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O.Byron
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E-book324 pagine4 ore

O.Byron

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Info su questo ebook

Oliver – maggiordomo a riposo – si trova spinto dalle circostanze a prendere le difese di una ragazzina in pericolo e, inseguendone gli aggressori, entra in un mondo sconosciuto e fuori dal tempo: Tír na nóg. I due umani, loro malgrado, si vedranno coinvolti in una faida tra creature magiche – da una parte Fate, Gnomi e Folletti buoni e dall’altra gli Sluagh e i Goblin di re Mourd, bramoso di neonati umani per creare un esercito invincibile – e vivranno avventure straordinarie in compagnia di personaggi improbabili e ambigui, fino allo scontro finale per salvare il loro mondo e anche il nostro.
LinguaItaliano
Data di uscita29 set 2021
ISBN9788833468860
O.Byron

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    Anteprima del libro

    O.Byron - Fosco Baiardi

    Capitolo I

    Un addio amaro

    Il fragore dell’anta del cancello che si richiudeva fu come uno schiaffo in faccia. La chiave che girava stridendo nella serratura era paragonabile a una pugnalata al cuore per l’afflitto Oliver Byron. Il sorriso indifferente dell’agente immobiliare gli era sembrato beffardo e ancor di più il saluto noncurante con cui lo aveva lasciato solo di fronte a quella che per quasi trent’anni era stata la sua casa. Non c’era più nessuno degli altri dipendenti; Oliver aveva diretto con zelo la magione per tutti quegli anni e, come un capitano che abbandona per ultimo la propria nave, si era sentito in dovere di fare lo stesso.

    Per tutto quel tempo si era occupato della dimora in stile vittoriano, dapprima come cameriere tuttofare e poi dirigendo a bacchetta la servitù e soddisfacendo tutti i bisogni del suo padrone, il signor Marmaduke Lantham. Costui era l’ultimo discendente dell’antica e potente casata dei Lantham, arricchitasi grazie a speculazioni non proprio pulite durante la seconda metà del diciannovesimo secolo e si vociferava che avesse sfruttato le frange più deboli della popolazione, come i bambini e le donne.

    Il capostipite, Mortimer Lantham, era descritto come un tipo cinico, arrogante e senza scrupoli, un’anima nera che aveva fondato la sua ricchezza sulle sofferenze degli altri. Anche il caso delle sue due mogli, scomparse anzitempo in modo poco chiaro, aveva fatto mormorare a lungo la società benpensante dell’epoca. Grazie ai copiosi guadagni, Mortimer aveva fatto erigere una dimora sontuosa, creata apposta per ostentare la sua magnificenza e impressionare chiunque avesse voluto sfidare l’autorità del bieco personaggio. A tale proposito servivano a perfezione le mura dipinte con colori scuri, le numerose torri e guglie che ornavano il perimetro esterno, guarnite da inquietanti statue mostruose e demoniache. Siepi selvagge e spinose cingevano il parco, avviluppate alla recinzione di ferro nero. La proprietà ebbe subito una fama sinistra: nessuno passava di là senza esserne intimorito. I ladri si tenevano alla larga, nonostante le ricchezze che vi erano custodite. Qualcuno parlava addirittura di un patto col maligno e si sussurrava che orge e uccisioni vi fossero compiute ogni notte.

    Ma si sa che più una diceria è bizzarra e malvagia, più si amplifica passando di bocca in bocca. Così, nel 1881, quando Mortimer morì senza essere riuscito a ingannare il demonio, le voci si affievolirono e si spensero in breve tempo, poiché la gente si dedicò ad altre cose più interessanti e concrete. Il nipote del torvo patriarca fu di carattere più mansueto, ma anche più debole: egli apprezzava le gioie della vita, il cibo, l’alcool, le donne e il gioco. Restaurò la casa, dandole un aspetto più rassicurante: eliminò le statue lugubri e curò la vegetazione del parco; la aprì agli amici e vi organizzò feste e balli, cancellando del tutto ogni dubbio sull’onestà dei Lantham.

    I padroni che si avvicendarono negli anni si distinsero sempre per una spiccata tendenza a esibire la propria grandezza, il che portò le casse della famiglia a svuotarsi sempre più, finché l’ultimo discendente non si ritrovò con una casa che assorbiva più denaro di quanto egli ne possedesse o ne potesse guadagnare. Piano piano Marmaduke Lantham fu costretto a tagliare le spese, licenziò il giardiniere, la cameriera, il cuoco e, infine, dovette mettere in vendita l’abitazione per trasferirsi in un piccolo e modesto appartamento in periferia. Non avrebbe più avuto servitori o aiutanti; sarebbe vissuto da solo fino alla morte, visto che non aveva contratto alcun matrimonio e non era più un giovanotto.

    Oliver Byron sospirò malinconico. Osservava la veranda da cui gli piaceva spaziare con lo sguardo sul giardino, i tetti fitti di comignoli e abbaini, il cancello imponente… Non si sarebbe più riaperto, o meglio, lui non lo avrebbe più visto riaprirsi. Sentiva già la mancanza di Lantham Manor e si chiedeva cosa potesse fare un uomo non più giovane come lui, che non aveva mai fatto altro che quel lavoro. La somma che Marmaduke gli aveva lasciato come buonuscita gli avrebbe permesso di vivere con dignità la sua vecchiaia, ma come avrebbe impiegato il suo tempo? Lui che era abituato a darsi da fare dal mattino fino a sera tarda e, talvolta, persino nel cuore della notte, ogni volta che il padrone aveva avuto bisogno, come si sarebbe trovato senza dover fare nulla?

    Contemplò un’ultima volta il portico sulla sinistra della casa: era sovrastato da una torre con una cupola tondeggiante, che ricordava uno di quei minareti turchi di cui favoleggiava sempre un lontano cugino di Marmaduke, quando passava a trovarlo in vista di uno dei suoi viaggi in oriente, allo scopo di battere cassa. Il dondolo sotto il porticato cigolò spinto da un alito di vento, come se anche lui si lamentasse di essere stato abbandonato.

    Sul retro c’era la stanza che era stata il suo rifugio per trent’anni. Di quella vita gli era rimasta solo una piccola valigia di pelle con dentro poche cose che per lui erano molto preziose: un orologio da taschino appartenuto a suo nonno, un grazioso carillon con un cavallino rampante che girava su se stesso, dono dei suoi genitori quando era bambino, e un portafotografie di legno, a forma di libro, con due cornici nelle quali erano inserite le foto di una fanciulla e di una bambina appena nata.

    Oliver si ravviò una ciocca di capelli sale e pepe che gli era scivolata sulla fronte. Era tempo di andare, indugiare lo avrebbe solo fatto soffrire di più. Si calcò il cilindro sulla testa, afferrò le maniglie della borsa e si incamminò. Si appoggiava al bastone animato regalatogli dal vecchio amico in premio al lungo servizio: era di pregiata fattura, il nero dell’asta contrapposto al pomo d’avorio a forma di testa di tigre, ed era un’arma di difesa notevole una volta snudata la lama di mezzo metro celata al suo interno. Oliver indossava ancora i guanti bianchi, era così abituato che anche quella mattina gli era venuto spontaneo infilarli con un gesto meccanico. Dopotutto era vestito con la solita livrea nera di servizio, poiché non aveva altri abiti. La sua era stata una vita dedita al lavoro e aveva avuto ben pochi contatti con l’esterno.

    Marmaduke era stato un padrone buono, ma parsimonioso e dalle idee conservatrici, cosa che aveva influenzato la condotta di tutti i servitori della casa. Nella magione erano presenti poche modernità: una radio nella camera del padrone, un grammofono e un vetusto telefono a muro nel salotto. Un unico televisore era presente nella cucina, dove i servitori lo guardavano insieme nei momenti di pausa. A Oliver piacevano in particolare i documentari e i notiziari, ma rimaneva scioccato ogni qualvolta sentiva a quali nefandezze gli esseri umani potessero spingersi in nome dell’avidità e del potere. Avevano anche un videoregistratore e, quantunque non avessero affittato nulla per anni, Oliver era tuttora in possesso di una tessera fedeltà di una videoteca. Insomma, Lantham Mansion era un’oasi anacronistica in mezzo a una città moderna.

    Per questo Oliver si sentiva un pesce fuor d’acqua a passeggiare lungo i marciapiedi, sotto lo sguardo di giovinastri che non esitavano a prenderlo in giro per l’abbigliamento fuori moda e a lanciargli fischi ironici che lui ignorava con fiero stoicismo. Erano molto più sgradevoli i sibili e i rumori acuti emessi da quelle diavolerie che Oscar, il giardiniere, chiamava automobili.

    Dove andremo a finire? pensava l’uomo. Adocchiava ed evitava meticolosamente i numerosi escrementi di cane, le cartacce e i mozziconi di sigarette che ricoprivano l’asfalto. Asfalto spaccato, punteggiato da pezze catramate di colore diverso, laddove non c’erano proprio buchi o voragini. Lo scheletro di una bicicletta abbandonata, priva di ruote, attirò per un attimo la sua attenzione. Un cane dal pelo arruffato si avvicinò al trotto e Oliver lo scacciò agitando il bastone minaccioso anche se non lo avrebbe mai colpito davvero. Si portò d’istinto la mano sul polso destro e accarezzò due cicatrici rimarginate da tempo. Non gli dolevano più, nondimeno la morsicata subita da bambino era un ricordo ancora fresco.

    Si addentrò in un parco. La recinzione in ferro battuto e il cancello aperto gli ricordarono l’amata magione e varcare l’ingresso gli diede un senso di sollievo. La zona era più pulita e meglio tenuta, la stradina di autobloccanti rossicci si snodava attraverso aiuole ricche di fiori variopinti e alberi alti quanto palazzi; non c’erano bidoni rovesciati, parti di strada divelte o spazzatura abbandonata a se stessa.

    Un fruscio tra le fronde di un albero lo fece voltare di colpo. Non era stata una folata di vento, non ce n’era.

    Sarà uno scoiattolo. Oliver fece spallucce e continuò verso il gorgogliare canterino di una fontana. L’acqua zampillava limpida e andava a colmare una vasca marmorea di forma ellittica. L’uomo si bloccò a guardare il lieve ribollire del liquido trasparente. Lo fissò assorto, fino a raggiungere quello stato sognante in cui non ci si rende conto di ciò che succede intorno, si guarda senza vedere e la mente si svuota. Dimenticò persino la fitta al ginocchio che lo tormentava da sempre.

    Fu scosso da una risata argentina. Si guardò intorno. Non c’era nessuno.

    Me la sono sognata? si chiese. In effetti era parsa solo una eco nel suo cervello, niente di concreto.

    Si lisciò la punta dei baffi, di colpo turbato. Il parco non gli sembrava più il luogo paradisiaco che gli era parso all’entrata; ora lo inquietava. Il sole stava tramontando e le lunghe ombre gettate dagli alberi avevano contorni sinistri. Un sibilo malvagio risuonò dall’altra parte della fontana.

    Oliver strinse forte il bastone e si allontanò di gran carriera, gettando sguardi circospetti a destra e a manca. Sobbalzò quando uno stormo di uccelli neri si levò da un olmo, scuotendolo e facendone cadere molte foglie. Allungò ancora il passo, malgrado il fiato corto e le gambe che urlavano il loro disappunto.

    Che sollievo raggiungere infine il cancello e uscire! Tutta l’angoscia che lo aveva assalito lo abbandonò appena si ritrovò fuori e prese a ridacchiare. Un uomo della mia età che si fa spaventare come un bambino da qualche ombra e dal fruscio del vento.

    Dietro, nel parco, alcune manciate di foglie si rincorrevano sospinte dalla brezza che si era levata improvvisa.

    «Meglio che vada, prima che cali del tutto il buio» mormorò per riordinare le idee.

    Sua figlia! La sua piccola Elora. Da quanto non la vedeva?! Da tanto… Da quando si era dedicato anima e corpo al servizio di Marmaduke Lantham.

    Aveva scelto quel lavoro per offrire una vita dignitosa alle due persone più care della sua vita, inviando a casa la maggior parte dello stipendio. Era stata una scelta difficile, ma ponderata… tuttavia un sacrificio enorme. Sua moglie lo aveva capito e aveva accettato senza lamentarsi un rapporto a distanza con il marito, per il bene della piccola. Non altrettanto aveva fatto Elora: si era sentita trascurata nel momento in cui una bimba ha più bisogno di entrambi i genitori e, anche se con la maggiore età aveva compreso il motivo della lontananza del padre, non era riuscita a perdonarlo del tutto. Oliver lo aveva percepito nella voce distaccata e nel tono diffidente che filtravano attraverso la cornetta del telefono le poche volte che si erano sentiti in quegli anni, sempre per iniziativa della moglie, o nelle ancor meno numerose occasioni in cui era tornato nella minuscola, confortevole casetta delle sue donne.

    Ora si stava dirigendo proprio verso quella casa. Erano d’accordo che la figlia lo avrebbe ospitato fino a che non avesse trovato un’altra sistemazione. In realtà era stata l’ultima volontà della madre, Agatha, che sul letto di morte aveva cercato di comporre la frattura tra padre e figlia. Elora non aveva potuto opporsi e, visto che si sapeva già che l’uomo avrebbe dovuto lasciare il posto di lavoro, era stata obbligata a promettere che lo avrebbe accolto.

    Ecco, Oliver l’aveva rivista lì, poco più di un mese prima: una figura nera ed esile, col mento orgogliosamente sollevato e gli occhi asciutti pieni di dolore, come un fuscello, piegato dalle sferzate crudeli del vento, che cerca di resistere con stoica fierezza. Si era avvicinato per consolarla, ma lei lo aveva tenuto distante con un cenno del capo. Un saluto freddo e remoto.

    Come farò a riguadagnarmi il suo affetto? Come farò a mitigare la rabbia e la delusione che cova dentro quel cuore ferito? si chiese, la gola stretta in una morsa.

    Quasi non si accorse di essere arrivato a destinazione e vedere il suo cognome stampato vicino al campanello gli fece correre una goccia di sudore gelido lungo la schiena. Rimase col dito proteso a pochi centimetri dal pulsante, a lungo. Finché la porta non si aprì da sola e un paio di occhi celesti si posarono su di lui. Era uno sguardo neutro, non ostile come si sarebbe aspettato, eppure quello lo ferì ancor di più. Che nel cuore della figlia non ci fosse neanche un briciolo di affetto per lui?

    «Oh, sei arrivato!» esclamò seccata. «È da un po’ che è in tavola. Entra.»

    «Scusa, ho attraversato…» tentò il maggiordomo. Si bloccò quando si trovò a parlare con le spalle della ragazza che si allontanava senza aspettarlo. Benché amareggiato, Oliver non poté non osservarla con gli occhi innamorati di un padre e sentì esplodere la tenerezza per quella figlia che aveva amato da lontano. La figura filiforme, i biondi capelli lunghi e lisci, il passo deciso nelle pantofole di pelo rosa… Sorrise con indulgenza di quella creatura che si era fatta grande senza di lui e che, tuttavia, conservava ancora un lato fanciullesco. Un grembiule scozzese copriva i jeans e una blusetta pure rosa.

    Si vedeva nel piccolo appartamento il tocco gentile di una mano femminile che lo rendeva accogliente e lo faceva apparire più grande: i quadretti appesi ai muri, le tende vaporose che guarnivano le finestre, le graziose suppellettili, le piantine sui davanzali…

    Non fece in tempo a esplorare tutto l’ambiente con lo sguardo, perché la figlia lo richiamò in tono impaziente. La cena fu veloce e silenziosa. Oliver tentò più volte di imbastire un discorso, ma dovette scontrarsi col muro di gelo eretto dalla figlia.

    Così si rassegnò a entrare in silenzio nella camera che Elora gli aveva indicato subito dopo cena, lasciandola a lavare i piatti con il sottofondo del televisore acceso. La stanza che gli aveva destinato era quella dove aveva vissuto la moglie e la stessa che avevano condiviso durante i primi gioiosi tempi del loro matrimonio. Sospirò. Poco era cambiato da allora: la cassettiera a sinistra della porta d’ingresso, con lo specchio ovale, dalla cornice in legno ornata di rose scolpite; l’armadio a tre ante e i due comodini un po’ antiquati ai lati del letto matrimoniale. Unica aggiunta una poltroncina a dondolo, col cuscino a fiori che richiamava il copriletto damascato.

    Nonostante fosse abituato a coricarsi alle dieci, quella sera non gli fu facile prendere sonno. Nel suo pigiama a righe verticali, sotto le lenzuola fresche di bucato, non riusciva a chiudere occhio, ipnotizzato dagli strani giochi di luce e ombre creati dai raggi di luna che filtravano attraverso le persiane. Nel suo cervello si rincorrevano ridde di pensieri: il tempo passato – e che non sarebbe più tornato – con la moglie, la malattia che l’aveva portata via anzitempo, privandoli della vecchiaia insieme che si erano ripromessi.

    E poi il fatto che era la sua prima notte senza lavoro. Non avrebbe più rivisto il giardiniere Oscar, cordiale e disponibile, o Alvina, la graziosa e timida cameriera, e neppure Arturo, il vivace cuoco italiano che se la prendeva se qualcuno non apprezzava le sue prelibatezze e cominciava a gesticolare in maniera esagerata eppure buffa: tutti cari amici. Nondimeno erano il disprezzo celato dalla maschera impassibile della figlia e la consapevolezza che, con ogni probabilità, non avrebbe più recuperato il rapporto a ferirlo di più.

    Un movimento dietro le imposte lo distolse dai suoi pensieri che era notte inoltrata. Si domandò di cosa si trattasse, ma scacciò subito ogni strana idea dando la colpa al vento e alla sua immaginazione. Si girò sull’altro fianco e finalmente si addormentò.

    Capitolo II

    Giorni ordinari

    Per la prima volta da trent’anni a quella parte, complice il fatto di essersi addormentato a un’ora a cui non era abituato, Oliver si svegliò a mattina inoltrata. Elora non era in casa, forse era andata a lavorare e non gli aveva lasciato un biglietto o qualche indicazione su quando sarebbe tornata o su cosa avrebbe dovuto fare in sua assenza.

    Era lei stessa a occuparsi di cercargli una nuova abitazione, perché lui era un pesce fuor d’acqua in quel mondo che andava avanti alla velocità della luce. La scelta sarebbe dovuta ricadere su un appartamento piccolo, facile da tenere pulito e non troppo costoso da mantenere. Oliver avrebbe preferito restare in quella casa, la sua vecchia casa. Malgrado ciò capiva che la figlia, ormai donna forte e indipendente, non avrebbe accettato la sua presenza a lungo.

    Nel giro di pochi minuti si vestì con la sua livrea e iniziò a darsi da fare con le faccende di casa. La figlia la teneva con cura, tuttavia era inevitabile che, con il ritmo frenetico della vita moderna, non potesse arrivare a fare tutto. Era perciò naturale trovare polvere in qualche angolo sotto gli armadi, i vetri delle finestre segnati dalle gocce dell’ultimo temporale o dover scacciare qualche ragno insolente che aveva tessuto la ragnatela in un posto difficile da raggiungere. E meno male che non c’erano animali domestici, in particolare un cane da portare in giro, che sbavasse e seminasse peli dappertutto.

    Elora non rincasò per pranzare e tardò anche all’ora di cena.

    Probabilmente vuole vedermi il meno possibile rimuginò depresso Oliver.

    La figlia arrivò con due sacchi di cibo cinese, pronto per essere mangiato. Appena sentì le chiavi girare nella toppa, Oliver scattò sull’attenti e si fece trovare vicino al tavolo dritto e impettito, come sua abitudine. Lei gli lanciò un’occhiata critica e depositò gli involti sul desco apparecchiato. Un odore forte – e per l’uomo sgradevole – invase l’intera abitazione.

    Oliver si rese conto di non doversi comportare come un servitore e si mise a cenare con lei, che intanto si era cambiata. Mangiarono di nuovo in silenzio. La tensione era palpabile e nessuno dei due era sereno.

    «Hai avuto tanto da fare oggi?» tentò l’uomo, riferendosi al fatto che non si era fatta vedere.

    «Molto!» rispose lei in tono aspro; poi aggiunse, quasi per scusarsi: «Immagino che tu abbia pulito un po’ in giro.»

    «Un colpetto qui, un colpetto là. Non c’era molto da fare» minimizzò Oliver, che non voleva farla sentire in difetto. «Come hai fatto a notarlo?»

    «Il divano era più vicino al carrello-bar e da un paio di giorni volevo togliere una ragnatela dall’angolo in alto in corridoio, ma non ci arrivavo senza scaletta.»

    «Se vuoi dirmi le cose di cui hai bisogno, di giorno in giorno, io non avrò problemi a farle.»

    «Non preoccuparti Oliver, non c’è il caso. La mamma mi ha detto che hai dei problemi alle gambe, non voglio che ti affatichi per niente.»

    Il maggiordomo esitò, perplesso; cosa poteva dire davanti a una risposta così fredda, ma camuffata da un’apparente gentilezza?

    «Non sono così grave.»

    «Negli ultimi mesi mi sono occupata da sola delle faccende di casa e della mamma che era bloccata a letto» lo interruppe lei, sottolineando una volta di più le sue mancanze. «Non vedo il motivo per cui adesso dovrei demandarti i miei compiti.»

    L’ulteriore rifiuto fu una pugnalata al cuore per Oliver, eppure una parte di lui non poteva che essere felice. I suoi sacrifici erano serviti, sua figlia aveva un buon lavoro e una buona istruzione grazie agli studi compiuti e all’impegno profuso; quello, certo, non era merito suo!

    Cosa, sono pronto a scommetterci, non comune alle nuove generazioni ripensò ai giovinastri che lo avevano deriso il giorno prima.

    Gelato dall’ultima affermazione di Elora, non tentò nemmeno di aiutarla a ripulire il tavolo. Ancor più demoralizzato della sera prima, si ritirò in camera, dove, dopo una lettura distratta, si lasciò andare a un sonno pesante e privo di sogni.

    L’alba seguente Oliver non si fece cogliere impreparato. Riuscì a svegliarsi prima di Elora e corse a mettere la caffettiera sul fuoco; versò il caffè bollente in una tazza e fu pronto ad accogliere la figlia con un sorriso e l’aroma delizioso della bevanda. Tuttavia la faccia assonnata della giovane si tramutò presto in una smorfia.

    «È amarissimo!» protestò. Prese la zuccheriera e versò nel liquido scuro due cucchiaini colmi di polvere bianca.

    Stupido! A Marmaduke piaceva senza zucchero si rimproverò Oliver. Anche le vecchie abitudini e la sfortuna ci si mettevano, trasformando un gesto affettuoso in uno svarione.

    Così si susseguirono i giorni, con Oliver che si prodigava in tentativi volenterosi di fare buona impressione, frustrati per la maggior parte dalle proteste o dalle lamentele di Elora, finché un giorno lei esplose: «È inutile che continui a provare a compiacermi. Pensi di guadagnarti il mio perdono alzandoti presto e preparando la colazione e il

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