsi, in ogni dannato microsecondo della sua vita attuale, alla mercé di una casta irritante e asfissiante come l’armatura di un antico cavaliere: quella dei chimici.

    (E alle rotture di scatole, specie quelle provenienti da Titano…)

    Il fatto era che lui non passava solo come uno dei pochi esploratori biorganici ufficializzati disponibili. Era anche uno dei più bravi. Se non addirittura il più bravo.

    (Ma)… in quei momenti così melodrammatici, (ma)… in quei risvegli di soprassalto da Esercito della Speranza durante un attacco di trafficanti krumiri del Madagascar, (ma)… in mezzo a quei lampi rossi danzanti al ritmo di quella musichetta del cazzo che non si decideva mai a sostituire nel suo psycon, (ma)… era quasi tentato di maledirlo il suo lavoro.

    Il quasi era d’obbligo e vinse sul ma ancora una volta.

    Salvius riuscì finalmente ad alzarsi mettendosi a sedere sulla branda ionica. L’immediato smettere dei lampi rossi e di quel dannato firulìfirulà-cicabumbù melenso, gli regalò un momento di soave concentrazione.

    Fissò lo sguardo ancora macchiato dai vapori del sonno sulla parete panoramica alla sua destra. La sagoma dello gnomone sul quadrante a polimeri fluidi indicava le cinque e mezza di un mattino che il pannello nord mostrava piovoso e grigio.

    Al di là del cristallo a visione monodirezionale, i ponti della Vecchia Venezia scintillavano silenziosi e indifferenti come sempre nell’incerta alba torbida.

    La virtuoide dello psicocomputer gli apparve davanti a figura intera dopo l’atteso attimo di sfarfallio, con l’aggiunta di qualche secondo di ritardo per potergli dare il tempo di riconnettersi con la realtà.

    Gli elargì il suo bel sorriso malizioso sul viso diafano.

    – Ciao, Salvius.

    Aveva programmato lui quella bellezza a essere confidenziale. Una gnocca senza espressione e senza arguzia non l’avrebbe sopportata. Non dopo un risveglio come quello, almeno. Qualche volta, in preda a solitudine e a sconforto (nonché a generose dosi d’alcol), ci aveva perfino fatto l’amore. E questo poteva aver accentuato la sua familiarità.

    – Salve Vinny. Che diavolo c’è?

    – Una chiamata dal Centro.

    Salvius si strofinò le palpebre con l’indice e il pollice, perplesso.

    – Come dal Centro? – chiese. – A quest’ora… Non da Titano?

    – Il protocollo di memoria è VV barra 72 zeta 14. Non ci sono dubbi, viene dal Centro. Hai circa un’ora per metterti in contatto diretto con Ramirez e con nessun altro dei Consiglieri. Ma intanto devi recarti a Melbourne negli uffici dell’area Comando Amministrativo.

    – Mostrami il fesso – fece lui saltando giù dalla branda ionica.

    – Il… fesso?

    Salvius allargò le labbra nel tentativo di sorridere, ma sapeva di aver solo dilatato di qualche millimetro il suo ghigno perenne. – Il caro me stesso mio – rispose languido.

    – Oh…

    Di fronte a lui prese forma la sua immagine speculare. I folti capelli neri, cortissimi, taglio militare, erano arruffati in cima al cranio come erbetta sfuggita a un giardiniere frettoloso.

    Vinny, essendo un virtuoide – il suo virtuoide – era l’unico essere al mondo ad avere facoltà di vederlo nel suo aspetto reale.

    Il ghigno perenne in questione faceva capolino su un volto asimmetrico. Questo a causa di un incidente occorsogli da ragazzo…

    …in vacanza con suo padre, una di quelle che sarebbero potute diventare davvero noiose, acciderboli! (acciderboli? Da quanto non esclamava più così…). Lui a seguire cartoon telepatici sulla spiaggia e il suo vecchio a correre dietro a indigene e turiste (senza distinguere fra donne umane e biocyb)!

    Un pomeriggio decise così di rompere la monotonia lanciandosi con un oloplain dalla cima di un palazzo nubilare. Scelse uno degli edifici che si stagliavano sotto il cielo a oriente, di quelli bianco latte che brillavano al sole come astronavi in ricognizione, ferme e occhieggianti nella loro antigravità. Si trattava di un hotel panoramico molto reclamizzato, emblema di tutto ciò che lui e il vecchio non potevano permettersi (né avrebbero forse mai potuto permettersi), e si librava a qualcosa come duecento metri d’altezza sopra un capolavoro picassiano di grovigli rocciosi tratteggianti un bel pezzo di costa dell’oceano indiano. Gli oloplain a quell’epoca erano proiezioni mentali a forma di delta, materializzate dallo psicocomputer generando forme molecolari basate su semplici disegni elaborati dalla mente e agivano sui flussi d’aria creando una portanza. Aveva deciso di farlo, allora per la prima volta, senza seguire nessun corso e senza alcun patentino, sfruttando le sue capacità piratesche di introdursi in qualsiasi sistema alla portata del suo psycon.

    E l’oloplain decise, dal canto suo e altrettanto liberamente, di sganciarsi dal suo cervellino d’idiota congenito, e questo pertanto smise di crearlo quattro milioni di volte al secondo.

    Il primo risultato fu un volo spaventoso. L’impatto venne attutito solo dalla ricomparsa improvvisa dell’aliante appena negli ultimi istanti. Bastò a non ucciderlo, ma non a evitare di farlo schiantare sulle rocce e capitombolare nel bel mezzo di un’onda anomala, che a lui sembrò un muro scagliato verso il suo grugno da un’esplosione.

    Risultato numero due: scheletro maciullato in più punti e il viso ridotto a una mistura dell’orrore.

    Il trasbordo con cellule staminali aveva risolto il problema, ma all’epoca non era possibile ancora impiantare quelle rigeneranti alla sua cute a causa di uno strano rigetto del suo DNA. Nonostante avesse ripetuto il trapianto più volte, anche in epoche recenti, l’asimmetria del suo viso non era stata mai del tutto cancellata. E questo era un mistero.

    Fatto sta che ora quando sorrideva ghignava e se sbatteva le palpebre ammiccava…

    Il più esperto dei biotecnici di sua conoscenza gli aveva detto che con ogni probabilità gli impianti staminali avevano interpretato la sua nuova morfologia come una deriva genetica e l’avevano travasata nei suoi geni.

    In parole povere, la sua fisionomia era stata modificata in modo indelebile.

    Ecco perché indossava da anni una delle più moderne e costose maschere al laser ancora in produzione, un artificio che modificava il suo volto plasmando i fotoni che rifletteva, deviandone intensità e frequenze, creando sfumature di colori.

    Il più perfetto make-up mai inventato, un successone per delinquenti, terroristi e buontemponi. Lui era forse l’unico rimasto a utilizzarlo per motivi di pura estetica.

    Sorrise e la sua immagine riprodotta in virtuale ghignò.

    Attivò la maschera subito dopo essersi passato il gel pulente sui denti e il nastro antibarba sulle guance. Il suo volto si raddrizzò di colpo; gli occhi, di un blu scuro molto intenso, divennero più vivaci e brillanti, la mascella destra raggiunse l’altezza dell’altra mentre gli zigomi acuti si sollevavano. La bocca si posizionò nella giusta angolazione rispetto al mento acuto, e le labbra divennero più rosee e meno carnose. Sorrise di nuovo.

    – Sei decisamente più carino ora, Salvius.

    Talvolta aveva l’impressione di aver reso Vinny un po’ troppo confidenziale.

    – Odio le parolacce lo sai – lo prevenne lei notando la sua espressione mentre apriva bocca per risponderle. – Non ti va di scherzare stamattina?

    – Sul mio aspetto da deficiente non scherzo mai.

    – Ti serve qualcosa? Informazioni o altro?

    – Ti contatterò in viaggio se occorre. Attiva gli antiflussi e fatti un giro in qualche luogo esotico. E non ricevere nessuno.

    – Quel tizio, l’informatore neurorete…

    – Nessuno, ho detto. Tanto meno un giornalista della malora. Chiaro?

    – Oh, sei adorabile quando usi questi termini così… arcaici! Come vuoi, Salvius. Fa’ un Bon Voyage.

    Lui distolse lo sguardo prima che gli strizzasse l’occhio.

    Sì, a volte quella ragazza virtuale esagerava.

    Prese da Maiorca il primo treno gravitazionale per Melbourne che partì puntuale alle sei e un quarto. A quell’ora il traffico degli aereoveivoli era fluido, quindi non aveva avuto difficoltà a raggiungere la piattaforma in orario partendo dallo scalo della periferia di Vecchia Venezia.

    Mentre il vagone cominciava a inabissarsi nel condotto del tunnel che forava la Terra come un buco di tarlo, si allacciò la cintura e buttò giù un sorso di pels gentilmente offerto dalla hostess. Fece apparire l’aria-screen del suo terminale psycon con una proiezione privata, in modo che potesse vederlo soltanto lui, permise la connessione in telepatico ed effettuò la chiamata in nanosecondi.

    Le rughe d’espressione del rettore del Centro apparvero fluttuanti nell’aria di fronte a lui, in primo piano, quasi subito. Il rettore aveva circa duecento anni, ma ne dimostrava almeno il doppio.

    – Cosa posso fare per te, Sorrenti? – pronunciò in quel suo bizzarro timbro da orco comico.

    – Veramente cerco Ramirez.

    – Problemi, Sorrenti?

    Perché intercalava il suo cognome a ogni cavolo di frase, quell’idiota, non era mai riuscito a spiegarselo.

    Come la vedi la giornata, Sorrenti? È umida, Sorrenti? Vai al cesso, Sorrenti?

    Sospirò. – Non ne ho idea. Ho ricevuto un contatto sul mio biochip che mi ha letteralmente fatto saltare dalla branda alle cinque e mezza. Intensità di allarme: zero punto nove. Roba che se fossimo ancora nell’evo secondo sarei morto d’infarto al miocardio.

    – Cosa può volere da te il Consigliere?

    – Non lo so, Rettore. È per questo che ho chiamato. Ma non è nel suo ufficio?

    – Oh, l’ho sostituito per qualche minuto. Credo sia allo spazioporto per controllare degli itinerari. Non ho ben capito.

    – Mi farà chiamare?

    – Certo. Ma se vuoi posso passarti Flabjinski.

    – No. Aspetterò.

    – Come desideri, Sorrenti.

    Era quasi riuscito ad appisolarsi cullato dall’effetto antigravitazionale del treno, quando la chiamata arrivò.

    Ramirez appariva stranamente imbronciato sotto la sua consueta abbronzatura. Girava voce che si fosse fatto progettare delle cellule cutanee con più melanina del normale.

    – Salve, Rami.

    – Ciao, Sal. Come va?

    – A parte il mezzo accidente che mi hai fatto prendere quando cantavano i galli, direi non male.

    – Da te cantano ancora i galli?

    – Quello che ho nei pantaloni alla grande.

    La rauca risata di risposta non arrivò. Ramirez doveva avere grattacapi per la testa grossi quanto la catena himalaiana.

    – Senti, esploratore. Gli psicocomputer hanno una memoria.

    Sorrenti strinse gli occhi e arricciò le labbra in quella che voleva essere una smorfia. – Non mi avrai costretto a un’alzataccia del diavolo solo per farmi una lezione di psicoelettronica, spero.

    – Una memoria che trasmette su ventiquattro canali liberi e che registra tutto. Preferisco spiegarti qui ogni cosa.

    – Mi sembri piuttosto turbato.

    – Turbato. Sì. Accettiamolo come eufemismo.

    Salvius ebbe l’impressione che l’amico avesse deglutito con difficoltà mentre parlava.

    – Se posso almeno sapere di che…

    – Conosci Moebius?

    – Carlos Moebius, quello che possiede mezza Asia insieme a svariati posti nello spazio. Non ne so altri.

    – Certo che lo conosci di fama. Io intendevo se hai mai interagito con lui in qualche occasione.

    Salvius si grattò il naso cambiando espressione. – Beh, è vero che da quando il mio lavoro si è evoluto in una professione riconosciuta a tutti gli effetti non me la passo male… Non esageriamo, però. Amicizie di quel tipo restano ancora ben lontane dalla mia portata – disse in un basso falsetto.

    Ramirez sbuffò con un moto d’impazienza. – Non ti ho chiesto se sei suo amico ma solo se hai mai interagito con lui.

    – Mai.

    – Beh, credo proprio che presto lo incontrerai di persona.

    – Eh?

    – Non scherzo, se è questo che stai pensando.

    – A occhio e croce non mi pare che tu stamattina abbia molta voglia di scherzare.

    L’altro produsse un sonoro respiro facendo una smorfia. – Ho la stessa voglia di scherzare che aveva Caligola quando capì che le sue guardie del corpo stavano per fargli la festa.

    – Santo Cielo, ma… – Salvius sgranò gli occhi – …cosa accidenti potrà mai volere da me uno degli uomini più ricchi e influenti del mondo?

    – L’unica cosa che posso dirti è che probabilmente, almeno dal punto di vista economico, questa potrebbe essere la tua cavolo di giornata, caro il mio ex clandestino.

    Ramirez mostrò i suoi denti bianchissimi in un genuino tentativo di sorridere. Ma non ci riuscì e decise di sparire.

    Il treno accelerò in prossimità del nucleo terrestre con un singulto.

    Vinny, attraverso lo psycon, gli spedì nel cervello qualcosa come duemila e passa informazioni, fra cui video tridimensionali e ricostruzioni in ambienti virtuali. Queste ultime le bypassò perché non aveva nessuna intenzione di immergersi in luoghi estranei mentre era chiuso nella sua cuccetta e il treno gravitazionale, ormai lanciato alla massima velocità, lo faceva sentire come un pallone monostatico a spasso sulla Luna.

    Carlos Moebius era un uomo di origini oscure che aveva accumulato ricchezza a valanghe nel campo dei tordi, le uniche macchine esistenti che ancora utilizzavano del carburante chimico. Col tempo era riuscito a ottenere delle concessioni di estrazione diretta del metano dagli immensi laghi di Titano, vantando così il primato di essere uno dei soli due privati al mondo a possedere degli impianti lassù.

    Era piccolo di statura, di aspetto cianotico, coi lineamenti tipici dell’estremo oriente compresi i piccoli occhi a mandorla: Carlos Moebius era infatti soltanto uno pseudonimo. In realtà per gli archivi anagrafici di database e psicocomputer era Han Lee Chan.

    Aveva costruito due polis orbitanti, vere e proprie megalopoli geostazionarie i cui governatori erano sul suo libro paga.

    Una delle informatrici tele-psichiche lo paragonava a una specie di Al Capone versione legalizzata dell’ottantanovesimo secolo o, più propriamente, a un Jea Mardeh, il grande magnate degli spettacoli aerofagi di Marte di quasi un millennio prima, solo un po’ meno giovane e decisamente meno donnaiolo.

    Non c’era molto altro di interessante. Per i più Moebius era un mistero. Una gioventù vissuta nell’anonimato, qualche laurea accademica non si sapeva bene in cosa, una storia d’amore sfuggita stranamente ai rotocalchi, una madre chiacchierona e vanitosa, di cui non si sapeva più nulla da un pezzo, e una sorellastra lesbica che faceva parte della Società delle Clonanti.

    Poca roba.

    Bella roba.

    Salvius si rilassò sulla poltroncina e socchiuse le palpebre dopo aver spento il terminale psycon. Il virtual-screen finiva sempre per fargli vibrare gli occhi se lo usava per più di una mezzora. Era una sorta di riflesso incondizionato.

    Che cosa diavolo poteva mai volere da lui un tipo del genere?

    I tordi. Macchine mastodontiche che ancora ingoiavano metano o scarti organici liquidi per funzionare. Ultimi membri di una generazione arcaica di sbuffanti strutture in acciaio ormai collocate in pozzi sotterranei o su corpi celesti lontani dalla Madre Terra. La sopravvivenza ai millenni la dovevano soltanto alla capacità di rendere duttile un pezzo di metallo amorfo. Semplice potenza bruta, ma senza la quale non era possibile forgiare pannelli capaci di avvicinarsi al sole a una distanza sufficiente per succhiarne una parte considerevole dei preziosi gigatoni che disperdeva nel vuoto. Erano le uniche presse che levigavano fino al giusto spessore i miliardi di pezzetti costituenti il combo, l’enorme e invisibile sfera di Dyson che circondava la nostra stellina gialla spedendo all’umanità e ai suoi ripetitori le megatonnellate di energia che l’alimentavano. Pezzetti che si bruciavano, si esaurivano in pochi decenni e andavano costantemente sostituiti. Così come le cellule staminali rigeneravano in un automatismo silente e continuo gli organi del fragile e prezioso corpo umano, navette luccicanti come ragni facevano lo stesso con la grande architettura di metallo trasparente intorno alla corona solare.

    Nessuna forma di energia che non venisse bruciata riusciva a generare i gigaelettronvolt condensati in poche frazioni di secondo, necessari ai tordi per lavorare una superficie di resistentissimo metallo Plyglass fino a renderla liscia e trasparente, senza imperfezioni che superassero il decimo di micron, e sottile quanto la membrana di un’ameba.

    Alimentare i tordi con le nitide, pulite, cariche fredde di nanotecnologie e microchip, sarebbe stato come pretendere di far sopravvivere un dinosauro col cibo necessario a una mosca. Inoltre, per la loro ingombrante struttura, i tordi non potevano stare in prossimità di ripetitori energetici: contenerli insieme avrebbe richiesto aree troppo grandi che moltiplicate per un numero sufficiente, sarebbero corrisposte a un intero continente! Ecco perché solo un carburante chimico era in grado di assicurarne in tempi lunghi il funzionamento.

    Una forza brutale e primitiva era dunque la loro, che però reggeva la fragile e sofisticata civiltà ultramoderna come l’acciarino aveva retto per centinaia di anni quella del legno e il fiammifero quella del carbone.

    Il metano di Titano costava meno di quello prodotto artificialmente altrove pur essendo di una qualità decisamente superiore. Quei pochi fortunati che vi avevano messo le mani erano divenuti potentissimi e influenti più di qualsiasi altra personalità della storia recente del Sistema Solare.

    Carlos Moebius era uno di questi. E prima della fine delle prossime ventiquattro ore l’avrebbe incontrato. Ne era quasi certo. Se Ramirez mostrava quella faccia, faceva sul serio. Lo conosceva più della sua mano sinistra. Quasi più del suo stesso viso deforme che solo i suoi occhi umani avevano il permesso di ammirare quando si alzava al mattino.

    2

    L’edificio nubilare, di colore grigio polvere, si librava a circa trecento metri dal suolo. La navetta vi attraccò dolcemente, verso i margini del fianco nord, e roteò su un lato donandogli la leggera vertigine a cui si era ormai abituato. Quando uscì dalla cabina, l’aria fredda come una bibita ghiacciata gli trasmise ancora una volta quel brivido intenso che gli si insinuava fin nei denti, al punto da fargli avere l’impressione che qualcuno glieli colpisse ogni volta con un vecchio diapason.

    Salì i pochi, lunghissimi gradini panoramici emergenti da nubi argentee, le quali lasciarono subito il posto a un sole aguzzo, giallo-bianco come platino grezzo. Il vento gli sballottava il colletto del giubbotto termico e quando entrò nell’atrio fu colpito da uno sbuffo quasi violento d’aria calda, che gli fece socchiudere gli occhi, e dal frastuono della frenetica attività che vi si svolgeva all’interno. Gli uffici si trovavano dislocati fra il piano base e quello immediatamente superiore.

    Lo smaterializzatore era fuori uso per manutenzione così usò il carrello delle scale che lo portò a destinazione emettendo il tipico ronzio da ape ballerina.

    Ramirez era seduto in una delle sue solite posizioni scomposte, dietro la scrivania, con le mani intrecciate sul ventre.

    Quando lo vide, lo invitò a sedersi sulla sedia di energia ionica dall’altra parte con un cenno del mento.

    – Come va? – gli chiese in tono distratto.

    – Dimmelo tu.

    – Da quando manchi da Titano?

    – Otto mesi, giorno più giorno meno – rispose Salvius mentre si sedeva.

    – Ci sono stati dei cambiamenti lassù.

    – Davvero?

    – Senti, Sal, non mi piace tirare il can per l’aia e lo sai benissimo. Solo che qui… insomma, la storia è un po’ complicata.

    – In che senso?

    – Per il momento saltiamo questa sbobba e ascolta. Tu sei stato parecchie volte in quella… quella melma.

    – Beh, dipende da cosa intendi per parecchie. Diciamo che ci sono stato qualche volta. Abbastanza da poter annuire in risposta a chi me lo chiede.

    – Allora qual è il tuo record?

    – Di che record vai blaterando?

    – Sì, insomma, qual è il tempo più lungo che hai realizzato lì dentro?

    – Scherzi? In quella specie di nottata da orchi gli orologi non servono. È un mondo… quantico, lo sai.

    – Ci sarà un modo, anche solo percettivo per fare un confronto, no? Ne sei uscito, quindi saprai quanto tempo era trascorso dal momento che c’eri entrato!

    – Quando entri nella melma è come se il tempo sparisse, capisci? Patapuff. Puoi uscirne dopo pochi secondi e ti sembra di esservi rimasto per ore. Magari per giorni interi. Voglio dire, il nostro tempo scorre in maniera del tutto diversa da come scorre quello lì dentro, qualsiasi cosa sia.

    Ramirez emise un profondo respiro. – Sal, cerca di comprendere, ma questa cosa è… molto importante per me. Molto.

    – Perché?

    – Perché ti sono amico e perché non voglio grane.

    – Se ti decidi a spifferare tutta la storia forse posso fare uno sforzo per venirti incontro. Altrimenti è inutile. Cosa ne posso sapere di quello ti sta facendo prudere la schiena? Sembri invaso da un clan di cavallette da come ti agiti sulla poltrona.

    – Hai ragione, ma credo sia opportuno che tu ascolti prima chi di dovere.

    – Moebius?

    L’altro annuì con lentezza.

    – Verrà qui?

    – In virtuale. Poi lo incontrerai di persona su una delle sue città orbitanti se tu accetti… l’incarico che intende affidarti. Credo si trovi a Moelland in questo periodo, ma non ne sono certo.

    – Bel posto. Ci sono stato qualche volta. Puttane vere, Ramy, vere! Altro che cyb e virtuoidi con la voce nasale. Che poi non ho mai capito perché faccia tanto impazzire orde di idioti la voce nasale…

    Ramirez si strinse nella spalle. – Forse perché il tono freddo e professionale eccita i pervertiti come te.

    Salvius alzò un sopracciglio: – Fammi capire: tu non sei in questa storia in veste ufficiale, giusto? Perciò accennavi alle grane – si sporse appena verso di lui attraverso la scrivania. – Non è così?

    Per la prima volta Ramirez parve in imbarazzo: – Ti offrirà un sacco di sbobba. Un sacco e una sporta, Sal.

    – Già. E l’ha offerta anche a te.

    – Non è questo il punto. Era l’unico modo per mettersi in contatto con te. Sei il migliore, ma la legge non prevede la contrattazione di privati con un esploratore, che in generale dovrebbe avere solo compiti governativi.

    L’esploratore si rilassò di nuovo sulla sedia e rise emettendo un borbottio asmatico. – Lo so che avete il monopolio su di me. – Scosse la testa. – Ti ha corrotto. Il grande, irreprensibile Ramirez!

    – Lo sto facendo per te.

    – Certo, come no.

    – Lui… lui ti offrirà la possibilità di fare qualcosa che nessuno ha mai fatto prima.

    – Capito. Ricco e famoso. Io entro nella Storia, tu ti assicuri una vecchiaia gradevolissima prima che ti estirpino il cervello, il che vuol dire fra qualche secolo, e tutti saremo felici e contenti.

    Ramirez sorrise senza abbandonare l’espressione d’imbarazzo e senza rispondere.

    – Dov’è l’inghippo? – incalzò l’altro.

    – Cercavo appunto di metterti al corrente di qualche dannato inghippo, maledizione!

    – Ma no. In effetti il primo che mi viene in mente riguarda il dopo.

    – Come il dopo?

    – Se è un’impresa storica, e se va bene, non potrà restare segreta. Eh, no. Ma tu metterai tutto a posto facendola risultare un’operazione governativa. Giusto? Ci saranno altri corrotti nel Consiglio, la qual cosa significa che il nostro magnate investirà una fortuna in questa storia e mi fa pensare anche che ci tenga proprio parecchio. Da non dormirci la notte, forse, sempre che trovi il tempo per farlo.

    – Più o meno. Del resto non c’è bisogno di altri… corrotti. Vedi, è una semplice questione burocratica. Non è la prima volta che dei privati finanziano ricerche governative.

    – Splendido. Quindi tu becchi tutto il malloppone, Ramy. Congratulazioni!

    – Adesso stai esagerando.

    – Ma anche no.

    Il sorriso disarmante di Salvius riuscì a sciogliere la tensione creatasi sul volto dell’amico.

    – Sei sempre il solito figlio di puttana – disse questi in un sospiro.

    – Lo so. È per questo che faccio l’esploratore.

    – No. È perché sei maledettamente in gamba.

    Ciò che colpì Salvius di Han Lee Chan, alias Carlos Moebius, fu la voce. Si era aspettato un tono freddo e distaccato, o anche solo quello robusto e perentorio di chi è abituato a comandare. Invece, quando parlava in regime confidenziale, era morbida e sottile. La definì mentalmente quasi sentimentale. Il suo sguardo appariva sornione ma aveva un che di malinconico, come di un antico cantore che rimpiangesse ogni secondo di non aver portato a termine il poema della sua vita.

    Vestiva in modo sobrio, senza fronzoli, eccetto un sottile foulard di seta sintetica rosa pallido, annodato al collo, che risaltava su una tuta giallo oro di tessuto indiano.

    Dopo i convenevoli, il magnate si rilassò sulla poltrona e accese uno shigar, uno degli ultimi ritrovati orientali. L’oppio che forniva era artificiale e del tutto innocuo.

    – Mi parli un po’ di lei, Sorrenti – disse. I suoi modi erano leggeri e gonfi di una certa studiata umiltà. Come se li avesse provati davanti a uno specchio.

    – Sono un ex delinquente, ribelle e clandestino. E lo sono stato fino a che i papaveri del SiSoUn non hanno deciso che persino un ceffo simile poteva risultare utile alla civiltà. O ai loro preziosi conti numerari. Faccia un po’ lei.

    Moebius

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