Francesco il primo anno senza di te
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Info su questo ebook
Doris Bottignole è nata a Feltre il 24 Luglio 1979, vissuta ad Arten di Fonzaso, il paese natale, fino al 2001, dove all’età di 14 anni è diventata sorella maggiore di Francesco, come lo definisce lei, il primo bellissimo dono di Dio. Con Francesco ha sempre avuto un legame molto forte, non era solo un fratello, ma molto di più. Ama molto leggere, camminare in mezzo alla natura, guardare il cielo, i disegni che creano le nuvole, fotografare alba e tramonto poiché quell’intensità di colore la rilassa. Da adolescente ha cominciato ad appassionarsi alla lettura, quando legge si estranea dalla propria vita, sarà per questo che quando ha affrontato un terribile lutto, la perdita del suo amato fratellino, ha deciso di buttare fuori il suo dolore proprio scrivendo. Questo libro è stato il suo psicologo, mettendo nero su bianco quello che non poteva dire ai suoi genitori, già distrutti dal dolore, ai propri figli, perché erano piccoli e non voleva privarli della spensieratezza, al marito perché non avrebbe capito: una sorta di auto-terapia che le ha permesso di andare avanti e di dedicarsi alle cose belle della vita.
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Anteprima del libro
Francesco il primo anno senza di te - Doris Bottignole
Il 5 novembre del 2016 mi è cambiata la vita; uno schiaffo in faccia da un destino crudele mi ha trascinato in un mondo di dolore. Alle 7:30 del mattino ad Abbotsford, cittadina della British Columbia, in Canada, mi venne a svegliare mio marito Massimo dicendomi di chiamare mio padre con urgenza perché Francesco, mio fratello, aveva avuto un incidente in macchina. Subito chiamai il cellulare di mio fratello, convinta che avrebbe risposto. Invece lo trovai staccato. In un primo momento non avevo pensato che la situazione fosse così seria; allora chiamai mio padre. Fu lui a dirmi che mio fratello aveva distrutto la macchina ed era grave, aveva battuto la testa, ed era in coma farmacologico, all’Ospedale di Treviso.
Mi preoccupai e insistetti perché mi spiegasse meglio la situazione, e lui lo fece, omettendo, però, alcuni particolari, o meglio, il particolare più grosso: gli era stato detto che ci sarebbe voluto un miracolo perché Francesco si salvasse.
Sono sicura che in quel frangente lo avesse fatto solo perché, conoscendomi, voleva che stessi calma; sa quanto amo mio fratello e come sono fatta: caratterialmente molto impulsiva, avrei preso il primo volo disponibile; promise, però, di tenermi aggiornata su ogni piccolo cambiamento.
Noi qui avevamo in programma di andare a Victoria, l’isola che si trova di fronte a Vancouver e che è la capitale del Canada, perché Massimo l’indomani avrebbe giocato a rugby; mio marito insistette perché andassimo anche se io non avevo la forza e la voglia, ma credo lo abbia fatto per cercare di distrarmi, visto che mi conosce molto bene.
Ci sistemammo e partimmo, ma nella mia testa c’era solo un pensiero: mio fratello in coma. Avrei dato qualsiasi cosa per vederlo e abbracciarlo, ma ero troppo distante.
Per raggiungere Victoria da Abbotsford dovevamo arrivare a Vancouver, che dista circa 40 minuti, per poi imbarcarci: ci sarebbe voluta circa un’ora di traghetto. Durante il tragitto mandai sms alle mie più care amiche per informarle, poi risentii mio padre ancora un paio di volte: la situazione era sempre uguale, bisognava aspettare le prime 24 ore, che erano le più critiche.
Io non avevo idea delle condizioni in cui versava mio fratello e neppure sapevo che fosse tanto grave, in cuor mio credevo al 100% che si sarebbe svegliato. Ma stavo male. Non ero lì con lui, al suo fianco, al fianco dei miei genitori; non potete immaginare che sensazione devastante avevo dentro, ero impotente e inutile.
I miei ragazzi, invece, erano entusiasti di imbarcarsi per la prima volta su una nave così grande; del resto loro reagiscono diversamente da noi... almeno erano tranquilli, io invece ero seduta su una sedia con Matilda nell’ovetto vicino, con lo sguardo assente; sì, la guardavo ma non la vedevo, avevo un coccolone in gola, avrei voluto piangere e urlare o meglio ancora avrei voluto essere accanto a Francesco, vederlo, toccarlo, accarezzarlo, baciarlo, parlargli, ma non era possibile, ero imprigionata al di là dell’oceano; a tratti mi mancava l’aria, mi sembrava di soffocare.
A un certo punto Matilda si svegliò: aveva fame e la allattai, ma il mio volto era rigato dalle lacrime perché il mio pensiero era con mio fratello. Mi accorsi delle persone che mi guardavano e chissà cosa pensavano, ma non mi interessava nulla. Nel frattempo i ragazzi e Massimo ritornarono dopo essere andati a prendere da mangiare, si sedettero e iniziarono a fare colazione parlando e guardando dagli oblò della nave, scherzando e scrutando l’oceano per vedere se ci fossero delle balene. A me tutto questo dava fastidio: tutto continuava ad andare avanti come in una giornata normale, mentre in me tutto si era fermato e avevo una gran paura, pregavo perché mio fratello ce la facesse, ma non sapevo come stesse veramente, non avevo ancora realizzato: io credevo, in cuor mio speravo, pregavo e mi dicevo che Dio non lo avrebbe lasciato morire. Francesco è un bravo ragazzo, ha sempre fatto del bene
mi ripetevo, ero convinta che Dio mi ascoltasse e mi esaudisse, credevo che tutto si risolvesse e a dicembre sarei tornata a casa e lo avrei stretto a me!
A un certo punto del viaggio andai a cambiare il pannolino a Matilda; con me c’era anche Rebecca. In quel momento ero molto instabile emotivamente, perciò quando entrammo in bagno e iniziai a cambiare la piccola sentivo le lacrime: sarebbe bastato un niente perché scoppiasse un diluvio.
Una signora uscì dal bagno e mi guardò, chiedendomi se avessi bisogno di aiuto; la guardai e le dissi che era tutto ok, e ringraziandola non potei fare a meno di pensare: ma si vede così tanto?
. Eppure quel piccolo gesto mi fece un enorme piacere: voleva dire che ci sono ancora persone in grado di osservare e confortare. In quel momento lei era stata una presenza positiva: mi sentivo sola, nonostante la mia famiglia fosse lì con me, nessuno mi domandava come stavo, forse per paura di peggiorare la situazione, e invece quella persona mi aveva fatto sentire ancora al mondo!
Quando sbarcammo, una volta in Hotel, sistemati i bagagli in camera, uscimmo a cercare una Chiesa: volevo pregare per Francesco, e accendere un cero. Trovammo quasi subito una Chiesa Cristiana, ma non sono sicura fosse anche Cattolica; pregai e parlai con Dio e quando uscii ero ancora convinta che la mia preghiera venisse ascoltata. Feci una foto di quella enorme Chiesa per poi mostrarla a Francesco una volta che fosse tornato a casa, dicendogli: Guarda fratellino dove siamo andati a pregare per te!
.
Nel frattempo, continuavo a chiamare a intervalli regolari mio padre, ma le notizie erano sempre le stesse. A un certo punto mi disse che li mandavano a casa: in Italia era sera, bisognava aspettare e vedere; allora rimanemmo d’accordo che a qualsiasi ora se c’erano novità mi avrebbe chiamato.
Intanto, i ragazzi avevano voluto visitare il Museo; mentre loro guardavano, fotografavano, parlavano io ricercavo notizie dell’incidente su internet, ma niente. All’uscita del Museo finalmente trovai la notizia: c’era anche una foto della macchina e solo in quel momento realizzai la gravità dell’incidente, avevo capito infine quanto grave fosse mio fratello, il mio unico e amatissimo fratellino. Fu allora che chiamai mio marito e mostrandogli la foto gli chiesi: Ce la farà?
.
Allora è cominciata la mia agonia più grande: ho realizzato la situazione, la possibilità che lui non si svegliasse più! Sì, i miei mi avevano detto che era in coma farmacologico, mi avevano detto parte della situazione e sapevo anche il perché: ammettere la gravità della situazione, significava rendersi conto di quanto fosse alta la percentuale di morte; era tremendo per me, figurarsi per loro.
Da quel momento fui ancora più in ansia; mi fecero camminare, credo per distrarmi, ma guardavo in giro e la testa era da tutt’altra parte, il pensiero che non potevo essere con Francesco e con i miei genitori mi divorava dentro, era come se li avessi abbandonati.
Dopo cena andammo a prendere un caffè da Starbucks, una catena di caffetterie americana che adoro. Continuavo a pregare con il rosario in tasca e guardavo il cellulare, per paura di non sentirlo squillare. Quando rientrammo in hotel ero stanchissima e, dopo aver preparato Matilda per la nanna, mi feci una doccia e mi misi a letto addormentandomi dopo poco.
Matilda si svegliava anche 4-5 volte per notte per magiare quindi dopo la poppata dell’una di notte ora Canadese, dopo che si era riaddormentata decisi di chiamare mio padre: in Italia erano circa 9:00 del mattino. I miei genitori erano su di morale: stavano