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Come un Gatto: Tutto quello che ho imparato sulla vita e sull'amore dai gatti randagi
Come un Gatto: Tutto quello che ho imparato sulla vita e sull'amore dai gatti randagi
Come un Gatto: Tutto quello che ho imparato sulla vita e sull'amore dai gatti randagi
E-book298 pagine4 ore

Come un Gatto: Tutto quello che ho imparato sulla vita e sull'amore dai gatti randagi

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Info su questo ebook

Il tema “animali” e in particolare i gatti,
hanno molta presa sul pubblico.
Il successo del film “A spasso con Bob”, che tratta della storia
di un gatto randagio e del padrone, al cinema

Quando Andrew Bloomfield, aspirante sceneggiatore, si trasferì in un bungalow in California, presto scoprì di condividere il posto con una grande colonia di gatti selvatici, del tutto disinteressati al contatto umano e lontani anni luce degli esemplari addomesticati, tutti fusa e coccole.

Ma dopo l’ennesima incursione notturna di un predatore, che sterminò una cucciolata, Bloomfield decise d’intervenire e iniziò a dare un nome e a prendersi cura di tutti quei gatti, nutrendoli e facendoli anche entrare in casa.

Attingendo alle esperienze spirituali vissute in Asia, l’autore ci accompagna in un viaggio divertente e contemplativo che ha come obiettivo salvare questi gatti…

per poi scoprire alla fine che sono stati i gatti a salvare lui, rivelandogli un mondo di significato al di là dei suoi sogni di gloria (irrealizzati) a Hollywood.

Vita da gatti randagi… un viaggio
spirituale originale e divertente
per scoprire come vivere
felicemente nel presente
LinguaItaliano
Editoremylife
Data di uscita24 ago 2017
ISBN9788863867541
Come un Gatto: Tutto quello che ho imparato sulla vita e sull'amore dai gatti randagi

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    Anteprima del libro

    Come un Gatto - Andrew Bloomfield

    1 Benvenuto a Los Angeles

    Quando avevo diciassette anni, mia madre mi chiese di accompagnarla da una sensitiva per cui tutti a Tucson, il nostro paese natale, dimostravano grande entusiasmo. Non avrei mai detto che mia madre potesse andare da una sensitiva e, per quanto ne sapevo, non lo aveva mai fatto fino a quel momento, ma per una qualche ragione si sentiva spinta a incontrare quella donna. Aspettai in anticamera, seduto su una sedia scura imbottita all’inverosimile, mentre Violet faceva la lettura a mia madre nella stanza accanto. Le vedevo parlottare tra loro ma, nonostante i miei sforzi, non riuscivo a distinguere le parole, finché Violet s’interruppe a metà frase, guardò dritto verso di me, oltre la testa di mia madre, e disse d’impulso: Sa che suo figlio andrà a Hollywood? Là troverà la sua vocazione.

    A quel punto ebbi la certezza che fosse una ciarlatana, uscii e camminai fino alla macchina per aspettare mia madre, determinato a non restare un minuto di più in casa di quell’allucinata. Hollywood! Non potevo credere che mia madre stesse pagando denaro sonante per quelle stupidaggini. Per una inesplicabile ragione avevo messo gli occhi sull’Estremo Oriente e trascorrevo ore in biblioteca a sfogliare libri fotografici sull’Himalaya. Non molto tempo dopo, infatti, mi ritrovai a vivere in Nepal, per due anni, dove trascorsi gran parte del tempo seguendo le indicazioni di una guida per pellegrini del XVII secolo e girovagando lungo i contrafforti montuosi dell’Himalaya, esplorando le rotte descritte nel libro come parte dei miei studi universitari sull’Asia. Hollywood era l’ultimo posto al mondo a cui pensavo. Invece, alla fine, fu proprio lì che approdai.

    Di ritorno dal Nepal aprii una libreria a Seattle ma lasciai perdere per lavorare per un astrologo a Los Angeles. Le cose cominciarono alla grande. La mia prima esperienza di Los Angeles avvenne all’alba, a pochi isolati dalla spiaggia di Santa Monica. Era una tranquilla e placida domenica. Mi sedetti su una panchina, a osservare i colori dell’alba che giocavano con le nuvole nel cielo. Penso proprio che mi piacerà qui, pensai. Poi, in lontananza, sentii lo stridio dei freni e il motore di un’auto spinto oltre i limiti. Vidi una piccola Toyota rossa sbucare da dietro un angolo e venire a tutta velocità verso di me, piena zeppa di uomini dallo sguardo truce e insieme disperato. Lanciate al suo inseguimento c’erano cinque auto della polizia a sirene spiegate.

    Non credevo alla mia fortuna: stavano girando un film proprio dov’ero seduto io! L’auto rossa continuava a girare in circolo inseguita dai poliziotti. Poi uno degli uomini sulla Toyota si sporse fuori dal finestrino posteriore e puntò la pistola contro la polizia. Alla vista dell’arma il conducente dell’auto di pattuglia sterzò uscendo dalla traiettoria e colpendo di striscio la macchina parcheggiata di fronte a me. Un agente dal lato passeggero saltò fuori e mi buttò a terra urlando: Stai giù, idiota! Hanno appena rapinato una banca!. Fu allora che mi si accese la lampadina. Non avevo visto né telecamere né troupe televisive, davo semplicemente per scontato che tutto a Los Angeles fosse un film. Fu la mia prima lezione che, in quella città, il velo tra realtà e finzione era molto sottile.

    La sera successiva feci la mia prima uscita su Sunset Strip. Passai accanto al vecchio Café Trocadero, un night-club di alto livello un tempo frequentato dalle più grandi star e dove nelle notti di sabato i magnati del cinema giocavano a poker puntando poste ingenti. Superai il Roxy e il Whisky a Go Go e attraversai la strada per vedere quello che un tempo era stato il jazz bar Melody Room. Superai la placca in cemento nel punto in cui River Phoenix era morto di overdose. Poi salii appena sulla collina e superai Le Dôme, il ristorante aperto da Elton John.

    Attraversai La Cienega Boulevard e mi avvicinai al Mondrian Hotel, dove un addetto alla sicurezza in smoking mi fece passare velocemente per un ingresso laterale. Fui sospinto in fretta e furia accanto alla lussuosa piscina e condotto al piano superiore, dove si teneva l’inaugurazione dello Sky Bar. All’improvviso mi trovai seduto a un tavolo di fronte a Adam Sandler, che si stava gustando una bottiglia di birra fredda, Jean-Claude Van Damme, due produttori fatti di cocaina sporchi di polvere bianca sul viso, e a due bionde esageratamente procaci che continuavano ad alzarsi la camicia fin sopra la testa, mettendo in mostra i seni nudi agl’invitati che facevano baldoria ai bordi alla piscina di sotto.

    Lasciai lo Sky Bar e m’imbucai nella porta accanto, alla House of Blues. Era piena zeppa di persone e mi ritrovai sospinto al piano di sopra e sotto una corda rossa che delimitava la zona VIP. Mi scontrai con un tizio che si rivelò Sylvester Stallone. Lui mi guardò e mi chiese: Come va? mentre ballava con sua moglie, Jennifer Flavin. Come va?! Rocky aveva appena chiesto Come va? a me? Era uno scherzo?

    La gente tendeva a scambiarmi per uno importante, e finire in scenari surreali sembrava un tema ricorrente per me. Persino Steven Spielberg. Un pomeriggio eravamo entrambi fuori da una palestra di karate a Brentwood, a pochi metri di distanza l’uno dall’altro: a quanto pareva, suo figlio stava facendo lezione in palestra, ma Steven continuava a guardare me, non lui. Io non ricambiavo lo sguardo, pensavo che fissare le celebrità fosse da maleducati. Quando alla fine lo guardai a mia volta, vidi che aveva un’espressione confusa sul volto, come se cercasse di ricordare chi fossi. Fece qualche passo verso di me e allora gli dissi: Spiacente Steven, non ci conosciamo. Sembrava sollevato.

    Dal momento che Violet l’aveva azzeccata su Hollywood, pensavo che avesse ragione anche riguardo al mio posto nel mondo del cinema. Aveva detto che in questa città avrei trovato la mia vocazione, e cos’è Hollywood se non la mecca del cinema? Purtroppo non sapevo né recitare, né fare il regista, né il produttore. E non avevo contatti. Passeggiando per Walk of Fame un pomeriggio, mentre fissavo con lo sguardo inebetito da turista ogni stella impressa nel cemento, trovai un volantino appallottolato che pubblicizzava un corso di sceneggiatura. C’era scritto a lettere cubitali: Vuoi sfondare a Hollywood? Scrivi una sceneggiatura grandiosa!.

    Decisi che il modo migliore per imparare a scrivere una sceneggiatura era leggerne il più possibile. Di quelle buone. Studiai attentamente i testi nelle biblioteche della Writers Guild and Motion Picture Academy. Scrissi copioni, molti copioni. Di tutti i generi. Partecipai a concorsi per aspiranti sceneggiatori, feci domande a produttori, manager e agenti, e frequentai corsi di sceneggiatura. Presto capii che Hollywood era un circuito chiuso. Se non avevi conoscenze, la tua sceneggiatura era destinata a restare nel mucchio di testi indesiderati, insieme alle altre cinquantamila sceneggiature registrate ogni anno alla Writers Guild.

    Compresi che i miei primi giorni a Hollywood, pieni di buoni auspici, erano stati un’esperienza estatica ed emozionante. Da lì in poi tutto andò a rotoli.

    Dopo qualche anno mi ritrovai senza soldi e senza casa, costretto a vivere in macchina. Spesso parcheggiavo vicino all’oceano, così quando all’alba arrivavano i poliziotti potevo fingere di essere un surfista che si preparava a prendere le prime onde del mattino. Di notte m’imbucavo nei gruppi attorno ai falò sulla spiaggia, dando a intendere di far parte della festa, cercando cibo dove potevo, e di solito trovavo un piatto di fagioli da un furgoncino che vendeva tacos. Ero diventato un altro numero nelle statistiche di Hollywood.

    Alla fine contattai una ragazza con cui ero uscito dopo il mio arrivo a Los Angeles. Di solito ero io ad andare da lei e così avevo fatto amicizia anche con sua sorella Heather, con la quale condivideva una villetta degli anni Trenta, a una decina di chilometri dal centro. Venendo a sapere della mia difficile situazione, Sophie e Heather mi offrirono ospitalità sul loro sofà per qualche giorno.

    Quel divano bitorzoluto mi sembrò un hotel a cinque stelle e riuscii finalmente a rilassarmi, perché fino ad allora avevo sempre dormito con un occhio aperto per paura di ladri e poliziotti. Avere qualcuno che mi offriva un posto dove stare dopo che tutte le porte mi erano state sbattute in faccia fu un sollievo. Mentre vivevo su quel divano, riconsiderai la mia vita e decisi di tornare alle origini. Scrivi di quello che conosci, mi dicevano sempre gli insegnanti ai corsi di sceneggiatura. Bene, conoscevo l’Asia. Così quando incappai nella storia vera di un trafficante che aveva cambiato vita grazie all’incontro con un monaco tibetano, pensai di aver fatto bingo.

    Chiesi in prestito i soldi per volare fino a San Francisco e incontrare di persona quel trafficante. Dopo aver trascorso parecchi giorni a registrare la sua storia, mi sentivo completamente nel mio elemento. Quando rientrai nel sud della California, per la prima volta dopo anni, ero pieno di entusiasmo. Sicuramente dipendeva da quel nuovo progetto, ma anche dal fatto che vivevo in un posto migliore. Dal momento che andavamo molto d’accordo, le due sorelle mi proposero di diventare loro coinquilino, mi offrirono la stanza libera e io accettai pieno di gratitudine. Adesso che avevo un posto sicuro dove stare, potevo praticare anche l’astrologia, a cui mi ero avvicinato anni prima; leggere i temi natali era un modo per contribuire all’affitto e alle varie spese di casa. E, ironia della sorte, si rivelò la strada giusta per entrare a Hollywood. Nel giro di pochi mesi tra i miei clienti c’erano proprio alcuni dirigenti degli studi cinematografici che stavo cercando d’impressionare come sceneggiatore.

    Dopo il viaggio a San Francisco avevo la testa pullulante di idee per la realizzazione di un eventuale film. Sentivo il bisogno di aria fresca e volevo sgranchirmi le gambe prima di cominciare a scrivere quella che, ne ero certo, sarebbe stata una sceneggiatura rivoluzionaria, così aprii la porta sul retro e andai in giardino. Rimasi pietrificato dalla vista di un gattino morto.

    Nel periodo in cui mi vedevo con Sophie, e ancor di più da quando mi ero trasferito da lei, mi ero accorto di una grande colonia felina che abitava nel verde terreno incolto al confine tra il giardino delle sorelle e quello del vicino. I gatti erano di tutti i colori, forme e dimensioni. Erano furtivi e vivaci, ombre nella notte, bagliori spettrali tra gli alberi, sbirciavano da sotto l’alta staccionata di legno che divideva le due proprietà.

    Di tanto in tanto mi capitava di cogliere uno sguardo sorpreso, un naso nero, una coda sottile tra le assi rotte della recinzione. I felini erano diffidenti nei confronti dell’uomo come qualsiasi animale selvatico. Sebbene a un occhio inesperto alcuni esemplari sarebbero potuti apparire domestici, quei gatti erano inequivocabilmente selvatici.

    Imparai presto che i loro predatori, coyote e procioni, vivevano tra i graticci dei torrenti in secca che scendevano dai monti San Gabriel, e sapevano bene dove andare a procurarsi carne fresca. I cuccioli appena nati e i giovani gattini erano particolarmente vulnerabili. Il loro numero aumentava e poi diminuiva di colpo. Ragionammo – non senza disagio – che questo era il ciclo naturale delle cose e che noi non potevamo farci niente. I gatti erano lì fin da prima che le sorelle si trasferissero nella villetta e probabilmente ci sarebbero rimasti più di loro.

    D’altro canto, quelle creature sembravano disperate e mezze morte di fame. Dopo aver osservato, impotenti, un piccolo gatto bianco morire soffocato da un osso che aveva sgraffignato dalla spazzatura di un vicino, ci fu chiaro che non avevamo scelta. Iniziammo a mettere del cibo fuori dalla porta, in modo che i felini mangiassero in maniera adeguata (e dopo ogni pasto ripulivamo tutto per evitare di attirare altra fauna selvatica).

    Ricordo che Heather rimase completamente immobile, come congelata, con una manciata di cibo per gatti in mano, incapace di metterlo fuori perché si rendeva perfettamente conto delle implicazioni di un simile coinvolgimento. Presto però iniziammo a nutrire mattina e sera quella che presumevamo fosse una popolazione di circa quindici gatti. Poi cominciammo a dar loro un nome per monitorarne il numero. A parte questi interventi, eravamo determinati a non farci coinvolgere oltre. Sophie e Heather lavoravano entrambe a tempo pieno e avevano una vita sociale felice e movimentata. Fondamentalmente eravamo tutti e tre concentrati su noi stessi, single e senza figli. E non eravamo assolutamente amanti dei gatti.

    Il gattino morto ai miei piedi era un sorprendente incrocio tra un gatto tartarugato e un tigrato, con macchie color cioccolato e cannella mischiate a strisce arancioni lungo le zampe che avrebbero fatto inorgoglire i suoi antenati leoni. Proprio il giorno prima, avevo osservato quello spiritello danzare gioiosamente in giardino, volteggiare e saltare nell’aria. Alzai gli occhi dalla creatura senza vita e vidi otto gatti selvatici che mi fissavano. Sedevano sulle zampe posteriori in un semicerchio impeccabile, talmente calmi e così perfettamente posizionati che sembrava che qualcuno li avesse collocati lì uno per uno.

    Li riconobbi tutti: c’erano Caliby, Snow White, Crazy Calico, Shadow, Beige, Junior, Baby Gray e Marble. Due erano maschi e le altre tutte femmine, con una gamma di colori e fattezze che andavano dal nero pece al siamese. Fui stupito che fossero lì allo scoperto e che non fossero fuggiti al mio arrivo. Cosa ancor più significativa, ciascun gatto mi fissava con occhio assassino. Mentre spostavo lo sguardo da un animale all’altro, ciascuno manteneva fieramente gli occhi puntati nei miei, cosa che di solito i gatti selvatici non fanno.

    Stava succedendo qualcosa. Qualcosa di grosso. Iniziai a diventare nervoso. Aveva tutta l’aria di essere un segno inviato dall’universo per stravolgere i miei progetti. Per quanto ritenessi nobile mettere gli interessi di un altro essere davanti ai miei, non avevo mai avuto la tendenza a farlo. Dare loro del cibo era una cosa, ma rifuggivo da ogni coinvolgimento. Eppure sentivo che quei gatti mi stavano chiedendo aiuto. Guardai la carcassa e i loro occhi seguirono i miei, poi li osservai nuovamente e loro sostennero il mio sguardo. Siete sicuri che sia io l’uomo che fa per voi? Chiesi. Anche loro pensavano che fossi chi non ero?

    Cercai di ricacciare indietro le lacrime che mi scorrevano lungo il viso mentre contemplavo lo spirito vitale che, appena il giorno prima, aveva animato quel gattino ma che adesso era evaporato, lasciandolo freddo e immobile. Sembrerà banale, ma m’interrogavo sul significato di un mondo dove esseri delicati e innocenti esprimevano la vita con abbandono spensierato e un istante dopo erano crudelmente colpiti a morte. Secondo il disegno di chi o di cosa?

    Ricordai quando, anni prima, avevo partecipato a una conferenza del Dalai Lama. All’improvviso, nel bel mezzo del discorso, lui cominciò a piangere. All’inizio pensai che stesse ridendo, come è solito fare, poi capii che stava piangendo. Il pubblico restò in un silenzio attonito. Le lacrime diventarono singhiozzi e lui sembrava inconsolabile. Dopo un po’ si soffiò il naso, si asciugò gli occhi e continuò il suo discorso spirituale. In seguito scoprii che un suo caro amico era morto poco prima che iniziasse la conferenza. Quella volta riflettei sulla differenza tra la contemplazione della morte a livello intellettuale e l’avere il cuore a pezzi per la morte di qualcuno nella vita reale.

    Accovacciandomi accanto al gattino, mentre mi asciugavo le lacrime, mi accorsi che aveva subito una morte violenta. Era stato sventrato, il sangue imbrattava la sua singolare pelliccia e gli mancava una zampa. Il circolo dei gatti si fece più vicino mentre esaminavo il cadavere. Poi mi sedetti a terra e feci un bel respiro. Quando buttai fuori l’aria, gli animali si ritirarono come per scappare, ma non lo fecero. Mi rivolsi al gruppo con lo sguardo, soffermandomi su ciascuno di loro prima di dire ad alta voce: Okay, vi aiuterò. Forse Violet aveva ragione. Avevo trovato la mia vera vocazione a Hollywood.

    2 Gli inizi

    Quando ero piccolo, la mia famiglia possedeva alcuni cani di grossa taglia. Mio padre era allergico ai gatti, ma ciò non impedì a mia sorella minore, che amava tutte le creature viventi, di portare a casa una gatta randagia che chiamò Rifka, dal nome di un personaggio di libri per bambini. Vedendo il disagio che quella gatta causava a mio padre, mia madre la mise subito alla porta. Il nostro giardino era invaso da piante e alberi e i miei genitori pensavano che là la gatta avrebbe trovato cose in abbondanza con cui tenersi occupata. Alla fine Rifka fu affidata alle cure di un’amica, ma non prima di aver dato alla luce una cucciolata di cui sopravvisse un solo gatto maschio, che i miei chiamarono Pifka (sì, i miei genitori sono molto spiritosi).

    Dopo il periodo trascorso in Asia, tornai a casa e presi in affitto un piccolo cottage nelle vicinanze di dov’ero cresciuto. Pensai che sarebbe stato carino avere un gatto come compagnia, e passai ore nel giardino dei miei in cerca del leggendario Pifka, figlio di Rifka, che loro erano sicuri fosse lì da qualche parte.

    Fantasticavo sull’aspetto che quel goblin avrebbe potuto avere dopo anni da solo nella natura selvaggia. Frugai tra i cespugli, smontai la catasta di legna un ciocco alla volta e sbirciai sotto la vecchia casetta per bambini, quando finalmente scorsi quello che sembrava un ciuffo d’erba arruffato. Salvo il fatto che si spostava.

    Non appena mi avvicinai si mosse veloce, allontanandosi da me. Non riuscivo a smettere di ridere. Incapace d’identificare la testa, gli occhi o qualsiasi altra parte del corpo, vedevo quella massa informe, arruffata e in frenetico movimento, più come il personaggio di un fumetto che come un gatto. Comprai una trappola per animali e attesi pazientemente per diversi giorni, sperando che l’odore del salmone che avevo usato come esca avrebbe esercitato un richiamo irresistibile sul piccoletto. Un pomeriggio, notai quella forma multicolore dirigersi furtivamente verso la trappola. Per la massa di treccine rasta che sfoggiava, era sorprendentemente energico. Entrò con cautela nella trappola, afferrò il pesce (ah, pensai, quella è la bocca), poi cominciò a retrocedere per uscire ma il pesce cadde a terra sfaldandosi. Il gatto si lanciò sul pezzo più grosso e mise la zampa sull’innesco. Sbang!

    Non ho mai visto niente di simile a quello che successe dopo. La gabbia saltò attorno al patio come se avesse una carica a molla. Urla da ossesso accompagnavano la sua danza, e se ci fosse stato YouTube ai tempi, sono certo che il video di questo gatto in gabbia saltellante e urlante avrebbe ricevuto milioni di visite. Riuscii in qualche modo a mettere la trappola sul sedile posteriore dell’auto e mi diressi a tutta velocità al mio cottage. Dallo specchietto retrovisore vedevo la gabbietta saltare su e giù e sbattere contro le portiere. Pregai che reggesse: non volevo pensare a cosa sarebbe potuto succedere se quel pazzo si fosse liberato. Una volta a casa, misi la gabbia nel mio giardino recintato e l’aprii con cautela, poi saltai dall’altro lato. Non successe niente. Il gatto se ne stava lì sdraiato sulla pancia, completamente immobile. Immaginando che il poveretto avesse avuto abbastanza emozioni per quel giorno, lasciai acqua e cibo vicino alla gabbia ed entrai in casa. Il mattino seguente non era cambiato nulla. Quel ciuffo d’erba semovente continuava a starsene rannicchiato, il cibo e l’acqua non erano stati toccati.

    Il giorno successivo trovai però la gabbia vuota. Rividi il gatto solo parecchi giorni dopo, ma nel frattempo notai che il cibo e l’acqua che lasciavo fuori per lui sparivano.

    Le settimane passarono e io lo osservavo studiarmi da lontano. Se non altro, il mio periodo in Asia mi aveva insegnato la pazienza (hai mai provato a salire su un treno locale a Bombay all’ora di punta?), e presi l’abitudine di non guardarlo mai negli occhi e di non fargli capire che mi ero accorto di lui.

    Quell’estate il caldo era tremendo, e io trascorrevo le mie serate sul tetto del cottage a prendere il fresco. Una notte sopresi l’animale – a quel punto era troppo arruffato per definirlo gatto – a condividere il tetto con me, seduto sul bordo, all’angolo opposto: scommetto che per metà era sospeso nel vuoto, a quattro metri dal suolo. Con il passare dei giorni notai che, lentamente, centimetro dopo centimetro, si sedeva sempre più vicino a me. Decisi di lasciare le braccia abbandonate sulle ginocchia, con le mani aperte in caso avesse voluto entrare in contatto con me, ma non feci mai niente per avvicinarlo.

    Alla fine giunse il momento fatidico, come quando a scuola riesci finalmente a conquistare quella per cui hai una cotta fin dal primo anno. La bestia spinse la testa contro la mia mano e poi si sdraiò al mio fianco. È impossibile esprimere a parole il calore di quando si è accettati da un’altra creatura.

    La nostra routine notturna divenne star seduti insieme sul tetto in ascolto dei grilli, con gli artigli della sua zampa destra pronti ad attaccare ogni insetto di passaggio. Non dovetti aspettare molto prima che quella creatura selvaggia, che non aveva mai conosciuto il contatto con l’essere umano, mi si accoccolasse in grembo per dormire. In ultimo, prese tanta confidenza da arrivare a entrare nel cottage e sdraiarsi sul letto. Dapprima, cosa tipica dei gatti, si posizionò

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