Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Apocalisse Anno 10: Viaggio nell'Italia degli zombie
Apocalisse Anno 10: Viaggio nell'Italia degli zombie
Apocalisse Anno 10: Viaggio nell'Italia degli zombie
E-book359 pagine5 ore

Apocalisse Anno 10: Viaggio nell'Italia degli zombie

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Come è mutata l’Italia dopo dieci anni dall’apocalisse originata dal risveglio dei morti? Esiste ancora una civiltà? In che tipo di società vivono i sopravvissuti al genocidio della razza umana? Per dare una risposta a queste domande una squadra operativa di legionari viene incaricata, dal neocostituito Impero Italico Libero, di attraversare la penisola invasa dagli zombie. Un assortito e stravagante commando di sette miliziani partirà dal distretto di Centocelle, sede romana del Governo Imperiale, per tentare di raggiungere uno sperduto distretto in Basilicata, dove pare si stiano conducendo, in gran segreto, terrificanti esperimenti sui risorti. Li accompagnerà una giovane giornalista allo scopo di documentare l’esito della pericolosa missione. Mille insidie attendono al varco i componenti del drappello, e non saranno solo gli zombie a intralciare il cammino. Bande di predoni, riottosi ad aderire alla dittatura militare imperiale, agenti dei servizi segreti deviati ed eserciti di guerrieri adolescenti, figli del nuovo mondo, incroceranno la strada dei protagonisti in un crescendo di azione e colpi di scena. Ma il cataclisma che si è abbattuto in Italia è riuscito a spazzare via i vizi, le ingiustizie e le miserie umane che la caratterizzavano prima dell’alba dei morti viventi?
LinguaItaliano
Data di uscita2 ago 2016
ISBN9788868511227
Apocalisse Anno 10: Viaggio nell'Italia degli zombie

Leggi altro di Nicola Furia

Correlato a Apocalisse Anno 10

Ebook correlati

Narrativa horror per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Apocalisse Anno 10

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Apocalisse Anno 10 - Nicola Furia

    Nicola Furia

    APOCALISSE ANNO 10

    Viaggio nell’Italia degli zombie

    Eclypse 57

    Isbn 978 88 68510 725

    Prima edizione agosto 2015

    www.arkadiaeditore.it

    info@arkadiaeditore.it

    Nota dell’editore numero 1

    Caro lettore, sappi che nel pubblicare questo libro sto consumando un delitto. Ne sono consapevole. Ed è il peggior delitto che un editore, sopravvissuto all’olocausto del genere umano, possa commettere. No, non è l’accusa di diffondere notizie false tese a minare la pacifica convivenza dei sopravvissuti, sbrigativamente formulata dal Governo dell’Impero, che lacera la mia coscienza. Io temo che questa pubblicazione possa uccidere l’unico sentimento che dopo dieci anni ci tiene ancora in vita: la speranza.

    Dieci anni.

    Un decennio è trascorso da quando i morti risorsero spinti da un’incontrollabile fame di vita e ci attaccarono, scatenando un’orgia di sangue che provocò il devastante genocidio della razza umana.

    Dieci lunghi anni vissuti, rintanati come topi, sommersi dalla melma di materia decomposta che affoga la terra.

    Centoventi mesi sono passati dal giorno in cui spoglie umane, inspiegabilmente rianimatesi, ci strapparono brutalmente il dominio incontrastato di questo pianeta.

    E ora eccoci qui, protetti da possenti mura, al riparo da orde di feroci predatori, esseri erranti sine requie, fatti a nostra immagine e somiglianza. Eccoci qui, in precaria sicurezza nella perenne attesa del morso fatale che lacererà le nostre carni inoculandoci il virus e, con lui, la maledizione dell’immortalità.

    Ma non vi dico nulla di nuovo: dato che state leggendo le mie parole, sapete già tutto. In molti siamo sopravvissuti all’annientamento globale e continuiamo, caparbiamente, a sfidare il castigo di Dio e le leggi della natura. Contro ogni aspettativa, qui, in Italia, esistiamo ancora. Chi l’avrebbe mai detto? Esistiamo, resistiamo e combattiamo per aumentare, ogni giorno che passa, i nostri ristretti confini riducendo il numero esorbitante dei nuovi padroni del mondo.

    Se poi avete letto il nostro libro precedente (Diario di guerra contro gli zombie) siete già al corrente di come, a un passo dal baratro, siamo riusciti a risollevarci, seppellendo la rassegnazione di soccombere, senza combattere, a questo destino infausto. Per i sopravvissuti che non hanno avuto la possibilità di leggere la cronaca di quei giorni terribili, dovrò riassumere brevemente quanto accadde e, nel farlo, sarò costretto a ricondurvi in una piccola provincia del Lazio, riesumando il ricordo di quell’uomo controverso che, a detta di molti, eresse le fondamenta della nostra sopravvivenza.

    Sì, sto parlando di Nicola Furia, Colonnello dei Carabinieri, comandante del Reparto Operativo di Rieti.

    Quando la pandemia dilagò, il Colonnello Furia, resosi immediatamente conto della portata devastante dell’evento, reagì in maniera imprevedibile, sferrando un impetuoso attacco alla morte che cammina. Per farlo dovette trasformarsi, disumanizzarsi, divenendo così una fredda e cinica macchina da guerra. Per conseguire il suo obiettivo non si fece remora di compiere atti di estrema atrocità. Per prima cosa impedì ai cittadini imploranti di essere accolti in caserma, ordinando di sparare a bruciapelo contro coloro che, in preda alla cieca disperazione, tentavano di forzare i cancelli. Poi instaurò la legge marziale e fece fucilare indistintamente militari e civili che violarono i suoi ferrei regolamenti. Quando bande di predoni iniziarono a imperversare nel territorio, fece ricorso alla tortura, costringendoli a rivelare l’ubicazione dei loro covi per poi debellarli senza pietà. Come un Dio della guerra, Furia si arrogò il diritto di decidere della vita e della morte delle persone. Certo, i suoi metodi ancora oggi fanno discutere, molti lo ritengono un folle sanguinario, un fascista amorale, un pericoloso visionario. Beh, comunque la pensiate, è innegabile che la tattica e la strategia bellica del Colonnello ebbero successo. Furia procedette alla decimazione sistematica degli zombie, bonificò blocchi di edifici e li usò come basi operative. Solo a quel punto diede avvio alle operazioni di salvataggio, riuscendo così a mettere al sicuro circa un quarto della popolazione cittadina. Ma la vera arma vincente dell’ufficiale si rivelò essere la progettazione e costruzione di un’invalicabile muraglia, al riparo della quale una piccola comunità prese vita: l’Oasi di Rieti, la prima Oasi Italiana.

    No, non era certo l’unico l’obiettivo di Furia, quello era solo l’inizio del suo progetto e non certo l’epilogo. Il Colonnello voleva proseguire la sua guerra, espandere i confini delle aree liberate, metro per metro, fino ad annientare ogni morto deambulante che occupasse abusivamente la sua patria. Ma così non fu. Proprio in quel momento per lui iniziarono i guai.

    I sopravvissuti, infatti, sentendosi oramai al sicuro, furono abbindolati da un ex politico corrotto, il Senatore Lusitani che, per conquistare il potere, li aizzò alla ribellione costringendo il Colonnello ad abdicare. Furia, attanagliato già da tempo dal peso opprimente dei rimorsi, impazzì e abbandonò la comunità. Ma è quel che accade subito dopo che fu straordinariamente e incredibilmente terrificante. Egli si consegnò deliberatamente ai morti viventi, permise loro di violare il proprio corpo con morsi laceranti, trasformandosi così in uno zombie. Ma non finì lì. Inspiegabilmente i morti viventi lo seguirono, divenendo il suo nuovo esercito. E con quell’armata infernale assaltò la comunità da lui stesso creata con l’intento di metterla a ferro e fuoco.

    Perché lo fece? Come mai gli zombie si fecero guidare all’attacco? Ancora oggi nessuno sa dare risposta a queste domande.

    Fortunatamente, grazie alla strenua resistenza di alcuni cittadini dell’Oasi, l’invasione fu contenuta, sebbene a stento. Durante la battaglia, Furia, oramai zombie, fu ucciso, non prima però di aver sventrato selvaggiamente il politico responsabile della rivolta.

    Questa è la storia del Colonnello Furia.

    Vi starete chiedendo per quale motivo tale vicenda, per quanto allucinante sia, abbia condizionato il futuro della nostra nazione. È presto detto. I Diari di Guerra del Colonnello, trascritti in un blog, contenenti notizie fondamentali sull’analisi del nemico e sulle tattiche necessarie per contrastarlo, viaggiarono nell’etere (in quel primo anno i satelliti erano ancora operativi), spronando così i sopravvissuti di tutta la nazione a combattere una spietata guerra. La sua strategia bellica divenne un esempio. Gli uomini e le donne che fino ad allora erano solo dei fuggitivi impauriti compresero che era possibile contrastare l’epidemia e resistere ai morti viventi. Nel corso dei mesi la dottrina del Colonnello si diffuse da un capo all’altro dello stivale e fu recepita da coloro che, grazie alla selezione naturale, assunsero il ruolo di leader.

    In breve in tutta Italia porzioni di territorio vennero bonificate erigendo impenetrabili mura. Tra le macerie di una nazione sconvolta sorsero Oasi un po’ ovunque e divennero sempre più grandi e funzionali. Negli anni le Oasi confinanti si unirono, costituendo così i Distretti. Gli eserciti si allearono e divennero potenti e numerosi, assumendo la denominazione di Legioni. Sorse l’Impero Italico Libero, con una propria capitale, nel Distretto romano di Centocelle, lo stesso da cui sto scrivendo queste pagine di storia.

    Come gli antichi romani, le Legioni iniziarono anche a espandersi in Europa. Solcarono i mari e valicarono le montagne, tentando di dare così avvio alla rinascita del genere umano in tutto il globo.

    Ma nelle terre germaniche, dopo l’ingresso delle Legioni dell’Impero Italico, giunte per bonificare le aree invase dai morti viventi, si formò un potente esercito locale che prese il nome di Falange Alemanna. Il Generale Schwarz, al comando della Falange, vantando una presunta supremazia della razza tedesca sul mondo intero, intimò alle Legioni di abbandonare i territori liberati. Nei pressi di München si registrò il primo sanguinoso scontro armato tra gli eserciti dell’Impero e la Falange.

    Immemori del loro destino, gli uomini, scampati alla furia degli zombie, ricominciarono a combattersi tra loro.

    Quando iniziai la stesura di questo nuovo libro, l’insensata e folle guerra in Germania ancora infuriava. Ma da allora molte cose sono accadute e non è stato semplice documentarle tutte con dovizia di particolari. Altrettanto difficile sarà raccontarvele.

    Vi narrerò una storia complessa e ricca di colpi di scena. Non vi nego che io stesso ero indeciso, chiedendomi più e più volte se fosse opportuno dare alle stampe (clandestine) questo libro. Ma oramai è fatta.

    Nell’accingerci a pubblicare questa nuova cronaca dell’apocalisse ci porremo le seguenti domande: Chi siamo?; Cosa siamo diventati dopo dieci anni dalla catastrofe? E, soprattutto, Dove stiamo andando?. Sì, sono le stesse domande che ci angustiavano prima della fine del mondo, e alle quali non sapevamo dare una risposta.

    Ma noi una opinione, per quanto sconvolgente potrà apparire, la forniremo.

    Si dice che tutti gli scrittori, nella loro vita, per quanti libri riescano a pubblicare, alla fine raccontano sempre le stesse due storie: l’Iliade e l’Odissea. Ebbene, se nella nostra prima pubblicazione abbiamo raccontato l’Iliade, la cronaca della guerra contro gli zombie, in questo nostro secondo libro racconteremo l’Odissea, il viaggio della speranza.

    Un lungo viaggio nell’Italia invasa dai morti, dove i vivi sopravvivono con difficoltà e coraggio, illuminati dalla debole speranza di rinascita.

    Durante questo viaggio seguiremo i resoconti di una nostra giovane giornalista, Silvia Ferri. Sarà lei che ci condurrà per mano nel nuovo mondo fornendo le risposte ai quesiti. Con lei non solo scopriremo qual è il nostro presente ma, soprattutto, scorgeremo quale sarà il futuro che ci attende tra le rovine di un mondo così diverso ma incredibilmente così uguale.

    Un consiglio: viaggiate leggeri. Là fuori sarete costretti a correre. Portate con voi un’arma, se avete la fortuna di averla, un oggetto contundente, meglio se acuminato, e dell’acqua potabile. Ma, soprattutto, portate con voi la speranza. Tutta la speranza di cui disponete, tutta quella che riuscite a racimolare; vi servirà fino all’ultima goccia, e non dimenticate di risparmiarvene un sorso per la fine… così come si fa con l’ultimo proiettile.

    Buon viaggio!

    Appunto di viaggio numero 1

    Il nemico alle porte

    È da poco sorto il sole quando, in una mattina autunnale dell’anno 10 dopo l’Apocalisse, incontro, sulle mura del Distretto di Centocelle, il Tenente Daliberti.

    Mi ha sicuramente vista, ma continua ad ignorarmi guardando, con fare assorto, la Capitale devastata dalla catastrofe.

    Gli arrivo lentamente alle spalle, imbarazzata, ma nel contempo incuriosita dal suo atteggiamento. Lui continua a fissare l’orizzonte, in silenzio, come se volesse oltrepassare con lo sguardo il confine che delimitando la visibilità impedisce di poter scorgere le ulteriori vestigia della Roma che fu. Non c’è più traccia della grande signora dalla dolce vita e dalla grande bellezza. La capitale si imponeva superba e sorniona prima che il caos, vestito da morto vivente, spazzasse via ogni ricordo di quella che chiamavamo, a torto o a ragione, civiltà.

    Ho come il timore di infrangere, con il mio saluto, quel sottile filo che, in questo momento, nella mente dell’ufficiale, pare stia legando ricordi, emozioni, rimpianti e, forse, anche rimorsi.

    «Vengo qui ogni mattina. Da due anni. Sin da quando arrivai a Roma, dopo che fu riconquistata», esordisce Daliberti continuando a guardare lontano. «E sa perché?», continua a dire, finalmente girandosi e osservandomi fugacemente negli occhi. «Per non dimenticare. Per non illudermi. Per non perdere la voglia di combattere.»

    Accenno un sorriso cortese, cercando inutilmente il suo sguardo che vagabonda nuovamente tra le rovine della Tiburtina, tra le auto arrugginite e abbandonate sulla Circonvallazione, assediate da cadaveri ambulanti che marciano senza sosta e senza meta.

    «Piacere, Tenente, sono Silvia Ferri», dico allungandogli perplessa la mano. Lui, con fare galante, me la stringe delicatamente, donandomi un altro veloce sguardo e un triste sorriso forzato.

    È un uomo sulla cinquantina, dal fisico robusto e, malgrado lo stomaco leggermente pronunciato, ancora prestante. I capelli lunghi e brizzolati, pettinati disordinatamente all’indietro, gli scoprono la fronte ampia, solcata da profonde rughe, e si adagiano morbidamente sul colletto dell’impeccabile uniforme da combattimento blu, fino a toccare i luccicanti alamari da Carabiniere. La barba lunga, oramai tendente al bianco, gli occhi grandi e neri, il colore olivastro della sua carnagione, mi fanno venire in mente Sandokan, il principe malese ribelle di cui mio padre, nell’altra vita, mi narrava entusiasta le gesta. Quello che vedo di fronte a me, però, è un Sandokan invecchiato, uno di quelli descritti nei romanzi apocrifi e non il pirata che sprizzava energia e impetuosità nei libri di Salgari. Ma, seppur leggermente imbolsito, questo personaggio è ancora capace di emettere quell’aurea lucente fatta di onore, coraggio e orgoglio.

    «Tenente, sa perché sono qui?», chiedo stupidamente, immaginando benissimo che un uomo del genere non si lasci facilmente prendere alla sprovvista.

    Lui sembra ignorare la mia domanda e prosegue nel suo soliloquio: «Salgo sulle mura del Distretto ogni mattina e guardo la morte che cammina sulle strade del mondo. Devo ricordarmi che c’è, che è sempre là. Non è sconfitta e ci attende ogni giorno, ogni ora, ogni minuto… pazientemente. La maggior parte degli abitanti di Centocelle scelgono di ignorare fingendo di vivere normalmente, come se nulla fosse successo. Ma lei sa benissimo che quest’atteggiamento è ancora più pericoloso dell’attraversare le strade ancora invase dagli zombie… vero?»

    «Perché ritiene che io lo sappia benissimo, Tenente?», gli chiedo, sorpresa dalla sua affermazione perentoria.

    «Perché è l’autrice del libro Diario di guerra contro gli zombie», afferma con atteggiamento sornione.

    Ha ragione. La sua rivelazione mi conferma la prima impressione che ho avuto di lui: è un uomo che non si lascia sorprendere, ma a cui piace meravigliare l’interlocutore. Probabilmente è una sua deformazione professionale, maturata nel corso dei mille interrogatori che ha condotto prima e dopo l’apocalisse.

    «Lei ha letto quel libro?», faccio, pentendomi subito dopo. Altra domanda insensata! Avendomelo citato era scontato che l’avesse letto. Devo essere più accorta, quest’uomo ha la capacità di spiazzarmi.

    «E anche questo nuovo libro lo firmerete con lo pseudonimo di Nicola Furia?», mi chiede, rispondendo implicitamente a tutti i miei quesiti balordi.

    «Penso di sì», rispondo abbassando lo sguardo, «lo faremo per omaggiare e ricordare quell’uomo che lei ha conosciuto personalmente.»

    «Il Colonnello Furia», sussurra tra i denti, riperdendosi con lo sguardo nell’orizzonte dei ricordi. «Un pazzo scatenato», aggiunge mentre un sorriso tenta di farsi strada sul suo volto.

    «Pochi hanno letto quel libro», dico. «Di certo l’editoria non è una delle esigenze primarie in questo mondo che tenta di sopravvivere. Noi, però, riteniamo che sia necessario registrare gli avvenimenti, documentare la storia di quanto è accaduto e sta avvenendo. La prima vittima della guerra è la verità», proseguo infervorata.

    «La storia la scrivono i vincitori, dottoressa Ferri. E se i vincitori risulteranno loro, non saranno in grado di scrivere neanche una riga», fa Daliberti indicando un gruppo di zombie che, con la testa reclinata sul collo e lo sguardo allucinato, ci sta fissando con ferocia da sotto le mura. «Lo vede?», prosegue Daliberti  non distogliendo gli occhi dagli zombie, come se volesse sfidarli. «Pur avendoci visti non emettono alcun lamento. E ha notato che nessuno di loro tenta più di arrampicarsi sulle mura? Pare che finalmente, dopo dieci anni, abbiano capito l’inutilità di tali sforzi. Io sono convinto che si tratti di una forma di evoluzione, lenta ma continua, e non ho idea dove li condurrà… e dove trascinerà anche noi.»

    «Non è necessario che mi chiami dottoressa, Tenente. Può chiamarmi con il mio nome: Silvia», affermo evitando di soffermarmi su quei mostri. «Come lei evidentemente già sa, ho ottenuto il permesso di seguire la sua squadra nella missione assegnatale, allo scopo di documentare quanto accade fuori di qui», comunico con tono professionale all’anziano Tenente.

    «A lei piace questa società, dottoressa? Intendo la società che è sorta dopo l’apocalisse?», domanda lui, ignorando del tutto la mia richiesta di non usare il titolo di dottoressa.

    «Ero troppo giovane quando il mondo finì. Avevo vent’anni e come tutti i miei coetanei ero disillusa, rassegnata e disinformata, per cui quel poco che ho conosciuto della società pre-apocalittica non lo ricordo con nostalgia.»

    «Era uno schifo!», dichiara con decisione accendendosi una sigaretta. «Venga, mi accompagni in mensa. Andiamo a fare colazione, voglio mostrarle una cosa», dice incamminandosi velocemente.

    Scendendo le scale dalla sommità delle mura arriviamo alla vecchia fermata della Metropolitana di Re di Roma. La Land Rover Defender blu con la scritta Carabinieri, stinta dall’usura del tempo, ci attende.

    «Lasci il suo motorino e salga a bordo con me, la riaccompagnerò. È inutile utilizzare la catena, oramai non ruba più nessuno», fa aprendomi lo sportello.

    «Grazie… lei è proprio il classico ufficiale gentiluomo», commento ironicamente, cercando di creare un approccio informale e ricordando il titolo di un film che avevo adorato da bambina.

    «A essere precisi sono un ufficiale per modo di dire», puntualizza lui. «Io provengo dalla scuola dei Marescialli. Non sono certo un ufficiale d’allevamento, con il fiocchetto sul grembiule, come quelli d’Accademia. Io sono di razza ruspante e ne vado orgoglioso.»

    Il mio tentativo è andato a vuoto e a quel punto preferisco stare zitta. Imbocchiamo la via Casilina dirigendoci verso l’ex Ospedale Generale Madre Giuseppina Vannini, dove è stato allestito, da circa un anno, il refettorio. Durante il viaggio lancio un ultimo sguardo alle mura ciclopiche che circondano l’ampio Distretto di Centocelle: un’area vasta al centro della quale c’è l’ex Parco, oggi adibito alle coltivazioni di frutta e ortaggi. Un’ampia porzione di territorio romano, liberato dalla piaga della resurrezione, che confina a nord con Porta Maggiore, a est con la Nomentana, a ovest con la Cristoforo Colombo e a sud con l’area abitata che si estende dopo il quartiere di Tor Bella Monaca.

    A Tor Bella Monaca sorse, dieci anni fa, uno dei primi avamposti di Roma. L’istinto di sopravvivenza e la forza della disperazione spinse i sopravvissuti a reagire contrattaccando con tenacia l’esercito dei morti viventi, prima che il caos s’impadronisse del mondo. Non era certo un quartiere di vip e distinti signori. In quelle palazzine popolari alloggiavano famiglie di indigenti, disagiati, ladri, rapinatori, spacciatori e prostitute, immigrati abituati da sempre alla sopravvivenza e all’assunzione di decisioni immediate e drastiche. Non ebbero scrupolo a fracassare la testa degli infettati, sapevano come isolare il quartiere, quali strade sbarrare. Erano le stesse vie che tenevano quotidianamente sotto controllo per segnalare l’arrivo delle forze dell’ordine quando qualche pattuglia, sporadicamente, silenziando l’opinione pubblica, tentava una sortita all’interno dell’area malfamata per eseguire qualche arresto facile. Furono tra i primi a erigere delle barricate che poi si trasformarono in vere e proprie mura che sigillarono all’interno i sopravvissuti.

    Nel percorrere la Casilina attraversiamo diversi varchi praticati sulle pareti di pietra e mattoni che prima sbarravano il passaggio. Questi archi sono i moderni monumenti che testimoniano la graduale espansione del territorio avvenuta nel corso degli anni.

    Imbocchiamo via dell’Acqua Bullicante e giungiamo dinanzi all’imponente casermone di otto piani che una volta era l’Ospedale Vannini. Siamo costretti a parcheggiare il fuoristrada a una cinquantina di metri oltre l’ingresso, poiché il piazzale antistante l’edificio è occupato da camion e gru. Un’indaffarata squadra di operai sta issando sui tetti i pannelli solari. Finalmente il generatore di corrente, che finora ha alimentato la struttura, andrà in pensione. Questo è un altro segno dei progressi che, giorno dopo giorno, stanno migliorando le nostre condizioni di vita.

    Scendiamo nel seminterrato e da lì ci dirigiamo nell’ampio refettorio. Ci accoglie, con un sorriso affabile, suor Benedetta. È l’unica delle Figlie di San Camillo, che una volta gestivano la struttura eretta per dare assistenza agli anziani, a essere scampata alla pandemia.

    «Lei sta con me, sorella», afferma Daliberti. La suora ci fa firmare il registro consentendoci l’ingresso alla mensa.

    Nell’a sala c’è un proliferare variopinto di uniformi di diversa foggia e colore. Questa è l’ora prestabilita per la colazione dei militari. Prima di loro la mensa è stata occupata dagli operai e, ancora prima, all’alba, dai coltivatori e dagli allevatori di animali. Tute anti-sommossa blu di Carabinieri e Polizia si mescolano a quelle mimetiche dei militari dell’Esercito, a quelle grigie della Finanza e della Forestale e a quelle, assortite nella maniera più stravagante, dei volontari dell’esercito.

    «Ciao Marco, come butta?», chiede amichevolmente Daliberti a un uomo sulla trentina addetto alla distribuzione del rancio.

    «Buongiorno Cavaliere!», risponde lui mostrando un ampio sorriso sincero. «Oggi, come vede, abbiamo delle belle ciambelle appena fritte, il nuovo cuoco è molto bravo», continua il vivandiere depositando una ciambella, dopo averla ossequiosamente scelta tra le più voluminose e dorate, nel vassoio del Tenente.

    «Come mai la chiamano Cavaliere? Se ricordo bene quello è il titolo con il quale vengono chiamati i Marescialli anziani», domando mentre ci spostiamo verso un tavolo leggermente distanziato dagli altri.

    «Non lo so, ma non mi dà fastidio… anzi, mi piace!», risponde lui invitandomi a sedere di fronte e attendendo, cavallerescamente, che io mi accomodi prima di sedersi. È proprio quel gesto che mi fa capire il motivo di quel soprannome. Daliberti, seppure all’apparenza burbero e introverso, è un galantuomo, un nobile cavaliere dell’apocalisse.

    «Sa chi era quell’uomo che ci ha servito la colazione?», attacca il Cavaliere, dopo aver sorseggiato il caffè nero e bollente.

    «No», rispondo tentando, per l’ennesima volta, di apprezzare il caffè all’americana e rendendomi conto che non mi ci abituerò mai.

    «Era un Tenente dei Carabinieri, il Tenente Marco Sabatini. Dieci anni fa comandava la Compagnia di Roma Parioli. Aveva circa vent’anni ed era al suo primo incarico in territoriale. Primo del corso in Accademia, grazie al papà Generale di Divisione, era stato destinato a un comando prestigioso e non eccessivamente rischioso. La sua carriera militare era già scritta, passo dopo passo. Al termine del breve periodo di territoriale, giusto il minimo indispensabile, sarebbe finito a fare l’Aiutante di Campo di qualche anziano Generale, amico del padre. Dopo aver fatto il portaborse per un po’, lo attendeva un qualche ufficio del Comando Generale dove, sempre sotto le ali protettrici del gallonato genitore, avrebbe bruciato tutte le tappe della carriera, divenendo, in tempo record, Ufficiale Superiore, guadagnando così la promozione a Generale. Il suo cammino era già segnato e, tranne qualche incidente di percorso, proseguendo sulla sua corsia preferenziale, sarebbe arrivato ai vertici dell’Arma dei Carabinieri. Sembrava tutto previsto… ma neanche il previdente padre poteva mai immaginare un incidente del tipo: i morti che si rialzano, camminano, ti danno la caccia e ti strappano lo stomaco, mangiandoselo davanti ai tuoi occhi. Chi avrebbe potuto prevedere la fine del mondo? Un’apocalisse che non guarda in faccia nessuno, non ti avvisa e non fa distinzioni.»

    Mentre lo ascolto ciondolo il capo, chiedendomi per quale motivo mi stia raccontando quella storia, simile a tante altre che ho già udito.

    «In quei primi giorni di caos, il Tenente Sabatini perse completamente la testa. Dal Comando Generale gli ordinarono di radunare tutti i Carabinieri disponibili e di trasferire immediatamente uomini e mezzi a Tor di Quinto, dove c’era la sede del Battaglione. Per Sabatini gli ordini del Comando Generale non si discutevano. I superiori erano identici agli dei dell’Olimpo e sapeva che, per conquistarsi il suo posto nella vetta divina, non doveva far altro che adempiere alle disposizioni impartitegli, qualunque fossero, senza mai discutere. A nulla valsero le sensate proteste dei suoi uomini, consapevoli di andare incontro a una missione suicida. Le strade erano completamente invase dai morti viventi moltiplicatisi alla velocità della luce. Le auto in fuga si scontravano tra di loro causando ingorghi stradali catastrofici. Gli incendi divampavano dappertutto. Ordinare l’uscita in quel momento di un numeroso contingente, mal equipaggiato, impreparato e non addestrato a fronteggiare l’anomala situazione, era una tattica maldestramente fallimentare. E cosa fare dei militari infettati?»

    Si ferma qualche istante, giusto il tempo di riprendere fiato. Io ne approfitto per continuare a sorseggiare il caffè, in attesa che continui.

    «Fu chiaro da subito», riprende, «che dovevano essere abbattuti immediatamente, ma nessun ordine in merito era giunto dall’Olimpo e, senza ordini dei superiori, Sabatini non era capace di prendere una decisione. Mai iniziative!, era il mantra che il padre ripeteva sempre. Istericamente Sabatini, minacciando di denunciare alla Procura Militare per insubordinazione coloro che si fossero rifiutati di eseguire gli ordini impartiti, riunì un centinaio di Carabinieri e, messosi alla guida di una carovana mal assortita di automezzi militari, dispose l’apertura delle porte della Caserma per dirigersi verso via del Foro Italico.»

    Le parole si bloccano. Distoglie il viso per un secondo.

    «Cosa accadde?»

    «Fu una strage… una strage annunciata. Dopo appena settecento metri, nei pressi dell’Acqua Cetosa, il convoglio subì un rallentamento a causa delle auto abbandonate. Un’orda di morti viventi circondò in pochi minuti il contingente, lanciandosi sui Carabinieri che iniziarono a sparare all’impazzata. Sprecarono inutilmente i proiettili indirizzandoli su parti del corpo non vitali di quei sconosciuti e terribili nemici. Al colmo del paradosso, mentre la situazione precipitava vertiginosamente, Sabatini continuava a urlare di non sparare, temendo più i danni alla carriera che all’incolumità fisica. Tenente, dobbiamo tornare indietro finché siamo in tempo!, lo imploravano i suoi uomini, ma lui non voleva sentire ragioni. Gli ordini andavano rispettati.»

    Non fiato, capisco che siamo arrivati al culmine della narrazione. O, almeno, mi convinco di ciò.

    «Fu a quel punto che intervenne il Maresciallo Giordano, Comandante del Nucleo Operativo della Compagnia», disse fissandomi. «Giordano era un rude sottufficiale, freddo, sanguigno, determinato e, soprattutto, concreto e pragmatico. Si era spesso scontrato con il Tenente, ritenendolo uno stupido burocrate arrivista. Dal canto suo Sabatini, non sopportandolo, gli aveva notificato un paio di riservate personali per atteggiamenti non consoni al decoro militare. Nel contempo lo temeva; uno come Giordano aveva scritto in fronte: incidente di percorso. Giordano, stimato e ammirato dai suoi Carabinieri, poteva causargli seri problemi. Doveva perciò tenerlo a distanza, non affrontarlo mai direttamente. Piuttosto era preferibile fiaccarlo con un lento e costante lavorio ai fianchi, fino a ottenerne il trasferimento ad altra sede. Quel giorno, però, Sabatini non poté evitare lo scontro diretto con Giordano. Le insensate minacce di punizioni e di denunce, urlate a gran voce durante l’attacco degli zombie, non avevano più efficacia. Giordano tramortì con un pugno in pieno volto il suo Tenente, che perse i sensi collassando sul sedile, assunse il comando della spedizione e riuscì a far retromarcia. Grazie a Giordano una trentina di Carabinieri, compreso lo stesso Tenente, riuscirono a salvarsi. Rientrati in sede, Giordano avviò tutte le procedure necessarie per blindare la caserma, sbarazzarsi dei contagiati e attuare le contromisure che poi diedero vita all’Avamposto dei Parioli e, successivamente, all’omonima Oasi.»

    «E Sabatini?», domando incuriosita.

    «Sabatini?», ripete lui. «Contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, rinacque a nuova vita. Sgravato dalla responsabilità e dal peso del comando, si rilassò, si acquietò e trovò la sua serenità. Accettò di buon grado la nuova situazione. Ammirò, per primo, quel nuovo mondo che non lo costringeva più a seguire le orme del padre, percorrendo tragitti che altri avevano tracciato per lui. Non doveva più indossare quella maschera odiosa che gli imponeva un ruolo per il quale non era assolutamente tagliato. Si tolse i gradi e, con un gesto sincero, li cedette al Maresciallo Giordano mettendosi a sua disposizione. Quelli furono i giorni in cui il mondo

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1