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Ten (Collana Policromia)
Ten (Collana Policromia)
Ten (Collana Policromia)
E-book294 pagine4 ore

Ten (Collana Policromia)

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Info su questo ebook

La solitudine poteva essere una maledizione, ma avevo imparato a viverla in modo quanto più sereno possibile. Nella mia testa c’era spazio solamente per la vendetta e nessun cucciolo avrebbe potuto prenderne il posto. 

Dieci sconosciuti, un sadico gioco. 

Una volta all'anno un gruppo misto e variegato di persone viene catturato e rinchiuso in una struttura abbandonata, braccato da killer sadici e senza scrupoli. L'obiettivo è sopravvivere fino alla mezzanotte del giorno seguente e scappare. 

Leena Morgan, sopravvissuta già una volta al terribile gioco, architetta per dieci anni una vendetta che la ricondurrà tra le grinfie dei killer in una vecchia fabbrica dismessa insieme col vicesceriffo della sua contea. 

Farà il possibile per salvare gli ignari giocatori e per scovare i responsabili di quell'orrore ricorrente.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita27 gen 2020
ISBN9788833664255
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    Anteprima del libro

    Ten (Collana Policromia) - Ilaria Bonelli

    @heroart_indigos

    PARTE PRIMA

    «L’estinzione è la regola.

    La sopravvivenza è l’eccezione.»

    Carl Sagan

    PROLOGO

    Camminavo da molte ore, il sole era sorto da parecchio e la sua luce allungava dinanzi a me la mia ombra sulla sabbia cocente. Non avevo idea di quale fosse la destinazione, lo scopo era allontanarmi in fretta e imbattermi il prima possibile in una qualche forma di civiltà. Il Texas orientale era una zona a tratti brulla e, evidentemente, mi ci ero imbattuta in pieno.

    Ero fuggita a notte inoltrata e ancora non avevo incontrato nessuno. La stradina sterrata che percorrevo a piedi nudi pareva non avere fine. Per i primi metri avevo lasciato un’evidente traccia di sangue dietro di me, ora le mie ferite avevano smesso di sanguinare, ma non di fare male. L’effetto dell’adrenalina scemava a ogni passo.

    Credevo di avere almeno un paio di costole rotte, la spalla destra era lussata, i piedi feriti da cocci di vetro e chiodi, e la fronte pulsava ancora per via di un brutto colpo ricevuto. Non mi capacitavo di essere riuscita a fuggire e mi aspettavo in qualunque istante di risvegliarmi, come se stessi sognando tutto.

    Il cartello che segnalava, a mezzo miglio, la U.S. Highway 84, mi diede la forza di continuare e, se possibile, di accelerare il passo. Sulla strada avrei potuto essere salvata. Inciampai, sbattendo malamente il ginocchio. La pelle si lacerò e altro sangue imbrattò la terra. A malapena riuscii ad alzarmi. Avevo la gola secca e tanto bisogno di bere e di essere soccorsa. La sopravvivenza mi stava mettendo alla prova come niente prima di quell’orribile giorno.

    Una ragazzina di diciassette anni non avrebbe mai dovuto vivere tutto quell’orrore.

    Caddi una seconda volta ed ebbi bisogno di qualche minuto per riuscire ad alzarmi. La spalla mi doleva all’inverosimile e anche respirare era diventato faticoso. Il sole estivo bruciava le mie poche energie, ma la certezza che mi sarei presto imbattuta nella strada principale mi diede di nuovo la forza di riprendere a camminare: avrei raggiunto la Highway 84 a costo di strisciare. Non volevo morire così, come una cagna in mezzo al deserto del Texas.

    I primi rumori della Highway 84 mi fecero correre per raggiungerla, lasciandomi alle spalle la stradina sterrata sulla quale avevo sanguinato e pianto. L’asfalto sotto i piedi fu una sorta di vittoria, la ghiaia mi aveva ferita e sfiancata. Raggiunsi finalmente le corsie trafficate e crollai sul ciglio della strada, oramai esausta. La caduta mi fece tossire sangue e temetti di essermi conficcata una costola in un polmone perché l’aria si fece quasi solida, difficile da respirare.

    Con gli occhi velati vidi una vettura ferma e un uomo che scendeva in tutta fretta. Dopo di lui altri si fermarono. Le mie orecchie fischiavano e non sentivo che cosa stavano dicendo, ma vedevo le labbra di tutti muoversi concitate. Un uomo prese il cellulare e immaginai che componesse il numero delle emergenze.

    In quel momento, in cui mi sentivo quasi al sicuro, la mia mente vacillò e persi conoscenza per brevi intervalli, per poi riprendermi e restare vigile per altri pochi minuti.

    Qualcuno provò a tirarmi in piedi, ma ero oramai un peso morto.

    «L’ambulanza sta arrivando» annunciò una donna con fare materno.

    Se avessi avuto una madre così, forse non sarei scappata di casa.

    Avrei voluto chiedere dove mi trovassi e quale fosse la città più vicina, ma non ne avevo la forza. Svenni ancora e qualcuno mi scosse affinché restassi sveglia. Un altro mi fece bere da una bottiglietta d’acqua. Non sapevo quante persone ci fossero intorno a me, forse addirittura troppe, ma tutti a modo loro mi stavano aiutando e proteggendo. Era di quello che avevo bisogno: di protezione.

    «Fate largo!»

    Una voce autoritaria fermò il chiacchiericcio.

    «Vicesceriffo!» disse qualcuno.

    Dopo di lui arrivarono i paramedici e mi caricarono su un lettino dell’ambulanza agganciandomi con delle fasce. Mi diedero una maschera per l’ossigeno e respirare fu di nuovo quasi semplice, anche se il dolore al petto mi tormentava a ogni minimo movimento. Mi sembrava impossibile poter tornare a stare bene.

    «Come si chiama?»

    Mentre uno dei paramedici si assicurava che le cinghie fossero ben chiuse, l’altro era chino su di me.

    Non riuscivo a metterlo a fuoco e, per qualche strano motivo, mi pareva di estrema importanza doverlo fare. Non vedevo di che colore fossero i suoi occhi e probabilmente non avrei nemmeno saputo dire se fosse bianco o nero.

    Collassai e il mio corpo fu scosso da violenti tremiti, il dolore smise di tormentarmi e credetti di morire. Quale altra sensazione avrebbe potuto farmi ciò?

    Riaprii gli occhi quando oramai ero stata caricata in ambulanza. Uno dei due paramedici era al mio fianco, l’altro al posto di guida, probabilmente.

    «Come ti chiami?» mi fu di nuovo chiesto.

    Non ero certa che fosse lo stesso di prima.

    Con la mascherina sulla bocca provai fastidio, ma non potevo toglierla, altrimenti mi sarebbe mancata l’aria. L’infermiere poteva sopravvivere senza conoscere il mio nome, anche se supponevo che fosse importante. Non riuscivo a dirglielo, non riuscivo a dire niente. Per lo meno qualcuno mi aveva dato da bere e la mia gola era meno secca. Per quante miglia avevo camminato? Non sapevo nemmeno da dove fossi fuggita, la sola certezza che avevo adesso era che sarei stata meglio, mi avrebbero curata. Non c’era niente di più importante, dovevo solo resistere fino all’ospedale. Se mi fossi addormentata forse non avrei mai più riaperto gli occhi.

    «Cerca di restare sveglia» disse il paramedico.

    Sentivo appena il suono delle sirene, l’ambulanza stava correndo per raggiungere l’ospedale il più in fretta possibile. Sarebbe bastato? Mi auguravo proprio di sì.

    «Non manca ancora molto» disse il paramedico.

    Cercai di concentrarmi sulla sua figura, per tenere la mente operativa. Provai fastidio nel rendermi conto di non essere in grado di immagazzinare nessuna informazione.

    Se non altro non fu una bugia. L’ambulanza rallentò la folle corsa e dal finestrino vidi buio perché stavamo entrando lentamente nell’ingresso dell’ospedale. Quando le porte della vettura si aprirono, almeno quattro persone vennero ad affacciarsi. Di nuovo smisi di sentire e fui trattata come una qualunque vittima, trascinata sul lettino e circondata in fretta dal personale medico dell’ospedale.

    Una volta fuori dalla sala operatoria e finito l’effetto dell’anestetico, ripresi conoscenza in una spoglia stanza con un uomo accanto, seduto scomposto su una poltrona. Mi schiarii la voce per attirare la sua attenzione.

    Alzò in fretta lo sguardo e la rivista che aveva tenuto in mano gli cadde a terra. Fu bello riuscire a cogliere tutti quei dettagli: mi sentivo mentalmente più stabile, più me stessa, anche se ogni osso gridava di dolore. Anche solamente pensare di tirarmi su mi creò sofferenza.

    «Dove mi trovo?» riuscii a dire. Stentai a riconoscere la mia voce: era innaturalmente roca.

    «Si trova al Regional Medical Center di Palestine, nella contea di Anderson» spiegò.

    Feci cenno di sì. Avevo lasciato la Louisiana solamente il giorno prima, in auto. Con Axel.

    Ripensare a lui mi fece scoppiare a piangere, uno di quei pianti convulsi dove le lacrime sgorgano senza né freno né ritegno. Il dolore fisico si mescolò al resto e alcuni macchinari collegati al mio corpo cominciarono a suonare. Un infermiere accorse e dopo il primo ne vidi un altro. Iniettarono qualcosa nel mio braccio ordinandomi di stare calma.

    Respirai con fatica, però mi calmai, la mente all’improvviso annebbiata. Di nuovo.

    Forse era questa la cura, il rimedio per stare meglio.

    «Stia attento a cosa dice, vicesceriffo Montague» sbottò uno dei due in camice. «È ancora molto fragile.»

    Parlavano di me come se non fossi presente.

    Quando i due se ne andarono, guardai il vicesceriffo, augurandomi di riuscire a ricordare il suo nome.

    «Mi dispiace molto, non volevo crearle alcun fastidio» si scusò.

    Mi sforzai di guardarlo davvero, di capire, di mettermi in testa tutto quello che lo riguardava. Anche se era seduto, probabilmente raggiungeva il metro e ottanta di altezza; aveva i capelli brizzolati ma non era vecchio, appena quarant’anni. Gli occhi erano chiari, come non se ne vedevano molti negli Stati Uniti meridionali, la bocca carnosa. Indossava una divisa da vicesceriffo non più molto linda. Mi venne da domandarmi da quanto tempo mi trovassi in quella stanza. Era importante, troppo per tacere.

    «Da quanto sono qui?»

    Non esitò a rispondermi. «Da ieri verso mezzogiorno.» Guardò l’orologio che portava al polso. «Adesso sono le tre e mezzo del pomeriggio.»

    Annuii; perché avevo capito, non perché ero contenta. Alzai lentamente le mani davanti al volto, scoprendole entrambe ferite. Sulla sinistra avevo dei punti di sutura. Non ricordavo nemmeno di essermi tagliata.

    «Che cosa mi hanno fatto?»

    Ero dolorante, non riuscivo a staccare nemmeno la testa dal cuscino.

    «L’hanno sottoposta a due interventi chirurgici. Ha tre costole rotte, un polmone forato, una spalla lussata e diverse ferite sul resto del corpo.»

    Sì, me ne ero accorta.

    «Guarirò?»

    Annuì. «Naturalmente.»

    Okay, quella era una buona notizia, non sufficiente a portare felicità nel mio cuore, ma meglio di niente. Avevo bisogno di credere che sarei tornata in forze, anche se non subito; non avevo fretta.

    «Non abbiamo trovato nessun documento d’identità tra i suoi vestiti» riprese l’uomo, con tatto.

    «Non darmi del lei, ho diciassette anni...» mormorai.

    Troppo giovane, decisamente, per tutto questo tormento.

    Montague restò sbalordito. Avevo già deciso che lo avrei chiamato semplicemente così.

    «Come? Diciassette?»

    Feci cenno di sì con la testa. «Mi chiamo Leena» dissi. «E ho sete...» aggiunsi. «E fame.» Non mangiavo da circa due giorni.

    «Qui c’è dell’acqua.» Venne verso di me con un bicchiere mezzo pieno. Me lo porse e lo vuotai in un sorso. «Vado a vedere se trovo qualcosa da mangiare.»

    Lo guardai allontanarsi, uscire dalla stanza e sparire nel corridoio.

    Non riuscivo a credere di essere ancora viva, ma i morti non soffrivano e io avvertivo dolore ovunque.

    «Eccomi qui, Leena.»

    Montague ritornò seguito da un’inserviente sulla sessantina che spingeva un carrello pieno di piatti. Era l’ora della merenda. Qualunque cosa sarebbe andata bene.

    Mangiai sotto lo sguardo vigile del vicesceriffo che sembrava non volersene andare.

    «E ora, Leena» riprese una volta che ebbi finito di mangiare.

    Alzai gli occhi su di lui, in attesa.

    «Raccontami che cosa è successo.»

    1

    Dieci anni dopo

    Monty, alias vicesceriffo Montague, mi guardava dall’altro lato del tavolo, tamburellando le dita intorno al boccale di birra. Aveva il segno della fede nuziale ancora visibile, benché fosse separato da qualche mese. Mi teneva sempre aggiornata sui fatti che lo riguardavano, conoscevo la sua ex moglie e i suoi due bambini, un maschio e una femmina.

    Io non ne avevo di miei, ero incapace di intrattenere relazioni con le persone. In un certo senso Monty era un’eccezione. Era ancora vicesceriffo della contea di Anderson e per tanto tempo si era preso cura di me. Anzi, lo faceva ancora. Ecco perché il suo matrimonio era finito.

    «Non riesco a capire, Leena» confessò.

    Per quanto mi riguardava non c’era niente da capire, non gli avevo chiesto di fare nulla. Se gliene avevo parlato era solamente per soddisfare l’egoistico bisogno di dirlo a qualcuno. Se fossi morta, era bene informare qualcuno a cui volevo bene. Non ci era voluto molto per capire che l’unica persona adatta ad ascoltarmi era proprio Monty.

    Scrollai le spalle dopo aver sorseggiato la birra. Eravamo nella veranda del motel in cui vivevo, a Palestine. Non me ne ero più andata da quella cittadina nel Texas orientale. Avevo rinunciato da molto a rincorrere il futile sogno di raggiungere la California. Axel era morto, perché continuare?

    «Non devi capire, Monty, volevo solamente dirtelo» chiarii.

    Era una giornata torrida, l’indomani sarebbe stato il primo giorno d’estate.

    «Non puoi andare, è troppo rischioso» insistette.

    Con una smorfia incrociai le braccia sotto il seno. «È proprio questo il punto.»

    Ne avevamo già parlato. Un anno addietro e anche due anni prima. Non era la prima volta che ci provavo, ma non mi avevano più presa. Era incredibile che mi sforzassi così tanto per ricadere vittima di quell’orrore, ma mi ero preparata e per quell’anno avevo un buon presentimento. Certo, forse sarei morta. In tal caso Monty avrebbe avuto ragione, ma non gli sarebbe servito a niente.

    «Mi sto allenando da anni, sono pronta» lo rassicurai.

    «Certo, fai boxe e arti marziali, ma non sei davvero pronta ad affrontare di nuovo quell’inferno, dammi retta.»

    Tirai su col naso. Sì, facevo boxe da anni, arti marziali miste, crossfit e kendo; ero un’atleta completa, sapevo combattere e correre. Senza contare che avevo integrato tutto quell’allenamento con la meno raffinata rissa da strada. Le arti marziali insegnavano a onorare l’avversario, che vincesse oppure no, ma dove sarei andata non c’era spazio per l’onore ma solo per la brutalità e il sangue.

    «Tu non sai com’era» sbottai. Si stava comportando come un padre iperprotettivo, ma non era di quello che avevo bisogno. Affatto. «Io ci sono già stata e...»

    Mi interruppe bruscamente: «Infatti! Cazzo, Leena.» Si alzò in piedi e si passò una mano tra i capelli brizzolati. Era ancora tale e quale a quando lo avevo conosciuto, sembrava che il tempo non fosse trascorso per lui, anche se aveva passato i cinquant’anni. «L’hai scampata per un soffio, l’altra volta. Devo forse ricordarti come eri messa quando sei arrivata all’ospedale?»

    No, non doveva farlo.

    «Non c’è notte che non abbia lo stesso incubo» dichiarai, fredda.

    Avevo smesso di prendere psicofarmaci e di vedere lo psicologo che per anni mi aveva tenuta in cura.

    Palestine era famosa per l’ospedale psichiatrico e per la gente che ci lavorava: erano tutti molto professionali. Dopo la terribile esperienza che avevo vissuto a soli diciassette anni, era stato essenziale per la mia salute mentale essere seguita da qualche terapeuta. Faceva parte del mio passato e non ne provavo vergogna.

    «Allora perché vuoi tornare a tutti i costi?»

    Monty mi guardava dal suo metro e ottanta di altezza. Io non ero bassa come donna, ma lo ero più di lui. Per di più ero seduta.

    «Devo mettere fine a quell’inferno.»

    Negli anni avevo imparato a essere fredda e cinica, ma mai come in quel momento. Non avevo più molto tempo: il giorno era giunto, che Monty lo volesse oppure no.

    «Perché tu?»

    Sul punto di dire che il dipartimento dello sceriffo non aveva fatto un cazzo, mi fermai. Monty aveva tentato, per molto tempo. L’unico risultato era una pila di fascicoli di denunce di sparizione segnalate nella contea di Anderson e in quelle circostanti. Ogni anno scomparivano delle persone lo stesso merdosissimo giorno.

    L’ultimo giorno di primavera.

    «Devo farlo, non capisci?» Accantonai la rabbia, conservandola perché quella notte mi sarebbe servita tutta. «Ogni anno spariscono delle persone innocenti, io sono l’unica che sa cosa succede e quindi sono l’unica che possa fermare tutto questo.» Ero inamovibile.

    «Sei innocente anche tu» commentò.

    Esitai. Ero stata una vittima, fortunata a modo mio. Ero riuscita a sopravvivere, ero scappata, ma le ricerche non avevano dato frutti e ogni anno la storia si ripeteva.

    «Sì, ma domani non lo sarò più.»

    O sarò un’assassina o sarò morta. In entrambi i casi, andrà bene.

    «È più probabile che sarai un cadavere» sottolineò.

    Di fatto, delle persone scomparse non si erano ritrovati i cadaveri, tranne qualcuno. Pertanto la polizia si ostinava a trattare quei casi come sparizioni e non come omicidi. Io sapevo che erano tutti morti perché avevo vissuto sulla mia pelle l’orrore, lo avevo visto coi miei occhi. Dopo di me nessuno era più riuscito a scappare. Nessuno era sopravvissuto, ma ero portata a credere che, se ce l’avevo fatta una volta, ce l’avrei fatta anche una seconda. Non ero più una diciassettenne fuggita dalla famiglia affidataria col fidanzatino delle superiori, ero una donna e avevo impiegato gli ultimi dieci anni della mia vita a prepararmi per riaffrontare tutto quello.

    Sospirai.

    «Può anche darsi.»

    Non potevo negare la possibilità di morire. Dopotutto era meglio che capitasse a me che non avevo nessun affetto, nessuno a cui rendere conto.

    «Non posso permettertelo» aggiunse.

    Guardai Monty con gli occhi ridotti quasi a una fessura. «Non ti sto chiedendo il permesso. Devo farlo perché è la cosa giusta» ribattei. «Non ti ho nemmeno chiesto di venire con me, per quale cazzo di motivo sei così intrattabile?»

    «Intrattabile? Io, sul serio?» Si passò una mano tra i capelli. «Cristo santo, non ti rendi conto di quello che vuoi fare?»

    Mi alzai in piedi con estrema lentezza. «Certo, ho intenzione di porre fine a questo incubo. Nessuno deve più incappare in ciò che ho vissuto io, non capisci? Sono l’unica che sa che cosa succede, sono l’unica che può fare qualcosa» ribadii. Speravo solo che quella ripetizione servisse.

    Contò fino a dieci, o almeno quella fu la mia impressione. «È un gioco sadico, come puoi sperare di uscirne viva?»

    Tutto quello che il vicesceriffo sapeva glielo avevo raccontato io. Mi ci erano volute parecchie sedute psichiatriche per riuscire a parlarne. Un gioco sadico, sì, io stessa lo definivo così perché era esattamente quello.

    Dieci anni prima ero stata rapita insieme ad Axel, e ci eravamo risvegliati in una gigantesca struttura abbandonata nel mezzo del nulla insieme ad altre persone che non conoscevamo e dei killer che si erano divertiti a farci la pelle. Le torture le avevo rimosse, mi era servito per mantenere una certa dose di sanità mentale. Erano morti tutti, quella notte, eccetto me. Non mi spiegavo ancora come fossi riuscita a scappare, ma di certo un motivo c’era. Ecco perché dovevo tornare su quella strada, la U.S. Highway 287, e sperare di essere presa di nuovo. Capitava a caso, potevano prendere chiunque, difatti era il terzo anno che andavo in quel posto nella speranza di essere catturata. Assurdo, eh?

    «Sono pronta, Monty» dichiarai con lucidità. «Non posso continuare a vivere con la consapevolezza di quello che succede ogni anno, proprio in questo fottuto giorno. Io posso fare la differenza.» Di questo ero più che sicura.

    Mi allontanai dal tavolo. Dovevo schiarirmi le idee.

    Succedeva sempre di sera, e avevo ancora qualche ora per sistemare gli ultimi particolari e rendermi appetibile.

    «La polizia...» incominciò.

    Non gli lasciai il tempo di proseguire. «Fanculo la polizia! Che cosa ha fatto la polizia in questi dieci anni? Se non fosse stato per me, le sparizioni non sarebbero nemmeno state collegate tra loro!»

    Quel merito era mio. Dopo la mia testimonianza, gli sbirri locali avevano cominciato a collegare le saltuarie sparizioni con quelle altrettanto inspiegabili delle contee vicine, e solo allora erano arrivati a capirne la potenziale causa. Dopo anni il caso non era ancora chiuso, ma chiunque fossero gli organizzatori e chiunque fossero i sadici killer che prendevano parte al gioco, la polizia non poteva fare nulla. Non aveva prove. Tranne me.

    Io ero una prova. Mi avevano analizzata a fondo, ma c’era ancora chi non credeva alle mie parole, spiegando i miei traumi fisici con una caduta o con chissà quale altra stronzata. Avevo smesso di combattere per vie burocratiche perché era un vicolo cieco. Mi restava solo la brutale realtà.

    «Lo so che sei delusa, Leena, lo sono anche io» continuò Monty.

    Per qualche strano motivo mi aveva presa a cuore, forse perché nessun altro lo aveva fatto. Monty era una sorta di fratello maggiore protettivo. Comprendevo la sua titubanza, ma non potevo permettere che mi fermasse. Avevo uno scopo, qualcosa che non potevo assolutamente rimandare.

    «So che hai fatto il possibile per trovare i responsabili.»

    Non volevo sminuire il suo lavoro al dipartimento dello sceriffo, perché Monty era un bravo vice, però nemmeno lui sapeva fare miracoli.

    «Sì, ho impiegato anni e non ho ottenuto nessun risultato. Quei figli di puttana si nascondono troppo bene, nemmeno il caseggiato dal quale sei fuggita è stato utile» mormorò.

    Sbuffai. «Certo, lo hanno incendiato.»

    Ricordavo solo di aver camminato per oltre mezza giornata, scalza e ferita, per raggiungere la strada. Non avevo memoria del luogo nel quale ero stata portata e torturata, non avrei saputo trovarlo su una cartina, ma gli indizi avevano condotto la polizia a indagare in un vecchio caseggiato di dimensioni gigantesche, che però era stato dato alle fiamme, sicuramente per cancellare le prove di quanto accaduto. Se non fossi riuscita a scappare, quell’edificio sarebbe ancora in piedi, forse. Ciononostante, per tutti gli anni successivi, l’ultimo giorno di primavera, dieci persone sparivano sempre. Si trattava di uomini d’affari o famiglie di passaggio, non aveva alcuna importanza; non avevano alcun legame tra loro, se non la terribile morte cui andavano incontro.

    «Sì, sembra impossibile arrivare a loro» convenne il vicesceriffo.

    Non sapevo chi ci fosse dietro tutto quello, pertanto erano semplicemente loro.

    «Questo è l’unico modo» affermai dopo un altro sospiro.

    Non potevo dire che la cosa mi piacesse, perché gli incubi mi tormentavano ancora dopo dieci anni e rimettere il culo in quell’incubo era

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