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Anche i pesci hanno sete
Anche i pesci hanno sete
Anche i pesci hanno sete
E-book330 pagine3 ore

Anche i pesci hanno sete

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Info su questo ebook

Tesea, che un giorno di marzo decide di andare a correre e incontra

Matteo. Un giovane affascinante e (inizialmente) premuroso che corre ma

senza scappare, che risponde ma con calcolate omissioni. Da quel giorno

qualcosa cambia e la falsa passione si impone sull'iniziale resistenza

di Tesea che, ormai succube, decide di seguire Matteo barattando la sua

vita con le apparenti e quotidiane certezze di lui. L'evoluzione di uno

spietato e maligno rapporto tossico in cui l'effimera proiezione dei

propri sogni porta Tesea ad annullare totalmente se stessa.

La

crudeltà mentale di un rapporto con un narcisista patologico, una figura

reale che fiuta e individua Tesea, la cattura, la porta a sé con grande

abilità e poi la distrugge.

Finché un giorno la donna incontra Arianna...
LinguaItaliano
Data di uscita4 ago 2021
ISBN9791220348508
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    Anteprima del libro

    Anche i pesci hanno sete - Stefanella Zambelli Mariani

    Capitolo 1

    Era una piacevole mattina di marzo e stavo facendo una corsa lungo le sponde del largo fiume che divide in due la mia città.

    Nei giorni precedenti il vento e la pioggia avevano portato freddo, ma il timido sole che era spuntato aveva reso l’aria piacevole e approfittai di quella parentesi per risvegliare i fianchi impigriti dall’inverno rigido di quell’anno.

    L’erba all’inglese, fine e soffice, era diventata come un letto ad acqua e a ogni passo sentivo gli schizzi inumidirmi le gambe lasciate scoperte dai pantaloncini che avevo indossato.

    Iniziai a pentirmi della scelta quando sentii i piedi bagnarsi.

    Per quanto fosse bello e attrezzato, il percorso che avevo deciso di intraprendere, privo di alberi ai lati, era tutt’altro che piacevole.

    All’epoca ero una ragazza determinata, testarda e fin troppo orgogliosa, anche con me stessa: pur di non ammettere di aver fatto una sciocchezza decisi di proseguire per arrivare fino alla foce e assaporare l’odore salmastro accompagnato dal vento.

    Fu lì che vidi Matteo per la prima volta.

    Era a circa mezzo chilometro da me e stava correndo nella mia direzione.

    La strada era lunga e dritta, priva di curve, difficile distogliere lo sguardo da chi ti veniva incontro.

    Quando correvo, però, lasciavo i miei pensieri liberi, fantasticando su tutto ciò che mi veniva in mente.

    Qualche volta capitava che mi fermassi a ridere solo per aver ricordato qualcosa di divertente, oppure che iniziassi a fare progetti da non concludere mai.

    Ero un’inguaribile procrastinatrice. Precisa, ordinata e puntuale, ma quando facevo un progetto a lungo termine finivo sempre per non iniziarlo mai, cosicché questo era destinato sin da subito a diventare prima un sogno, poi un ricordo e, infine, un pensiero dimenticato.

    Veniva verso di me lentamente, sudato e affaticato dalla leggera pendenza in salita, alla vista impercettibile ma sui polpacci si faceva sentire tutta.

    Le nostre strade si incrociarono a metà percorso.

    Lo ammetto, pur essendo una ragazza razionale, mi è capitato spesso di chiedermi se le nostre scelte siano state già scritte, decise da altri.

    Prendete un periodo dell’anno piovoso.

    Nell’unica giornata di sole dell’intero mese decidete di fare una corsa.

    Decidete di continuare nonostante i piedi bagnati vi chiedano di fermarvi, pena future vesciche doloranti.

    Scegliete un percorso deserto, dove non c’è nessuno se non voi e il vostro fiato appesantito a farvi compagnia.

    Incrociate una persona.

    Probabilmente con le vostre stesse sensazioni e… di prendere una storta esattamente nel momento in cui i vostri respiri sono così vicini da mescolarsi.

    Di andare a vivere con quell’uomo e di avere una figlia con lui.

    Ecco, questo è esattamente ciò che fu deciso quel giorno.

    O ciò che decisi per me da quel giorno.

    Lo vidi arrivare verso di me e decisi di voltare lo sguardo per non incrociare i suoi occhi.

    Era davvero un bel ragazzo, capelli mori leggermente lunghi, spalle larghe, braccia piuttosto robuste, polpacci sodi e i pettorali messi in evidenza dalla maglietta attillata.

    Mi ritengo una persona piuttosto seria ma questo non significa che non sappia apprezzare una persona attraente.

    Sono complimenti che faccio nella mia testa, mai apertamente, per non incorrere in fraintendimenti spiacevoli.

    Ho sempre detestato quegli uomini che pensano di poterti possedere solo perché gli hai rivolto uno sguardo di apprezzamento.

    Spostai quindi la mia attenzione su un anemone solitario, incantata dalle splendide sfumature biancastre sui petali blu a forma di cuore, senza accorgermi di una piccola buca.

    La prima che avevo incontrato.

    Almeno credo.

    Probabilmente ne avevo notate altre e, anche se immersa in pensieri distratti, le avevo evitate con semplice e automatica attenzione.

    Però il caso, oppure il destino, me stessa, qualcuno o qualcosa aveva stabilito che quello sarebbe stato il primo passo verso il mio labirinto personale.

    Senza che potessi far nulla per evitarlo ci infilai il piede sinistro con tutta la convinzione che avevo impiegato nei passi precedenti.

    La pesantezza del manto erboso aveva fatto sì che imprimessi una maggior spinta per poter avere un ritmo di corsa stabile.

    Piegai la caviglia in modo così innaturale che sentii i nervi tendersi per tutto il corpo.

    L’immagine del prato che si avvicinò al mio viso.

    O il mio viso che si avvicinò al prato.

    In pochi attimi mi ritrovai prona con il corpo disteso in mezzo al prato verde che, in quel momento, mi parve una piscina.

    Rimasi stesa per un tempo che mi sembrò interminabile, a maledire la mia goffaggine.

    «Tutto bene?»

    Sentii la sua voce calda e avvolgente colpire il mio ego come il montante di un pugile.

    Rinsavii e la rabbia lasciò velocemente spazio all’imbarazzo per la pessima figura che avevo appena fatto.

    Misi le mani avanti al petto come se dovessi fare una flessione e spinsi verso l’alto per voltarmi e rialzarmi.

    Il dolore si fece sentire.

    «… ma sei stupido?» esclamai.

    Come poteva chiedermi come mi sentivo?

    Ero a terra con una caviglia probabilmente rotta, che domanda è?

    In realtà non ero lucida.

    Si era comportato come chiunque altro avrebbe fatto in quella situazione.

    Mi aiutò a voltarmi e chiamò immediatamente l’ambulanza.

    Era un praticante infermiere nella scuola specialistica della città e mi aiutò in modo molto professionale.

    Delicato nei movimenti e nelle parole riuscì presto a tranquillizzarmi senza farmi sentire il peso di quanto mi fosse capitato.

    Riuscì a spostare la mia attenzione su una conversazione piuttosto piacevole che mi fece, per qualche momento, dimenticare di avere il fondoschiena immerso nell’acqua e la caviglia dolorante. Ero colpita da quel suo modo di parlare lento e ammaliante.

    Non riuscivo a distogliere lo sguardo dai suoi occhi.

    Ero ipnotizzata tanto da non riuscire ad ascoltare completamente cosa mi stesse dicendo.

    Smarrita nei contorni della sua iride non sapevo ancora quanto sarebbe stato difficile ritrovare la strada che mi avrebbe riportato a me stessa.

    Capitolo 2

    Quando avviene qualcosa di inaspettato abbiamo due possibilità: chiederci il perché c'è capitato oppure non domandarci nulla.

    Il medico al pronto soccorso aveva svolto il suo lavoro in maniera impeccabile, fasciandomi il piede che aveva subito solo una piccola frattura guaribile in poco tempo.

    Stampelle per qualche settimana e un po' di fisioterapia, nulla di così grave.

    Per tutta la durata della visita pensai a Matteo.

    Si era presentato ma non ricordavo il suo nome.

    Lo scoprii dopo, quando fui dimessa dall’ospedale.

    Ero distesa sulla piccola sdraio in giardino e stavo leggendo un libro.

    Sentii il campanello suonare.

    Non aspettavo nessuno.

    Non avevo voglia di alzarmi per andare a controllare chi fosse e decisi di ignorarlo.

    Non ero distante dal cancello ma avevo fatto mettere un ombreggiante lungo tutto il confine che dava sulla strada e potevo restare dove ero senza che nessuno potesse notarmi.

    Sentii chiaramente che qualcuno aveva appoggiato qualcosa in terra per poi allontanarsi.

    Attesi qualche minuto poi, spinta dalla curiosità, riposi il libro e mi avvicinai insicura per andare a controllare.

    Non ero agile nei movimenti, anzi, procedevo con estrema cautela facendo attenzione a non cadere.

    Mi sarei sentita estremamente stupida se fosse accaduto.

    Feci pressione sul pulsante rosso che azionava l’apertura elettrica del cancello e aprii.

    C’era un bellissimo mazzo di anemoni freschi, il cui blu chiaro sembrava brillare alla luce di quel sole di marzo.

    Erano adagiati all’interno di un vaso sul cui bordo una piccola molletta di legno, adornata da una coccinella rossa, teneva ferma una piccola busta azzurra.

    Istintivamente alzai lo sguardo per controllare se ci fosse qualcuno nei paraggi, ma non vidi nessuno.

    Non so se si fosse nascosto a osservarmi, è probabile, ma all’epoca non è che avessi tutte queste accortezze e non approfondii.

    Raccolsi il vaso allungando la mano che avevo liberato da una delle stampelle, tenendo saldamente l’altra per non sbilanciarmi.

    Entrai e lo appoggiai in terra prima di richiudere il cancello alle mie spalle.

    Presi il biglietto e tornai a sedermi sulla sdraio.

    Il resto del regalo me lo sarei fatto portare in casa da Roberta, un’amica che ogni sera veniva a controllare se stessi bene e mi aiutava nelle faccende domestiche.

    Aprii la busta e tirai fuori il messaggio.

    Per la mia prima paziente, tanti auguri, Matteo.

    Sorrisi stupita.

    Non avevo idea di come facesse a sapere il mio indirizzo di casa, pensai di averglielo detto io mentre mi aiutava a rasserenarmi dopo la caduta.

    A posteriori lo so, avrei dovuto domandarmi qualcosa in più, individuare una prima nota a cui fare caso, probabilmente il nostro incontro non era stato così casuale come pensavo.

    Ma non mi domandai nulla.

    Era da tanto tempo che non mi sentivo così felice e fiduciosa.

    Era da tanto tempo che qualcuno non mi regalava dei fiori.

    Era da tanto tempo che qualcuno non mi prestava attenzione.

    Mi era piaciuto subito, ero rimasta colpita dalle sue attenzioni e quel gesto inaspettato aveva centrato il mio cuore.

    Avevo mosso un altro passo all’interno del mio labirinto ma non potevo ancora saperlo.

    Pur provando una certa emozione, in me si affacciò uno stato d’ansia che nei giorni seguenti si sarebbe fatto sempre più insistente.

    Non sapevo nulla di lui e, soprattutto, non avevo idea di come contattarlo.

    Avrebbe potuto essere solo il bel gesto di uno sconosciuto.

    Nei giorni seguenti divenni sempre più agile nel muovermi con le stampelle e passai il tempo girando per i vari bar frequentati dagli studenti della vicina scuola per infermieri.

    Era l’unico indizio utile che riuscivo a ricordare.

    Non c’era alcuna traccia.

    Non lo vidi mai.

    Forse stavo solo inseguendo un sogno.

    Durante la mia ricerca avvennero però alcuni fatti che, ripensandoli a distanza di anni, avrebbero dovuto mettermi in allarme.

    In quattro occasioni, dopo aver consumato la colazione che usavo come scusa per rimanere più a lungo nei locali in attesa di veder spuntare Matteo, mi ero alzata per pagare scoprendo che qualcuno l’aveva già fatto al posto mio.

    Non mi sfiorò mai il pensiero che qualcuno potesse seguirmi, pensai fosse un'usanza, una sorta di caffè sospeso.

    Non era molto comune.

    E, col senno di poi, direi neanche molto credibile ma non approfondii.

    Prima di allora non mi era mai capitato, ma non approfondii.

    Piano piano iniziai a scandire le mie giornate.

    Ore sette, sveglia di prima mattina, doccia veloce facendo attenzione a non bagnare la medicazione alla caviglia.

    Ore otto, autobus che mi avrebbe accompagnato in centro nella zona universitaria.

    Ore nove, primo cappuccino al bar Da Mario.

    Ore dieci, passeggiata nel parco e lettura del mio libro preferito.

    Ore undici, aperitivo in un altro bar.

    Ore dodici, biblioteca per continuare con miei studi.

    All’epoca ero all’ultimo anno di scienze della comunicazione ma durante la convalescenza avevo trascurato le lezioni, distratta dalla ricerca di Matteo.

    Ore tredici, pranzo veloce con qualche merendina delle macchinette.

    Verso le quindici, terza tappa nel circolo degli studenti.

    Alle diciotto ennesimo aperitivo presso un locale del centro di cui non ricordo più il nome, prima di prendere il bus che mi avrebbe riportato a casa entro le ore 20.

    Il tempo passò, la routine quotidiana andò a sostituirsi alla ricerca, fino a che non mi dimenticai di lui.

    Arrivò l’estate.

    La gamba si era ripresa completamente e ricominciai anche a lavorare.

    Ero cameriera in un pub della periferia.

    Nulla di impegnativo, dovevo solo portare vassoi carichi di pinte di birra spillate dal barman ai tavoli degli avventori.

    Mi piaceva perché avevo modo di stare a contatto con le tante persone che, a loro volta, avevano imparato a conoscermi.

    I clienti elargivano anche discrete mance.

    Un giorno uscii di casa che pioveva molto forte.

    Pur avendo cambiato qualcosa per andare incontro alle esigenze lavorative e riprendere gli studi in modo più impegnato, non avevo rinunciato al bar Da Mario.

    Sarà stato per l’estrema simpatia del gestore ma davvero non riuscivo a resistere al suo cappuccino.

    Mi incamminai verso la fermata dell’autobus lottando impacciata contro il vento per salvare il mio ombrello da una quasi certa rottura.

    Ero vestita con un impermeabile gigante che mi aveva regalato mio padre.

    Giallo acceso, aveva un cappuccio largo che si spostava a ogni colpo di vento e che mi faceva sembrare un incrocio tra un pulcino e una foca.

    O almeno era così che mi vedevo.

    Mentre mi apprestavo ad attraversare sulle strisce pedonali, un colpo di clacson mi fece sobbalzare e mi voltai verso l’automobilista.

    Era Matteo.

    Mi bloccai in mezzo alla strada con l’ombrello che, ormai piegato su se stesso, non offriva più alcuna protezione.

    Dopo settimane di ricerca, decine di caffè e aperitivi grazie ai quali ormai conoscevo a memoria tutte le patatine e le focaccine di accompagnamento di ogni locale, Matteo era davanti a me.

    Ed esattamente come la prima volta eccolo lì, proprio quando avevo bisogno e a pochi chilometri da casa mia.

    Alzai la mano in segno di saluto, mi sentii ridicola con quella giacca antivento, antipioggia, che faceva scivolare via da me la furia che veniva giù dal cielo.

    Aprì la portiera lato passeggero e mi fece cenno di salire.

    Come potevo accettare?

    Quella su cui viaggiava era un'auto nuova di zecca; era molto bella.

    Io invece sembravo una balenottera fuori dal suo habitat.

    Alzai la mano fingendo di non capire e ripresi il cammino verso la fermata dell’autobus, tagliando per la zona pedonale.

    Arrivai alla fermata coperta per attendere il mezzo pubblico che mi avrebbe portato a casa.

    I sedili in plastica finto legno laccato, stile sgabello delle elementari, erano qualcosa che avrei potuto bagnare senza troppa preoccupazione.

    Sciopero.

    Un cartello appeso alla colonna mi avvisava che il servizio era sospeso fino alle ore undici del mattino.

    Due ore.

    Ombrello rotto, pioggia battente, impermeabile ridicolo.

    Cosa potevo chiedere di peggio?

    Un secondo colpo di clacson attirò la mia attenzione.

    Matteo aveva fatto tutto il giro, aveva accostato la macchina sulle strisce riservate ai mezzi di trasporto pubblico e aveva aperto la portiera invitandomi nuovamente:

    «Allora? Vuoi salire oppure ti passo lo shampoo?»

    Risi timidamente.

    Restare oppure entrare.

    Se solo la vita fosse stata più chiara.

    Se avessi approfondito.

    Se fossi stata più attenta.

    Se...

    Salii in macchina.

    Chiusi la portiera, lui partì e lì, alla fermata di quell’autobus, lasciai me stessa e la mia vita.

    Capitolo 3

    Erano circa le due di notte, avevo terminato il mio turno di lavoro e gli ultimi clienti avevano lasciato i loro tavoli da circa mezz’ora. Sarei rimasta il tempo necessario per lavare gli ultimi bicchieri.

    Avrei dovuto spazzare e pulire ma Antonio, il mio titolare, mi esortò a tornare a casa consapevole che il giorno seguente avrei avuto un esame importante all’università.

    In realtà avrei dovuto avere la serata libera ma una mia collega si era sentita male all’ultimo e mi era stato chiesto il piacere di fare un turno extra, pagato sul momento.

    Due soldi in più, soprattutto quando si è giovani, non fanno mai male e così accettai.

    Attesi che le casse terminassero di trasmettere una delle mie canzoni preferite e chiusi la porta alle mie spalle.

    Era una bella serata, la luna piena era così luminosa che la luce dei lampioni era un fastidioso disturbo.

    Mi accesi una sigaretta, indossai il coprispalle e mi incamminai.

    Non c’era nessuno.

    Decisi di tagliare per un piccolo vicolo, volevo raggiungere il parcheggio dei taxi dove avrei trovato il mezzo per tornare a casa.

    Avevo la patente ma non mi piaceva molto guidare e non avevo mai acquistato una macchina.

    Ricordo che passai sotto a un lampione difettoso che si accendeva e si spegneva.

    Fu un attimo.

    Sentii il cuore in gola, terrorizzata da una mano che da dietro mi chiuse la bocca e mi cinse il petto con il braccio.

    Qualcuno mi stava trascinando verso una piccola stradina alla mia destra.

    Diedi un forte strattone per cercare di divincolarmi quando sentii qualcosa contro la mia schiena.

    Mi bloccai.

    Non sono sicura di cosa fosse, mi sembrò una pistola.

    Rimasi inerme, terrorizzata da quanto stava succedendo.

    «Fai silenzio o ti farai molto male»

    Era una voce maschile.

    Allentò un po' la presa per sincerarsi che avessi davvero intenzione di ubbidire al suo ordine.

    Sentii la cerniera della borsetta che tenevo a tracolla aprirsi.

    Iniziò a frugare in cerca del portafoglio innervosendosi perché non riusciva a trovarlo.

    Non so per quale motivo ma preferivo tenere i soldi e i documenti all’interno di un marsupio molto sottile che tenevo legato in vita.

    Quella sera indossavo solo un coprispalle, ma era abbastanza lungo da nascondere quello che era l’obbiettivo.

    Attorno a me tutto scomparve.

    Il tempo, la luna che illuminava il vicolo, le flebili stelle che avevo intravisto poco prima erano svanite, mi avevano abbandonato a me stessa.

    Solo il lampione che alternava luce e buio sembrava tenermi compagnia.

    Improvvisamente sentii un urlo deciso.

    «Fermati!» esclamò qualcuno poco distante.

    Il malvivente mollò immediatamente la presa e scomparve nell'oscurità.

    Mi voltai.

    Era Matteo.

    Di nuovo.

    Dopo il passaggio in macchina durante quel terribile acquazzone non lo avevo più rivisto.

    Era apparso nuovamente nel momento del bisogno.

    Lo abbracciai per la gioia.

    Mi sciolsi e scoppiai a piangere alternando felicità e terrore.

    Se il ladro avesse davvero avuto una pistola probabilmente l’avrebbe usata, ma non era il momento di approfondire. Ero salva.

    Teneva in mano un sacchetto della spazzatura.

    Era uscito per puro caso e aveva assistito alla scena.

    «Ancora tu?» disse stupito dall’avermi incontrata casualmente.

    Mi offrì un passaggio che accettai.

    Iniziammo a conversare amabilmente.

    Si meritava la mia attenzione.

    Abitava piuttosto lontano da dove mi aveva soccorso ma sul momento non ci pensai.

    Anzi, non ci pensai per molti anni.

    Non era molto plausibile che stesse buttando la spazzatura così lontano da casa, ma allora ero troppo frastornata per notare quella strana incongruenza.

    Certo, avrebbe potuto essere da amici e aver fatto un favore, ma non lo raccontò.

    Era molto bravo a distogliere l’attenzione portando le persone dove preferiva, un oratore nato, avrebbe potuto fare politica.

    In futuro glielo avrei ripetuto spesso, ridendoci su, ma rispondeva che non amava esporsi.

    Eppure dimostrava il contrario.

    Prima di lasciarmi andare mi chiese un appuntamento per la sera seguente.

    «Sarebbe ora che la smettessi di farti vedere solo quando devo salvarti» disse sorridendo.

    Declinai l’invito.

    Ero agitata e stanca, non me la sentivo.

    Il mio sesto senso, eccolo, era proprio lì.

    «Allora

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