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Remember me when: Edizione italiana
Remember me when: Edizione italiana
Remember me when: Edizione italiana
E-book165 pagine2 ore

Remember me when: Edizione italiana

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Info su questo ebook

Cosa si fa quando il destino si abbatte per la seconda volta? Quando cancella dalla memoria una storia d’amore? O ci si arrende… o lo si sfida riaccendendo il sentimento perduto.

Il mio peggiore incubo e la tua più grande paura sono diventati realtà.
Non ti ricordi di me.
Non ti ricordi dell’incidente o delle settimane successive.
Non ti ricordi del mio letto come il tuo posto sicuro, o di quando, contro ogni previsione, ti sei innamorato di me.
Mi ricordi solo come il conoscente che incontravi prendendo il caffè alla mattina.
Tre bustine di zucchero, due dosi di panna.
Forse adesso non sarò altro che un conoscente.
Forse sarò in grado di reggere il dolore e la perdita, se significano la tua felicità.
A meno che…
A meno che tu ti ricordi di me.
LinguaItaliano
Data di uscita17 giu 2022
ISBN9791220703291
Remember me when: Edizione italiana
Autore

Brooke Blaine

Brooke Blaine is an author who loves to write sassy contemporary romance, whether in the form of comedy or suspense. She has been a book-a-holic since she learned how to read.

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    Anteprima del libro

    Remember me when - Brooke Blaine

    1

    REID

    Tre mesi, due settimane e circa – giocherellai con il cinturino del mio orologio mentre leggevo l’ora – due ore. Non era mia intenzione tenere traccia del tempo passato dal mio risveglio dopo l’intervento, ma a quanto pareva non riuscivo a smettere di contare i giorni dal momento in cui la mia vita era cambiata.

    O piuttosto da quando ero diventato consapevole che la mia intera vita era cambiata.

    «Reid? Hai sentito quello che ti ho detto?»

    Sbattei le palpebre e guardai mia madre, che mi ispezionava diffidente per assicurarsi che non stessi crollando.

    Almeno dall’esterno non sarebbe riuscita a capire che qualcosa non andava.

    Provai con un sorriso confortante. «Scusami, dicevi?»

    «Dicevo: sei sicuro che non posso portarti, domani? Al Music Junction.»

    Scuotendo la testa, sorseggiai il caffè. «No, non è tanto lontano dal mio appartamento. Vado a piedi.»

    «Ma sono circa tre chilometri. E sarà così afoso.»

    «Non è un problema.»

    Le sfuggì un sospiro dalle labbra mentre tamburellava le dita sulla tazza, e capii che cercava di trattenersi dal dire qualcosa. Lo speravo. Avevo già i nervi a pezzi dall’intenso esame a cui mi aveva sottoposto domenica a colazione, e sarebbe bastato poco per farmi sbroccare. Il problema era che la conoscevo fin troppo bene. Moriva dalla voglia di dire qualcos’altro, di convincermi che mi stavo impuntando e avrei dovuto fare invece ciò che lei reputava meglio.

    Ovviamente, un momento dopo cedette. «Non capisco proprio perché non lasci che ti diamo un passaggio io o tuo padre quando andiamo al lavoro. Non sarebbe affatto un disturbo.»

    «Perché non è necessario, e ho due gambe che sembrano funzionare alla perfezione.»

    Lei aggrottò ancora di più la fronte. «Reid… so che non sei pronto a guidare di nuovo, quindi vorrei che ci permettessi di aiutarti. Onestamente, mi sentirei meglio se mi lasciassi…»

    «Mamma,» la interruppi dando un colpo al tavolo con il palmo, il tono più acuto che nelle intenzioni, facendola sussultare. Mi sfregai la fronte tenendo a bada l’irritazione, e quando ripresi a parlare mi assicurai di usare un tono più morbido. «Ho tutto sotto controllo.»

    «Certamente. Certo che ce l’hai.» Si morsicò il labbro, e le tremavano le mani quando alzò la tazza scheggiata che mia sorella minore, Anna, e io le avevamo regalato più di un decennio prima. Alla mamma migliore del mondo. E lo era. Sul serio. Era stata una santa durante le infinite settimane della mia convalescenza, mi aveva fatto risistemare nel mio appartamento, trovato un lavoro estivo…

    Sospirando, allungai un braccio verso di lei, che posò la mano sulla mia dopo aver abbassato la tazza. «Mi dispiace. Non volevo sbottare così. Ma sono pronto a tornare alla normalità.»

    «Lo so.» Mi diede una stretta e si asciugò l’angolo dell’occhio. «Mi preoccupo per il mio bambino, tutto qua, e questo non cambierà mai. Quando sarai genitore, capirai.»

    «Non devi preoccuparti per me. Sto bene.»

    Un sorriso le arricciò le labbra e per un momento sembrò soddisfatta, finché non guardò il piatto di portata in mezzo a noi. «Oddio. O io ho fatto troppi pancake, oppure tu non mangi abbastanza.»

    «Ne ho presi in abbondanza. Sono sicuro che li finiranno papà o Anna quando tornano a casa.»

    «Hai ragione,» rispose alzandosi e togliendo dal tavolo i nostri piatti vuoti. «Vieni con noi in chiesa stamattina?»

    Mi pulii la bocca e mi alzai per aiutarla. «No.» La risposta era sempre no. «Grazie per la colazione.»

    Il sorriso speranzoso di mamma svanì. Posò i piatti prima di girare intorno al tavolo per raggiungermi.

    «Ti voglio bene,» disse afferrandomi le braccia. «E mi dispiace se a volte sembro opprimente. Mi prometti che me lo dirai, se cominci a sentirti strano o se hai dolore da qualche parte?»

    Le rivolsi un sorrisetto. «Certo,» mentii. Le avevo causato preoccupazioni più che sufficienti per una vita intera, e ne vedevo le prove nelle occhiaie che cercava di coprire con il trucco e nelle rughe profonde in mezzo alle sopracciglia, che in mia presenza sembravano permanenti.

    Alzò una mano su un lato del mio viso e mi passò il pollice sulla guancia. «Sei il mio cuore, Reid. Non so cos’avrei fatto se ti avessimo perso.»

    Il dolore nella sua voce mi fece provare non poco senso di colpa per aver perso la pazienza. Di recente mi era capitato spesso. Lo psicologo che vedevo ogni settimana diceva che era del tutto normale provare disagio dopo un incidente così traumatico, ma che non era una scusante per staccare la testa a morsi alle persone che tenevano a me. Non è che mamma avesse la colpa di quanto successo.

    Non è neanche colpa tua, cercò di convincermi la vocina in fondo alla mia mente, ma ignorai quel pensiero. Mamma, intanto, si alzò in punta di piedi per baciarmi sulla guancia.

    «Ti porto a casa mentre vado a messa.»

    «Grazie,» le risposi per evitare discussioni, dato che da casa loro alla mia la camminata sarebbe stata lunga, per non parlare del fatto che pioveva.

    Mentre finivamo di sgombrare la tavola, la porta d’ingresso si aprì e Anna corse dentro, con mio padre che intanto scrollava l’ombrello sul portico. Non appena lei mi vide, però, si fermò di colpo.

    «Oh. Ciao, Reid.» Il suo evidente disagio fu una pugnalata nelle viscere, e anche se lo detestavo, capii perché si sentiva incerta quando c’ero io. Tra tutti, Anna sembrava quella colpita più duramente dagli avvenimenti. Mi avevano detto che al mio risveglio dopo l’incidente non avevo avuto idea di chi fosse. Che in qualche modo il mio ricordo di lei era tornato ai tempi in cui era una bambina e non avevo riconosciuto l’adolescente che ormai era. Ma ovviamente non me lo ricordavo, proprio come non ricordavo l’incidente o qualsiasi cosa dei mesi successivi. Come potevo chiedere scusa per quello a cui non ero stato presente? Però Anna e io in passato eravamo uniti nonostante i dieci anni di differenza, e odiavo averla ferita, odiavo la sua esitazione in mia presenza, come se si aspettasse che mi dimenticassi di nuovo di lei.

    «Ehi, Banana,» dissi usando il suo nomignolo per accoglierla con calore, come se non ci fosse tensione nell’aria. «Dove sei stata?»

    «Ehm… Da Emma.»

    «Sì? Avete lanciato carta igienica su qualche casa?»

    «Reid, non dare idee a tua sorella,» gridò mamma dalla cucina.

    Feci un sospiro esagerato. «Va bene.» Poi abbassai la voce. «Sei andata di nascosto da qualche ragazzo per giocare al dottore?»

    «Rispondi, intanto io vado a prendere il fucile,» la avvertì papà tornando nella stanza e dando un morso al suo pancake arrotolato.

    Quello le provocò un mezzo sorriso. «No. Siamo andate al luna park.»

    «Ah, sì?» Sogghignai. «Sei andata sullo Zipper fino a vomitare, come l’ultima volta?»

    Anna spalancò la bocca e si portò le mani sui fianchi, e quel tipico atteggiamento adolescenziale le fece dimenticare la riservatezza che di recente era usuale con me. «Niente vomito. Ho diciassette anni, direi che ormai sono abbastanza matura da non strafogarmi di zucchero filato prima di salirci.» Incurvò le labbra. «Ma ci siamo salite, tipo, otto volte di fila.»

    «Argh, ho già la nausea,» dissi sfregandomi la pancia, e finalmente le spuntò il sorriso.

    «Anna.» Mio padre indicò con la testa la sua camera. «Usciamo tra dieci minuti.»

    «Sì, okay, arrivo,» rispose trascinandosi di là per cambiarsi, ma si fermò, corse indietro nella mia direzione e mi buttò energicamente le braccia al collo, sorprendendomi.

    Chiusi gli occhi e la strinsi altrettanto forte. Ti voglio bene, Banana, pensai.

    «Non vieni con noi?» chiese mio padre mentre Anna spariva nella sua stanza.

    Scossi la testa. «Ho delle cose da fare in casa.»

    Lui sollevò un sopracciglio ma non cercò di smascherare la mia bugia. Onestamente, sapevamo entrambi che a casa mia non c’era niente che valesse la pena di fare. Era giusto un rifugio dalle occhiate curiose e dalle domande, nonché dal senso di colpa. Andavo da loro a colazione la domenica solo per placare mamma, che mi avrebbe suonato il clacson sotto casa fino a farmi scendere se avessi cercato di rifiutarmi.

    Venti minuti dopo ero di nuovo nell’appartamento che i miei mi avevano arredato prima ancora che ci mettessi piede dentro, l’estate precedente. Adesso, passato un anno, non mi sentivo molto diverso da allora.

    Non era stata mia intenzione tornare a Floyd Hills o sfruttare la mia abilitazione all’insegnamento. Per me era stata una sorta di piano B, da accantonare in un cassetto. E invece eccomi lì, a fine giugno dell’anno prima. Al verde dopo aver cercato di guadagnarmi da vivere viaggiando da una città all’altra, suonando classici del jazz ad avventori di ristoranti che non conoscevano la differenza tra Thelonious Monk e Bill Evans.

    Crescendo, avevo sempre creduto che viaggiare suonando il piano per mestiere mi avrebbe reso felice. Era stato il mio sogno per tanto tempo, ma con mia sorpresa avevo dovuto fare i conti con la realtà. Avevo detestato gli hotel da due soldi, gli unici che potessi permettermi. Le infinite incitazioni a suonare Piano Man di Billy Joel. Odiavo il fatto che persino con accanto Natasha, la mia ragazza di allora, non mi ero mai sentito così solo in vita mia. L’unica cosa che davvero avevo amato in tutto ciò era la musica. Nella manciata di ore che suonavo ogni sera, fuggivo dalla triste realtà che ancora non riuscivo a credere fosse la mia vita.

    Dio sa se non avevo cercato di far funzionare le cose, però: tornare a Floyd Hills sarebbe stata un’ammissione di fallimento, e io non ero un fallimento. Ma era bastata un’occhiata perché i miei genitori, venuti a Nashville ad assistere al mio spettacolo, smascherassero la mia messinscena. La promessa di aiutarmi a rimettermi in sesto con un lavoro stabile, una casa, una macchina… mi aveva tentato troppo per poterla rifiutare.

    Il che mi aveva portato al punto in cui mi trovavo adesso. Messo persino peggio di prima, perché, ehi, aggiungiamoci una ragazza che non vuole restarti accanto, un incidente di macchina con qualche osso rotto e un trauma al cervello… e poi, quando il poveretto sembra guarito, fottiamolo ben bene e sottoponiamolo a un altro intervento. Oh, e se possiamo incasinargli la memoria in modo che non sappia cosa è reale e cosa no, facciamo pure quello.

    Mi passai una mano sul viso mentre calciavo via le scarpe e gettavo le chiavi sul bancone. La bottiglia di Crown in fondo all’armadietto mi chiamava, ma l’ultima cosa che mi serviva era sostenermi con il whisky. Invece andai alla finestra del salotto e chiusi le tende per bloccare il sole che cercava di sbirciare tra le nubi cariche di pioggia.

    La spossatezza che mi travolse non appena affondai sul divano mi portò a chiudere gli occhi anche se era solo metà mattina. Ma poi, come ogni volta che l’oscurità mi coglieva, la mente si svegliò con un grido. Persino quando il mio corpo era stanco morto, il mio inconscio vorticava alla disperata ricerca di risposte. Conoscevo tutti i pezzi del puzzle, quelli forniti da medici e famigliari, ma nessuno di essi mi sembrava reale. L’ultima cosa che ricordavo prima del risveglio in un letto d’ospedale era apparentemente successa mesi prima. Il giorno del mio incidente. Quella mattina mi ero svegliato tardi e non avevo neanche avuto tempo di farmi la barba perché dovevo scegliere tra quello e il caffè, e lavorare con i ragazzi richiedeva una botta di caffeina. Ma… era l’ultima cosa che ricordavo: aver lasciato

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