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L'ombra del per sempre
L'ombra del per sempre
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E-book393 pagine5 ore

L'ombra del per sempre

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Info su questo ebook

Leonardo è fuori di sé.
Ha perso Cecilia, l'unica donna che abbia mai amato e non riesce né a farsene una ragione né tanto meno a darsi pace.
Leonardo molla tutto e decide di abbandonare l'Italia, le amicizie storiche, il lavoro che ama e giura di non mettere più piede in quella Londra maledetta che gli ha sottratto l'unica cosa bella della sua vita.
Ma il destino ha altri piani.
Perché in quella città che Leonardo odia così tanto, Cecilia invece ci vive.
Sotto un altro nome e con una nuova identità, lei si aggira priva di memoria per le strade di Londra, tutti i giorni.
E quando Leonardo lo scopre per caso, avvia con gli amici di sempre una caccia alle streghe che mette a dura prova tutte le certezze, le energie e l' affetto che da sempre lega ognuno di loro.
Perché Londra è tanto immensa quanto Cecilia irrintracciabile.
Ma Leonardo non si abbatte, lui non è intenzionato ad arrendersi. A nulla.
Perché quel "Per sempre" che dalla notte dei tempi muove le fila della sua storia con Cecilia, per Leonardo ha un significato profondo e incontrovertibile, che è più forte di tutto, perfino della morte.
LinguaItaliano
Data di uscita11 ago 2016
ISBN9788822831224
L'ombra del per sempre

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    Anteprima del libro

    L'ombra del per sempre - Valentina Gift

    NOTE DI COPERTINA

    Leonardo è fuori di sé.

    Ha perso Cecilia, l'unica donna che abbia mai amato e non riesce né a farsene una ragione né tanto meno a darsi pace.

    Leonardo molla tutto e decide di abbandonare l'Italia, le amicizie storiche, il lavoro che ama e giura di non mettere più piede in quella Londra maledetta che gli ha sottratto l'unica cosa bella della sua vita.

    Ma il destino ha altri piani.

    Perché in quella città che Leonardo odia così tanto, Cecilia invece ci vive.

    Sotto un altro nome e con una nuova identità, lei si aggira priva di memoria per le strade di Londra, tutti i giorni.

    E quando Leonardo lo scopre per caso, avvia con gli amici di sempre una caccia alle streghe che mette a dura prova tutte le certezze, le energie e l’affetto che da sempre lega ognuno di loro.

    Perché Londra è tanto immensa quanto Cecilia irrintracciabile.

    Ma Leonardo non si abbatte, lui non è intenzionato ad arrendersi. A nulla.

    Perché quel Per sempre che dalla notte dei tempi muove le fila della sua storia con Cecilia, per Leonardo ha un significato profondo e incontrovertibile, che è più forte di tutto, perfino della morte.

    Sed fugit interea, fugit irreparabile tempus

    PARTE TERZA:

    OGGI

    CAPITOLO 1

    Non importa se stai procedendo molto lentamente; ciò che importa è che tu non ti sia fermato

    CECILIA

    Per l’ennesima volta dacché mi sono svegliata in un letto d’ospedale di questa città, chiudo gli occhi e prendo il volto tra le mani. Non piangere, non piangere, non piangere ripeto invano a me stessa un milione di volte, perché andrà tutto bene. In qualche modo ce la farai.

    Cerco di calmare il respiro affannato ma per quanto provi ad auto convincermi che andrà tutto bene non riesco a frenare quei singhiozzi che arrivano silenziosi, come sempre, seguiti da lacrime calde e mute che scivolano inarrestabilmente sulle mie guance come pioggia equatoriale.

    Per quale motivo mi trovi a Londra, lo ignoro completamente.

    Sono stata coinvolta in un grosso incidente ferroviario che mi ha indotto uno stato patologico di perdita di coscienza, mobilità e sensibilità della durata di un mese circa e mi ha privato a detta degli specialisti temporaneamente della memoria.

    Dopo la dimissione dall’ospedale, essendo in possesso di un documento d’identità che mi identificava come cittadina francese, la prima cosa che ho fatto è stata recarmi al Consolato di Francia presente a Londra dove ho ricevuto qualche sparuta notizia sul mio conto. Il mio nome di battesimo è Caroline Marie, ho 25 anni e provengo da Loubressac un piccolo paesino della regione Midi-Pirenei, nel sud della Francia. A dieci anni sono stata adottata da una coppia di signori di una certa età, Madame e Messieur Lavereaux, da cui ho assunto il cognome. Il mio padre adottivo, Gerarde, è morto da cinque anni e la moglie Vivienne da uno. Sembra che tra quest’ultima perdita e il seguente trasferimento in territorio straniero, io abbia vissuto per un po’ di tempo a Parigi dove ho lavorato come barista, unica professione che risulta certificata nella mia scheda anagrafica.

    I miei titoli scolastici si fermano alla scadenza degli studi liceali imposti per legge.

    A Londra vivo in affitto, in una stanza fatiscente situata in un complesso di casermoni grigi e tutti identici abitati da persone partite come me allo sbaraglio e arrivate qui da un’altra nazione. I servizi igienici, la cucina e la lavanderia sono in comune. Il loro uso viene autogestito dagli inquilini mediante prenotazione: ognuno riserva il proprio turno di utilizzo degli spazi utilizzando un apposito registro posto fuori da ogni locale.

    La vita a Londra è cara, anzi carissima.

    Tra le spese dell’affitto, l’abbonamento ai mezzi pubblici con cui mi sposto e la fisioterapia che sono costretta a fare a seguito dell’immobilità forzata impostami dall'incidente, fatico ad arrivare a fine mese e di extra non posso permettermi nulla, nemmeno un rotolo di carta igienica.

    Oggi è il 14 luglio, in tasca ho 20 sterline, e la fine del mese è parecchio lontana.

    Ecco cos'è che detta la mia disperazione attuale.

    Il suono di una persona che picchietta con le nocche per tre volte consecutive sulla porta della mia stanza, interrompe questo mio momento di infelice solitudine. Dal modo di bussare sono certa sia Maria Soledad, sola o in compagnia di Rocio perché di solito viaggiano in coppia, due ragazze spagnole che vivono nel mio stesso pianerottolo. Quando mi sono svegliata dal coma, ricordo distintamente di aver molto sofferto nell'apprendere che in un mese di ricovero ospedaliero nessuno fosse venuto a farmi visita. Non ricordavo nulla e non avevo nessuno a cui chiedere conforto.

    Sono stati dei momenti durissimi.

    Ho appreso dove vivevo in Consolato e appena arrivata in questa topaia mi sono chiesta come mai non avessi fatto amicizia con nessuno in quasi due mesi di permanenza in una stanza grande quanto uno sgabuzzino con tutto il resto dei servizi in comune. Ricordo di aver pensato che forse sono una solitaria. O una stronza antipatica. O magari una specie di eremita.

    La stanza che risultava affittata a mio nome non mi ha fornito all'epoca molte informazioni su me stessa, se non un orribile gusto nel vestire e una personalità pressoché inesistente. Trovavo tutto quello che vedevo molto ordinario: non un colore, un soprammobile, un libro, della musica, delle foto. Solo tanti, tanti, tanti vestiti, trucchi dai colori pesanti, ciglia finte, smalti e inserti per allungare le unghie che mi hanno fatto escludere l’ipotesi dell’eremita. Possedevo e possiedo tutt'ora tanto di quell'abbigliamento appariscente con la fantasia zebrata o leopardata che i primi giorni ho temuto che il mio lavoro non fosse la barista (impiego in cui mi sono scoperta tra l’altro imbranata, inadatta e impreparata) ma quello più vecchio del mondo…

    Ora come allora ero stata tramortita dallo sconforto più totale. Avevo avvicinato l’orribile comò di finto legno e di colore scuro che arreda la stanza a quel misero rettangolo nato come presa d’aria di dimensioni sostenute ma convertito negli anni in quella che è l’unica finestra della stanza, sedendomici sopra per poter vedere un po’ di vita passare all'esterno e fingere di farvi parte. Ricordo di essermi portata le ginocchia al petto e avervi poggiato sopra la fronte mentre osservavo piangendo senza emettere suono alcuno il mondo che avevo dimenticato e che mi aveva a sua volta ricambiato la cortesia, facendomi sentire così sola da fare male. Ricordo poi un lieve bussare alla porta e due volti che mai avevo visto entrare nella stanza con in mano una pianta per augurarmi il bentornata a casa. Avevano saputo cos'era successo e ci tenevano a farmi sapere che per qualsiasi cosa c’erano, anche se non avevamo mai parlato né ci eravamo mai incrociate per caso. Seguendo il loro esempio, anche il resto dei ragazzi più o meno miei coetanei che occupano le altre quattro stanze del pianerottolo sono passati a salutarmi e a fare la mia conoscenza.

    Ben presto i loro visi sono divenuti parte giornaliera della mia vita. Facciamo colazione insieme, con molti di loro condivido le ore lavorative in un pub dove ricopro con successo il ruolo di cameriera, ci confidiamo e dividiamo quel poco che possediamo, come membri della stessa famiglia.

    E le due ragazze, che per prime si sono avventurate nella mia direzione, Maria Soledad, detta Sun, e Rocio, detta Rock sono le amiche più care che ho.

    Ora come allora ricaccio indietro le lacrime e mi avvio sorridendo alla porta. Della Spagna, la nazione da cui provengono, Sun e Rock riportano perfettamente la solarità, il calore umano, la giusta dose di pazzia, lo spirito dinamico e un buonumore esplosivo, intenso e travolgente da cui è vietato non farsi contagiare.

    «Hola guapa!!», mi saluta Sun appena apro la porta. Sta rovistando assorta nella borsa che porta a tracolla e ha la fronte corrugata. Alla fine, l’oggetto della sua ricerca le compare tra le dita: è un rossetto rosso che passa sulle labbra senza alcun bisogno di guardarsi allo specchio. «Esco a fare un po’ di spesa, hai voglia di accompagni?».

    È sola, probabilmente Rocio è di turno al pub dove lavora la maggior parte di noi, con orari interscambiabili, intermittenti e anche poco umani.

    «Volentieri», infilo le scarpe in velocità e la raggiungo sul pianerottolo. Mi farà bene un bel giro all'aria aperta, tanto più in questa giornata di pseudo sole. Chiudo a chiave e, sorridendole, infilo il mazzo in tasca.

    «¿Qué pasa, C?», chiede la mia amica scrutandomi con i suoi intensi occhi neri. «Hai una faccia...»

    Vorrei esporle le mie preoccupazioni, ma qualcosa mi frena. Probabilmente la consapevolezza dell’enorme disponibilità d’animo di Sun e la paura che possa sentirsi in obbligo di dovermi aiutare.

    Alla fine, certo pochini, ma di soldi ne ho. Considerando che un pasto al giorno lo consumo a lavoro, mi basterà alimentarmi con quanto mi rimane in camera, non fare la spesa e non aver nessuna uscita extra, non un caffè o un croissant al cioccolato in quella caffetteria che mi piace tanto. Sigarette ne ho due pacchetti di scorta che mi farò bastare e l’idea di comprare qualche vestito un po’ meno osceno di quelli che il mio armadio offre transiterà al prossimo mese. Ho anche fatto richiesta che mi venga aggiunto qualche turno straordinario, chissà che venga accettata così respirerò un pochino. «Solo stanca», la rassicuro. «Dormo poco e in questi giorni soffro molto il fatto di non avere una finestra vera e propria», indico il micro-rettangolo che si intravede dalla strada sotto casa.

    Da quaggiù, la mia finestra appare ancora più piccola di quanto è in realtà.

    A malincuore rifletto su come la mia stanza non potrà mai essere illuminata dalla sola luce naturale. Primo perché il sole si vede poco, secondo perché lo spazio di accesso che ha quelle poche volte che si manifesta apertamente è così misero da rendere lo scopo irraggiungibile.

    E, in questo esatto istante, il pensiero mi abbatte parecchio.

    «Che orari hai tu oggi al pub?», chiede Sun attraversando la strada.

    «14– 24», rispondo controllando che non arrivino automobili.

    «Io ho la giornata libera. Sai cosa pensavo, C?».

    C è divenuto il mio soprannome. Ogni volta che mi chiamavano Caroline non mi giravo mai, Marie men che meno, con la singola lettera C invece funziona alla grande.

    «Che dovremmo cercarci un altro lavoro», prosegue lei seriamente.

    «Mi leggi nel pensiero».

    «Nemmeno tu arrivi a fine mese, eh?».

    Sorrido, rinfrancata. Mal comune, mezzo gaudio, no? «Con molta fatica», ammetto.

    La mia amica mi prende a braccetto e dopo tanto camminare mi fa ruotare di 45 gradi. «Quella è la risposta alle nostre preghiere», sentenzia indicando una vetrina. «Part time, ottima paga, zero stress. Andiamo a sentire?».

    È una libreria e fuori è appeso un cartello con su scritto: Cercasi commessa part time. Perfetto!!

    «Mi ci vedo proprio a lavorare in un negozio dove vendono libri!!», dichiaro con entusiasmo.

    Il primo pensiero che ho avuto quando ho ricevuto la mia prima busta paga è stato spendere 10 sterline in una bancarella dove una ragazza araba vendeva libri usati. Leggere era l’ultimo pensiero prima di addormentarmi e il primo quando mi svegliavo, e non avere libri da sfogliare mi faceva sentire come se qualcosa di profondo mi fosse stato sottratto e che, aggiunto a tutto ciò che avevo perduto, creava in me un vuoto incommensurabile.

    Lavorare in una libreria equivarrebbe per me a partire per una vacanza verso un posto esotico con il pacchetto All Inclusive.

    Quando ritorno sulla terra e porto lo sguardo verso Soledad, noto la sua espressione piuttosto stralunata. Mi fissa per un momento a bocca aperta, porta la sua attenzione alla zona che indicava e poi scoppia a ridere: «Ma io intendevo la catena di fast food qualche vetrina più avanti!!».

    «Oh», la mia ammissione è carica di demoralizzazione appena connetto a quale occupazione tanto ambiva la mia amica.

    «Beh, sai cosa ti dico?», risponde lei trascinandomi verso le vetrine. «Chi se ne fotte della spesa, la farò domani. Andiamo a cercare lavoro», mi guarda e sorride indicando prima una vetrina e poi l’altra. «Ognuna per la sua strada!».

    Io e Sun riattraversiamo la strada in tutta velocità e ci separiamo dandoci appuntamento al bar presente all'angolo. Guardo la mia amica sparire tra la folla che insidia il piccolo marciapiede, inspiro a pieni polmoni e mi dirigo verso la libreria. Sulla porta, che si apre verso l’interno, è appeso un piccolo rettangolo di legno grezzo con dipinta a mano la scritta: Open. Afferro la maniglia e spingo, trovandomi dentro. Il rumore leggerissimo di una campanella posta sull'entrata mi accoglie e l’inconfondibile profumo della carta, del cuoio e della poesia che solo un posto del genere può emanare travolge tutti i miei sensi.

    La libreria che mi ritrovo ad osservare non ha nulla a che fare con quelle che si vedono nei centri commerciali, nei mega store, o nei ritagli di corsia dei grandi supermercati. Questo è un posto che profuma di storia, vita vissuta tra gli scaffali, antichità e amore.

    Se esistesse davvero il Paradiso e se mai fosse lì che sarò diretta alla fine dei miei giorni, vorrei che fosse identico a questo posto.

    «Buongiorno, posso aiutarla?», un signore anziano e con la barba bianca mi viene incontro. Indossa un grembiule di colore blu scuro e sulla pettorina dondolano degli occhiali legati al collo con un cordino rosso bordeaux, abbandonati alla forza di attrazione che esercita la gravità.

    «Buongiorno», sorrido un po’ imbarazzata. «Sono qui per l'annuncio di ricerca personale. Lei è il proprietario? Vorrei candidarmi per il posto».

    Il signore sorride e si avvicina impugnando gli occhiali che penzolavano disinvolti e poggiandoli sul naso: «Sì, sono il proprietario», allunga una mano nella mia direzione. «Abraham Mills».

    «Caroline Lavereaux».

    Il Signor Mills fa un piccolo inchino: «Da dove arrivi, Caroline?».

    «Dalla Francia». O almeno così dicono.

    «Parigi?».

    «Non esattamente, no. Provengo da un piccolo paese chiamato Loubressac».

    Il Signor Mills pensa un momento e poi scuote la testa: «Non lo conosco».

    Bene, sembra che abbiamo già qualcosa in comune...

    «Cosa ti porta a Londra, Caroline?».

    «La voglia di conoscere il mondo». Credo.

    «E cosa fai per vivere?».

    Il tono dell'uomo che ho di fronte è molto gentile, ma non sono così tonta da non aver capito subito che sto sostenendo la fase preliminare di un colloquio di lavoro. «Al momento lavoro come cameriera in un locale del centro. Sono arrivata a Londra da poco e quello è stato il primo impiego che ho trovato. E non è per niente male», ammetto. «Sono in una buona squadra, ho dei bravi colleghi con cui sono molto affiatata. Le ore mi passano velocemente», sorrido nel pensare a quante cazzate escono dalle nostre bocche finché lavoriamo. «Però lo stipendio è quel che è, e non mi basta. Ecco perché mi sto guardando intorno».

    «E perché hai scelto proprio la mia libreria?».

    «Perché amo i libri. E la lettura. E tutto ciò che posti come questi evocano», accarezzo il dorso di un libro con la copertina rigida. «Non mi fraintenda, Mr Mills, non sarei onesta se le dicessi che questo sarebbe l’unico lavoro che farei, perché non è vero. Purtroppo per me ho esigenze economiche che non mi permettono di essere molto selettiva in merito, ma mentirei se le dicessi che appena ho visto il cartello in vetrina il mio cuore non ha iniziato a battere forte ed entrare qui e avere una possibilità non è stato il mio unico desiderio», confesso.

    Il Signor Mills congiunge le mani e, portandole sotto al mento, socchiude un po’ gli occhi: «Onorato», dice con orgoglio. «Allora Caroline, hai per caso un curriculum con te?».

    Oh cavolo. Che stupida. «Purtroppo no, ma se mi dà una mezz'oretta vado a prenderlo a casa e poi torno equipaggiata», mento. In realtà non esiste alcun curriculum stilato di mio pugno. «Sono uscita per fare la spesa, non era mia intenzione iniziare con le ricerche lavorative oggi», mi giustifico.

    Almeno questo è vero…

    Il Signor Mills mi scruta attentamente prima di rispondere: «E’ stato proprio amore a prima vista il tuo con il mio negozio, eh?».

    Arrossisco violentemente, presa alla sprovvista.

    «L’ho capito subito, sai?», dichiara il Signor Mills puntando l’indice nella mia direzione. «Mi è bastato guardarti in faccia», punta i suoi occhi all'esterno e indica il marciapiede dove io e Soledad poco tempo fa stavamo decidendo come gestire il nostro futuro. «E non eri ancora entrata qui dentro».

    Spalanco gli occhi a dir poco sorpresa. Quest’uomo aveva già capito quanto sarebbe stato importante per me lavorare qui dentro, solo vedendo la mia espressione estasiata alla vista del cartello: Cercasi commessa? Allora forse ho una possibilità… il solo pensiero di poter lavorare nella libreria di Mr Mills mi fa emozionare. Per la prima volta in tanto tempo, sento di essere felice. «Quando posso cominciare?», domando con il cuore leggero come una piuma.

    «Cosa te ne pare di domani mattina alle nove?».

    Il mio cuore inizia a galoppare. «Ritengo che sia perfetto!!».

    Il Signor Mills risponde al mio entusiasmo con un piccolo inchino: «Allora a domani, Caroline».

    Allunga una mano che mi affretto a stringere con gioiosa gratitudine. «A domani, Signor Mills», lascio andare a malincuore quel contatto umano che mi ha appena salvato la giornata. «E grazie per l’opportunità».

    Il mio nuovo datore di lavoro sorride e poi mi raccomanda di essere puntuale prima di girarmi le spalle e scomparire dietro scaffali carichi di quelle storie che l’uomo scrive e racconta per intrattenere i suoi simili dalla notte dei tempi.

    CAPITOLO 2

    Il tempo passa, e l'ore son sì pronte a fornire il viaggio, ch'assai spazio non aggio pur a pensar com'io corro a la morte

    LEONARDO

    Esco in giardino perché ho voglia di rimanere un po’ solo. Ho sbagliato cazzo ad accettare l’invito degli amici a partecipare ad una festa organizzata a casa di Simona.

    Erano mesi che non mettevo piede fuori casa. E ho avuto i miei buoni motivi per non farlo. La mia vita è da sempre un gran casino, e questo perché non sono molto bravo a gestire con equilibrio la triade formata da gioventù, salute e soldi. Ho da sempre tutto quello che voglio e non perché lo merito: semplicemente, posso permettermi qualsiasi cosa. Lusso, ogni divertimento all’uomo conosciuto e ovviamente donne, che arrivano a flotte.

    Emotivamente parlando sono un disastro. Fin dal raggiungimento della maturazione sessuale, io e la parola amore non abbiamo mai avuto molto feeling. Una canzone che ho sentito per radio e di cui non ricordo il titolo dice: Non ho ancora fatto figli ma mi alleno tanto. Questa frase riassume alla perfezione la mia carriera pseudo sentimentale.

    La mia vita ha subito una parentesi a tutta questa apatia attorno ai diciassette anni, quando mi venne presentata una ragazza, la cugina della mia amica Camilla, che stravolse allora tutto il mio mondo e di cui mi innamorai follemente. Diventò la ragione di tutto il mio vivere e avrei fatto qualsiasi cosa per lei. Abbandonai le cattive abitudini che la condizione di agiatezza economica in cui verteva la mia famiglia mi avevano donato. Smisi di andare a letto con qualsiasi essere vivente donna che respirasse e si dimostrasse disponibile.

    Con e non per lei, diventai migliore. Maturai e venni a contatto con una realtà che mi era sconosciuta, perché esisteva tutto un mondo oltre a quello benestante e abbiente in cui ero cresciuto: quello da cui proveniva lei. Una realtà operaia fatta di sacrifici, bollette pagate con impegno, rinunce e fatica. Ma ancor di più di amore, solidarietà, sostegno e gioia per le piccole cose. Tutte cose a cui nessuno mi aveva mai abituato.

    Lei si chiamava Cecilia e per un lungo periodo di tempo i due mondi opposti da cui provenivamo si sono fusi, divenendone uno unico: il nostro. Cecilia era veramente tutto il mio mondo.

    Un giorno ebbi una discussione accesa con mio padre su questo argomento: lui sosteneva che meritassi una ragazza migliore di lei. Nella sua visione contorta della realtà ciò significava unicamente ricca e facoltosa, nulla più. Litigai con lui ferocemente e non ebbi più l’opportunità di ritornare sulla questione perché qualche giorno più tardi lo persi per sempre. Mio padre ebbe un infarto di fronte ai miei occhi e la mia vita andò in pezzi. Io impazzii e diedi la colpa di tutto alla mia storia con Cecilia. Ci lasciammo, anzi, dal vigliacco che sono mi feci lasciare da lei, dopo averle reso per mesi la vita un inferno. Quando Cecilia uscì dalla mia vita, chiusi a doppia mandata la porta del mio cuore e tornai ad essere quella persona egoista, prepotente, meschina e calcolatrice che ero prima di incontrarla.

    Poi qualche mese fa tutto è cambiato.

    Io e Cecilia ci siamo rivisti, capendo entrambi che non avevamo mai smesso di amarci. Abbiamo fatto ordine nelle nostre vite ormai adulte e posto le basi per dei progetti da sviluppare insieme.

    Enormi.

    A lunga durata.

    Bellissimi.

    Ma adesso è tutto finito.

    Probabilmente ho già avuto così tanto dalla vita che non merito anche la felicità. Dovrò rassegnarmi a quest’idea.

    Tendo le labbra a sorriso finto quando mi passa davanti Simona, la padrona di casa, riportandomi al presente. Per tutta la serata ho finto di divertirmi e ora, se lor signori permettono, andrei ben volentieri fuori dai coglioni. Rientro per salutare, ma prima di farlo lancio un’occhiata fugace al quadrante dell’orologio. Con dispiacere noto come le lancette siano posizionate sulle 22 e 23.

    Cazzo.

    Mi sembrava di essere qui da un secolo.

    Non posso lasciare la festa così presto.

    Devo temporeggiare quindi esco di nuovo e accendo una sigaretta. Fumerò il pacchetto intero se sarà necessario per arrivare sano e salvo alla mezzanotte.

    «Non puoi già andartene, Leo», la richiesta che arriva alle mie spalle esce dalla bocca di Camilla e suona come una preghiera.

    La ragazza non ha mai brillato in tema di rispetto dell’altrui volontà.

    «Non me ne stavo andando», ribatto con cipiglio. «Devo solo fare una telefonata», improvviso brandendo il telefono.

    Lei mi guarda con occhi tristi, piegando la testa di lato. Non mi crede. Muove qualche passo nella mia direzione e poi mi affianca. Accende in silenzio una sigaretta e per un po’ rimaniamo muti a contemplare le tenebre. «Non fare come quando è morto tuo padre, non chiuderti in te stesso questa volta», mormora ad un certo punto girando il viso nella mia direzione.

    Bene! Un’altra supplica! O un sermone!

    È la volta di Camilla questa, forse mancava solo lei alla lunga lista degli ottimi consigli fornitemi costantemente da amici trasformatisi in noiosi perbenisti, anche se non potrei giurarlo. Non ascolto mai i loro stupidi punti di vista o le loro opprimenti considerazioni, scivolano su di me come acqua corrente.

    Possono predicare, pronunciare, raccomandare ed enunciare qualsiasi cosa ritengano giusta.

    Non mi fornirà alcun aiuto.

    Cecilia non c’è più e niente di quanto uscirà dalle loro bocche me la potrà ridare, niente la riporterà da me.

    Punto.

    Perciò che si fottano.

    Le loro parole.

    I loro pensieri.

    Che si fotta ognuno di loro.

    Anzi, ancora meglio, che si fotta il mondo intero.

    «Taglia corto Camilla», intimo con aggressività. «Non voglio sentire storie».

    La mia vecchia amica spegne il mozzicone e poi si lascia andare a quanto prova. Chiude gli occhi e raccoglie ogni forza: «Non sei il solo a soffrire, Leonardo. Anch'io l’ho persa e pure loro», indica con il pollice gli amici riuniti all'interno del salotto. «Ognuno a modo suo sente la mancanza di Cecilia ed è chiamato ad affrontare il dolore che ne consegue. E non sarà come il tuo né come quello dei suoi genitori, dei suoi fratelli o di Lex ma anche noi siamo costretti a conviverci», Camilla batte piano il pugno sulla ringhiera, facendo rimbalzare la mano due volte. «Ogni giorno. Non te lo dimenticare».

    Passo la lingua sui denti cercando di calmarmi e non urlare contro a Camilla tutto quello che penso dei suoi ragionamenti del cazzo. Mi hanno sempre detto di contare fino a dieci prima di aprire bocca e far uscire parole di cui potrei pentirmene. Non sono mai arrivato nemmeno al tre. «Mi parli del vostro dolore, TU? Che te ne sei andata dall'Italia da quanti anni, cinque? Sei? Da quanto non passavi del tempo con Cecilia, da quanto tempo non eri parte delle sue giornate, Camilla? Non ti azzardare a dirmi cosa fare per superare il lutto, cosa pensare o cosa vorrebbe lei per me adesso dall'alto dei cieli da cui sicuramente mi sta guardando, perché non puoi saperlo porca puttana», urlo.

    «Camilla?», la voce di Giulio, il marito di Camilla, arriva alle nostre orecchie dalla porta finestra che abbiamo pian piano abbandonato, portandoci nella parte più lontana del terrazzo, interrompendo bruscamente la mia sfuriata.

    Lei asciuga velocemente le lacrime che le stanno rigando il viso prima di rispondere: «Sono di qua».

    «Cristo, sto cercando di uscirne. Lasciatemi in pace cazzo», sbotto allontanandomi da lei quando Giulio gira l’angolo per raggiungerci. Entro in casa e saluto tutti, senza inventare scusa alcuna questa volta: «Torno a casa. Bella festa, Simona», pronuncio prima di andarmene fuori da questo posto di merda.

    Vorrei che ognuno di loro sparisse dalla mia vita.

    °°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

    Abbandono le chiavi sulla mensola accanto l’entrata e mi siedo sul divano nuovo che ho da poco acquistato massaggiando gli occhi con i polpastrelli.

    Ancora pochi giorni.

    Solo pochi giorni e te ne andrai.

    Tieni duro.

    Mi alzo e vado verso l’armadio dove tengo i liquori. Metto del ghiaccio, verso tre dita di whisky nel bicchiere ed esco fuori a contemplare il niente, da cui mi sento anche fortemente investito dentro.

    Cecilia Serrano, vuoi sposarmi?

    Qualcuno bussa alla porta con tempismo perfetto, mentre sto precipitando nel vortice di dolorosi ricordi. Vado ad aprire come un automa. Davanti a me Camilla.

    «Che vuoi adesso?».

    I suoi occhi azzurri si riempiono di lacrime e si posano sul pavimento di legno chiaro. Camilla increspa le labbra e poi le inumidisce con la lingua, sforzandosi di tenere un tono di voce lineare: «Il giorno del mio matrimonio ho litigato con lei», sorride e poi si prende il volto tra le mani. «Perché avevo organizzato due feste, coi parenti la prima parte della giornata e solo gli amici per la seconda in modo che nessuno si annoiasse e lei se n’è andata molto prima della parte riservata a voi, facendomi così incazzare…», le lacrime iniziano a rigarle le guance. «L’ho supplicata di rimanere ma lei non ha sentito ragioni», si blocca e il suo corpo cede alla tensione. «Camilla, ha detto prendendo le mie mani, devo andare. Non prendertela a morte, abbiamo già festeggiato insieme. Più di così non posso restare», la mia amica frena i ricordi di nuovo e poi porta gli occhi nei miei. «Anche se io ci tenevo tanto che rimanesse lei mi ha mollato. Nel bel mezzo del giorno più bello della mia vita, dove ogni persona eseguiva quanto richiedevo», scuote la testa. «Le ho detto di rimanere e lei invece ha girato sui tacchi e se ne è andata via», unisce le mani e poi le porta davanti al viso, come se stesse pregando. «Cecilia era così, lei faceva sempre ciò che le pareva, quello che riteneva più giusto fare».

    Annuisco e per un momento accantono ogni domanda su come cazzo le sia venuto in mente di raccontarmi una cosa del genere. Sorrido al ricordo della verità che le è appena uscita di bocca: «Sì, era più testarda di un mulo», constato.

    «Non è stata colpa tua», dice piano Camilla. «Quello che è successo a Londra, Leo, non è una conseguenza di qualcosa che ti sia imputabile».

    Stringo forte i pugni.

    Colpisce in profondità Camilla.

    Arriva al cuore.

    A quei segreti che mai ho rivelato.

    A quei dubbi che attanagliano ogni singolo minuto della mia vita.

    Perché la verità è che sono convinto di averla ammazzata io Cecilia. È solo colpa mia se lei è morta, io l’ho portata in quella città, io le ho fornito l’aggancio per raggiungere il convegno con quel cazzo di treno che è deragliato.

    Camilla allunga una mano verso di me e mi accarezza il viso. Non la allontano.

    Chiudo gli occhi, travolto da emozioni così potenti che mi fanno desiderare di urlare a squarciagola e poter finalmente vuotare le mie viscere di tutto questo dolore.

    È bello averla qui.

    È bello avere un’amica che ti guarda dentro con occhi diversi da quelli con cui pieno di odio verso te stesso ti guardi tu.

    Mi

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