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Metamorfosi
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E-book260 pagine3 ore

Metamorfosi

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Info su questo ebook

Dopo Il ritratto e Attesa, proseguono le vicende di Isolde e Tristan. A volte capita che quando si è soli contro tutti ci si sente più uniti, si riescono a superare mille difficoltà con una forza e determinazione che pensavamo di non avere. Poi qualcosa di incrina e l’amore che prima unisce improvvisamente inizia a dividere. Quanto si può essere orgogliosi? Quanto si può far soffrire gli altri e provarne piacere? Il cammino di Isolde per esorcizzare il dolore sarà lungo e difficile, costellato di scelte sbagliate che rischieranno di compromettere ogni suo legame affettivo.
LinguaItaliano
Data di uscita30 gen 2020
ISBN9788831643269
Metamorfosi

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    Anteprima del libro

    Metamorfosi - Irene Milani

    possibilità…

    Normalità

    Mi svegliai stiracchiandomi pigramente, ancora avvolta nelle morbide coperte.

    Era piacevole, almeno ogni tanto, non essere catapultata nel mondo reale dal terribile trillo della mia cara spaccatimpani.

    Ebbene sì, non mi ero ancora decisa a sostituirla! Ormai faceva parte della mia vita.

    Ancora più piacevole era svegliarsi sapendo di avere Tristan al mio fianco.

    Di sostituire lui, non se ne parlava neanche.

    Non solo faceva parte della mia vita… era la mia vita.

    Allungai la mano verso la sua parte di letto, aspettandomi di trovare il suo petto, morbido e caldo.

    Invece era deserto… e freddo.

    Stupita, tentai di aprire gli occhi, a fatica. Mi misi a sedere, guardandomi intorno alla ricerca della sua presenza.

    Ero sola nella stanza.

    Eravamo a Moena, era l’ultimo giorno della nostra tanto attesa vacanza di Pasqua. Nel pomeriggio saremmo rientrati a Lavis.

    Questa volta la cosa non mi spaventava più di tanto: il nostro amore clandestino era stato scoperto e fortunatamente accettato dalle nostre famiglie. Certo, Tristan era dovuto rimanere in coma una settimana in seguito a un incidente, io avevo dovuto rifiutare cibo e acqua per due giorni… ma alla fine ce l’avevamo fatta! Avevamo vinto noi.

    Il nostro amore, vero e sincero, aveva avuto la meglio su odi e rancori ormai storici.

    Infatti, il nonno di Tristan aveva ucciso, o meglio aveva partecipato all’eccidio in cui aveva perso la vita il mio nonno biologico, nonché fratello di quello che io pensavo fosse il mio vero nonno.

    In parole povere, nonostante ci chiamassimo Tristan e Isolde (ironia del destino?), eravamo diventati due moderni Romeo e Giulietta. Le nostre famiglie si odiavano reciprocamente, quindi per quasi sei mesi avevamo fatto di tutto per conciliare la nostra storia d’amore con le limitazioni imposte dalla tragica e disperata situazione.

    Bugie, bugie, bugie… e soprattutto l’aiuto di pochi ma fidati amici. La baita in cui stavamo trascorrendo le vacanze, ad esempio, era di Thomas, fidanzato di una delle mie migliori amiche.

    Adesso, finalmente, da quasi due mesi, il nostro amore era diventato pubblico.

    Eravamo stati portati insieme all’ospedale, dopo un incidente d’auto. Tristan era in coma, io solo un po’ ammaccata.

    Con grande difficoltà e sofferenza eravamo riusciti a far capire ai nostri genitori, e soprattutto a mia nonna, che i nostri sentimenti erano veri e sinceri. Ora eravamo una coppia normale. Il mio più grande desiderio si era avverato.

    Potevo stare con il mio ragazzo senza nascondermi, senza raccontare bugie, senza avere il costante timore di essere scoperta.

    In quel momento però l’unica cosa che dovevo scoprire era dove fosse finito il mio ragazzo.

    Perché non era più lì accanto a me, dove avrebbe dovuto essere, visto che era ancora presto?

    Ancora assonnata mi alzai dal letto e, come uno zombie, feci la scala per scendere al piano di sotto da dove sentivo provenire dei deboli rumori.

    Entrata in cucina non potei trattenere un sorriso.

    Tristan era lì, con tanto di grembiule, che stava preparando la colazione con i pochi viveri rimasti in dispensa.

    Aveva apparecchiato la tavola, messo un vasetto di fiori vicino alla mia tazza e adesso mi fissava come un bambino sorpreso a sbirciare i regali di Natale.

    «Cosa ci fai già in piedi?! – mi chiese, stupito, mentre mi lasciavo avvolgere dal suo tenero abbraccio, affondando il viso nel suo petto – volevo farti una sorpresa…».

    «Mi sono svegliata e non c’eri… pensavo fossi scappato.» – ironizzai, contemplando quello che già era riuscito a preparare, prima del mio arrivo.

    «Hai corso il rischio – rispose lui, strizzandomi l’occhio – poi ci ho ripensato…».

    «Molto spiritoso… davvero un simpaticone!» – gli dissi, dandogli un leggero pugno sulla spalla.

    Facemmo colazione allegramente, divorando tutto quello che ci capitava sotto mano, sia perché avevamo una fame da lupi, sia per evitare di riportare a casa troppe cose deperibili. Il resto lo avremmo lasciato lì, per chi ci sarebbe andato dopo di noi.

    Dopo aver risistemato la cucina, ci dedicammo al resto della casa: dovevamo lasciare tutto esattamente come lo avevamo trovato, visto che la casa era dei genitori di Thomas.

    Controllammo che la brace nel caminetto, quello davanti al quale trascorrevamo gran parte del nostro tempo, fosse ben spenta.

    Ricordavo ancora il quadro che avevo dipinto qualche mese prima, subito dopo la nostra prima vacanza a Moena: Tristan di spalle, svestito, illuminato solo dalle fiamme…

    Un brivido mi percorse la schiena, al solo ricordo di quei momenti di intimità.

    Certo, anche questa volta non ci eravamo limitati a tenerci per mano davanti alla televisione, ma la passione repressa a lungo delle volte precedenti non aveva confronti.

    Inoltre, ora, c’era qualcosa di diverso. Io avevo qualcosa di diverso.

    Durante l’incidente, a causa dell’impatto con la cintura, avevo perso un bambino, che non sapevo nemmeno di aspettare.

    Era stato un colpo durissimo. Certo, ero consapevole che a diciannove anni avere un figlio sarebbe stato quanto meno complicato, ma non riuscivo a togliermi dalla testa il fatto che dentro di me c’era una piccola creatura… una bambina…

    A complicare tutto, se ce ne fosse bisogno, si era aggiunta anche l’esperienza di «premorte» di Tristan: quando si era svegliato dal coma aveva raccontato di aver incontrato una bambina, di nome Sissi, che assomigliava a me. Era stata lei a fargli capire che io avevo ancora bisogno di lui e si era svegliato.

    Quella bambina era la nostra. Lo avevo capito dal nome. Sissi era la famosa imperatrice d’Austria, a Vienna avevamo visitato il suo magnifico palazzo… ed era proprio lì che era stata concepita.

    Quando Tristan era uscito dal coma, raccontandomi quella storia, non avevo avuto il coraggio di dirgli subito la verità. C’erano già troppe novità nella nostra vita, non volevo rischiare di peggiorare le sue condizioni con quella notizia.

    Così mi ero tenuta tutto dentro.

    I giorni passavano, le condizioni di Tristan erano migliorate rapidamente, ma io non riuscivo mai a trovare il momento giusto, le parole adatte per raccontargli tutto.

    Sapevo che era sbagliato, che anche lui doveva sapere: ne aveva il diritto. Ma non potevo, non ne ero capace.

    Inoltre, non condividendo con nessuno il mio dolore per la perdita della mia Sissi, lo andavo via via ingigantendo, trasformando. Era diventato come un cancro nel mio cervello, un pensiero fisso.

    Ora che avrei potuto essere felice e serena, godendomi finalmente la gioia di un amore normale, mi tormentavo su qualcosa a cui non potevo porre rimedio.

    Iniziavo a pensare di essere l’unica che soffriva, che aveva una ferita nel cuore, allontanando gli altri da me.

    Stava capitando anche con Tristan.

    C’erano dei momenti in cui, quando sprofondavo nell’autocommiserazione, tendevo ad escluderlo dal mio mondo, dalla mia vita.

    Lui sembrava accettare questi miei attimi di tristezza senza farsi troppe domande, forse voleva solo lasciarmi il mio spazio. Io invece interpretavo la sua discrezione con indifferenza, ritrovandomi ancora più malinconica e sola.

    Sarebbe stato così facile: bastava che gli raccontassi tutto, che gli spiegassi le motivazioni del mio tormento. Avremmo condiviso il dolore, rafforzando ancora di più il nostro legame.

    Ma soprattutto non avrei continuato a portarmi dentro quel peso da sola.

    Invece, come votata al martirio, insistevo nel non voler parlare della mia piccola bimba con nessuno. Nemmeno con le mie migliori amiche, Alice, Olga e Cecilia, che mi avevano aiutato tantissimo nel periodo del mio amore clandestino.

    Mi giustificavo dicendo che se non lo sapeva Tristan, non potevo certo confidarmi con loro prima che con lui.

    Intanto non facevo niente per provare, almeno provare, a raccontargli la verità.

    Avevo bisogno di un po’ di tempo, mi ripetevo, solo ancora un po’.

    Rimandavo. Continuavo a rimandare.

    Sapevo benissimo che più il tempo passava, più sarebbe stato difficile per me e, soprattutto, doloroso per lui.

    Prima di Moena. A Moena. Appena torniamo…

    Non riuscivo proprio a decidermi.

    Eppure ne avevo visti un sacco di film in cui, la piccola cosa taciuta, col passare del tempo diventava un segreto enorme che portava (inevitabilmente) alla tragedia. O come minimo a un bel po’ di problemi prima che, i due protagonisti, arrivassero al lieto fine.

    Lo sapevo, ma continuavo a non dire niente.

    Potevo solo sperare che lui non la prendesse male.

    «Sai amore che aspettavo un bambino… sì, lo so… sono passati mesi… volevo dirtelo ma…»

    Decisamente se la sarebbe presa, e a ragione! Quindi tanto valeva aspettare.

    Mi riscossi dai miei pensieri sentendo Tristan entrare in camera. Avevo appena finito di disfare il letto in cui avevamo dormito durante la nostra permanenza a Moena, mentre lui aveva spento caldaia e riscaldamento.

    Stavo guardando fuori dalla finestra: la neve, abbondante l’inverno precedente, era ormai quasi completamente sciolta e nei prati, cominciavano a intravedersi i primi fiori, segni di una primavera piuttosto in ritardo.

    Di solito la vista di una natura tanto spettacolare mi rasserenava: non quella volta. Il mio animo continuava ad essere inquieto e tormentato.

    Ripensai, come in un flash al giorno di Pasqua: era la prima volta che non lo trascorrevo in famiglia. Avevamo dormito fino a tardi, abbracciati l’uno all’altra, come non avevamo fatto da tanto tempo.

    Era una giornata stupenda. Il sole che filtrava dalle persiane ci fece capire, ancor prima di aprire le finestre che quel giorno era arrivato un anticipo di estate. Era davvero strano il tempo: di fatto non avevamo visto ancora un vero giorno di primavera e, quella mattina, sembrava già preludere alla stagione estiva.

    Pensammo che fosse un regalo, la sorpresa trovata nell’uovo di cioccolato!

    Facemmo una colazione abbondante: ci eravamo portati da casa (grazie anche al fatto che eravamo arrivati a Moena con la macchina e non in treno, come la volta precedente) una colomba.

    Ne mangiammo quasi metà, accompagnandola con caffè e qualche pezzetto uovo.

    Il nostro programma per la giornata era una gita: quando eravamo in quella baita, difficilmente uscivamo di casa (un po’ a causa del clima piuttosto rigido, un po’ per goderci appieno il tempo a nostra disposizione). Ma quel giorno non se ne parlava di restare relegati tra quattro mura.

    Saremmo andati a messa nella chiesa del paese poi, zaino in spalla, avremmo seguito uno dei tanti sentieri che partivano dalla piazza principale.

    Preparai velocemente dei panini, delle bibite e qualcosa di dolce da portare per il nostro pic-nic.

    In un armadio trovai un plaid, con i classici quadrettoni scozzesi, che infilai nell’altro zaino.

    Nel frattempo sentivo lo scroscio della doccia provenire dal bagno, accanto alla cucina.

    Era così bello, così familiare poter trascorrere del tempo insieme. Mi sembrava di aver sempre condiviso la mia quotidianità con lui, invece ci conoscevamo da meno di un anno!

    Uscimmo quasi di corsa, per non fare tardi in chiesa.

    Al termine della funzione ci incamminammo verso i boschi.

    Vedevamo gli abitanti di Moena e i numerosi villeggianti affrettarsi verso casa, dove li aspettava un pranzo che, probabilmente, avrebbe potuto sfamare tutti i bambini poveri dell’Africa.

    Noi invece ci apprestavamo a festeggiare solo con tramezzini e due crostatine!

    Ma sarebbe stato bello ugualmente, anzi forse più bello che se ci fossimo seduti a tavola a rimpinzarci di cibo!

    Camminammo per quasi un’ora, mano nella mano, raccontandoci aneddoti su tutti i pranzi natalizi e pasquali che avevamo dovuto «sopportare» nella nostra vita.

    Finalmente trovammo uno spiazzo: ricordava un po’ la radura in cui ci eravamo conosciuti, se così si può definire il nostro primo incontro. Infatti, lui aveva seguito e spiato me che ero impegnata a disegnare un ritratto: il suo, anche se non lo avevo mai nemmeno visto prima di quel giorno.

    Fu amore a prima vista.

    Nonostante fosse solo di carta, mi ero innamorata subito di quel bel viso, dei suoi occhi profondi…

    E ora eravamo insieme, finalmente.

    Stendemmo il plaid e ci sdraiammo un po’ prima di mangiare.

    «Mi mancherà tutto questo – mi disse lui, accarezzandomi i capelli – non mi stancherei mai di stare con te…»

    «Perché dovresti stancarti? Non sono la ragazza più bella, dolce e simpatica del mondo?»

    «Soprattutto modesta!» – disse lui, scoppiando a ridere.

    «Sai, un po’ mi spaventa stare così bene con te. Siamo così giovani…»

    «Non capisco cosa vuoi dire…» – mi domandò, guardandomi con aria interrogativa, improvvisamente serio.

    «Dico che, a giudicare da quello che vedo e sento ora, credo che tu sia l’uomo della mia vita… che vorrei stare sempre con te. Poi penso che abbiamo solo quasi vent’anni… e ho paura che il tempo possa dividerci!»

    «Shhh – mi disse lui, posandomi un dito sulle labbra, come se con quel gesto avesse potuto cancellare ogni mio dubbio – lo sai che non stiamo insieme tanto per passare il tempo, no? Non ci stiamo solo divertendo. Vedrai che niente e nessuno ci separerà, non dopo quello che abbiamo passato.» Mi piacerebbe crederlo, ma quando ti avrò raccontato il mio segreto, la penserai ancora così???

    Trascorremmo in allegria e serenità, sdraiati al sole, il resto del pomeriggio.

    Tuttavia non riuscii a scacciare la brutta sensazione che, con il mio silenzio, potevo aver compromesso il mio rapporto con lui…

    Tornai immediatamente con la mente al presente.

    Dovevo smetterla di estraniarmi a quel modo dalla realtà!

    Sentii la sua presenza farsi più vicina, poi le sue braccia mi strinsero forte, facendo aderire il mio corpo al suo. Voltai la testa per guardarlo, bello come al solito, e lui ne approfittò per regalarmi un tenero bacio.

    Mi costrinsi a scacciare i brutti pensieri, che ancora si agitavano nella mia mente.

    Lo guardai sorridente, cercando di apparire serena.

    Ormai avevamo finito di sistemare la baita, eravamo quindi praticamente pronti per andare a prendere il pullman.

    All’andata eravamo venuti in macchina, in compagnia di Manfred e Stella, il fratello di Tristan e la sua fidanzata, nonché infermiera che si era presa cura di me in ospedale.

    Lei era l’unica che conosceva il mio segreto e, ovviamente, continuava a ripetermi di non aspettare oltre a raccontare tutto a Tristan.

    Io promettevo, convinta, poi, al momento decisivo, mi tiravo indietro. Ero proprio insensibile ed egoista.

    Soprattutto stavo facendo un torto alla persona che amavo di più al mondo.

    «Siamo pronti!» – dissi, dando ancora una rapida occhiata alla stanza.

    «Concordo – rispose lui, mentre continuava a tenermi vicino a sé, abbracciandomi dolcemente – mi dispiace un po’ andarmene, ma ora che non dobbiamo più nasconderci, il ritorno a casa non sarà così drammatico!»

    «Strano vero? Non dover più mentire, nascondersi…»

    «Più che strano, direi bellissimo!» – mi corresse lui, sorridendomi.

    Era vero. Anzi, bellissimo non rendeva nemmeno l’idea di quanto fosse stupendo non avere paura di prendersi per mano, di essere visti insieme…

    Meraviglioso, eccezionale, straordinario, grandioso, fantastico, strepitoso… sì, beh, avevo ingoiato un dizionario insieme alla colazione.

    Pochi minuti dopo eravamo per strada, diretti alla piazza principale di Moena. Avevamo più di mezz’ora di margine, prima che il pullman arrivasse.

    La trascorremmo seduti, abbracciati su una panchina assolata, godendoci gli ultimi istanti di quella vacanza felice.

    Il viaggio di ritorno si svolse senza intoppi. A Bolzano, a sorpresa, trovammo Manfred che ci attendeva alla stazione, per darci uno strappo fino a casa.

    «Che bella sorpresa!» – esclamammo all’unisono, come due bambini.

    «Avevo un po’ di tempo, così ho pensato di risparmiarvi l’attesa del treno…» – rispose lui, omettendo il fatto che era stato probabilmente costretto dalla madre, ancora preoccupata per la salute di Tristan, nonostante tutte le analisi dimostrassero che i giorni di coma non avevano lasciato nessun genere di problema.

    «Grazie – gli dissi, sedendomi sul sedile posteriore, lasciando quello del passeggero a Tristan – sei sempre così gentile…»

    «Lo faccio con piacere. Cari piccioncini!» – rispose lui, buttandola sul ridere.

    Non voleva ammetterlo, ma si preoccupava per noi.

    Era stato una presenza fondamentale nella lunga settimana in cui Tristan era stato in ospedale.

    Se non ci fosse stato lui, i suoi genitori non avrebbero accettato di lasciarmelo vedere.

    Senza il suo intervento, appoggiato dal padre, mia nonna non mi avrebbe fatto tornare in ospedale al capezzale di Tristan.

    Insomma, gli dovevo tanto, ma lui fingeva fosse una cosa da niente.

    Modesto come il fratello, bello come il fratello, al quale assomigliava da matti.

    Ma per me era solo Manfred, il fratello che avrei voluto avere, invece di quell’ameba di Martin, col quale avevo scambiato sì e no venti parole nell’ultimo anno e mezzo, dieci delle quali sulla Playstation. Manfred mi ispirava un senso di protezione, di sicurezza. Quello che avrei voluto da un fratello maggiore. Gli volevo troppo bene e dovevo a lui la nostra felicità.

    Mentre ero immersa nei miei pensieri arrivammo a Lavis. Evidentemente la guida sportiva di Manfred ci aveva fatto coprire il tragitto in un battibaleno.

    Da bravi gentiluomini mi accompagnarono fin sotto casa; Tristan scese dall’auto per aiutarmi con i bagagli, ma preferì non entrare: per la nonna era già stato abbastanza difficile accettare il mio viaggio con

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