Gentili ma non troppo
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Anteprima del libro
Gentili ma non troppo - Federico Floris
Federico Floris
Gentili ma non troppo – Come sopravvivere agli altri senza farsi arrestare
ISBN 978-88-3322-628-6
© 2021 BookRoad, Milano
BookRoad è un marchio di proprietà di Leone Editore
www.bookroad.it
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono liberamente tratti dall’esperienza personale dell’autore e rielaborati in chiave ironica. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente funzionale alla narrazione.
Gentile cliente,
se stai leggendo questo libro
è perché hai fatto incazzare un commesso.
Ma tranquillo,
hai preso in mano il libro
e quindi sei perdonato.
Nota dell’autore
Una premessa a questo testo va fatta. Tre anni fa mi sentii dire: «Divertente quello che scrivi su Facebook, dovresti aprire un blog o farne un libro!».
Mi piaceva raccontare brevemente, in tono ironico, le situazioni che vivevo durante la giornata, al lavoro. Mi sfogavo su un diario virtuale perché non potevo essere così acido nella realtà. Se volevo continuare a vivere nel mondo civilizzato, che però di civile ha conservato poco e niente ormai, dovevo attenermi ai codici del politically correct. In una parola: contare fino a un milione e uno prima di mandare a ‘fanculo il prossimo. Tutte le risposte sinceramente al vetriolo che mi implodevano in gola rivivevano attraverso la scrittura.
Questo è diventato il mio modo per sopravvivere alla gente senza farmi arrestare.
Da quel suggerimento, «dovresti aprire un blog o farne un libro», cominciai piano piano a capire che cosa volevo fare veramente nella vita, ma la fiducia in me stesso era sparita come l’olio di palma da tutti i biscotti del mondo.
Ah, quasi dimenticavo di precisare. Io faccio il commesso in un negozio di abbigliamento. Lavoro con la gente e, si sa, «la gente è strana, un po’ si odia e un po’ si ama», come dice Mia Martini. Se ci si impegna, può diventare il vero male dell’umanità, peggio ancora dei collant color carne.
La gente, a contatto con altra gente, tira fuori il peggio di sé e, quando deve comprare qualcosa, dal cavetto del caricabatterie al lucidalabbra alla fragola a un vestito nuovo, si sfoga sui commessi i quali, a loro volta, si sfogano su altri clienti, sui colleghi e sul proprio partner. Un gigantesco loop emotivo che non avrà mai fine, come il Grande Fratello e le scale fino al quinto piano.
L’idea di cimentarmi con un blog o con un testo mi piaceva, ma non sapevo da dove cominciare. Alla fine ho semplicemente seguito l’istinto, quello della disperazione e, determinato a cambiare la mia vita inseguendo il sogno di fare l’autore, ho aperto un blog dal nome: Ipruritidifede. Ogni sfogo nasce da un prurito, che nasce a sua volta da una situazione di disagio e di autocontrollo coatto, quando non posso mettermi a urlare come un pazzo ma devo contenermi e fingermi sereno. La vita è troppo breve per essere gentili, quindi lasciamo uscire dal nostro corpo una sana dose di acredine, in modo tale da riequilibrare i nostri umori gastrici.
Questo testo si rivolge a tutti: etero, gay, giovani, vecchi, single, milf, accoppiati, felici, depressi, acculturati, ignoranti. In fondo, a tutti noi prude qualcosa. E ora… buona lettura!
FOGLIETTO ILLUSTRATIVO
Fatti e/o persone contenuti in questo testo sono frutto della realtà, purtroppo. I dialoghi sono tratti da storie vere. Viviamo nell’era dei social, e la tutela della privacy è ipocrita come chi fa finta di non essere gay, però poi usa «amo» e «pazzesca» in ogni frase che rivolge alle amiche.
Testo a basso contenuto di congiuntivi.
Valori nutrizionali:
Umorismo: 60%
Cinismo: 95%
Dolore: 30%
Irriverenza: 90%
Incoraggiamento a credere in se stessi: dipende dai giorni.
Utilità: 0,5%
Analisi logica: 10%
Punteggiatura: 25%
Verbi intransitivi pronominali: che roba è?
Figure retoriche/similitudini: 200%
Modalità di somministrazione:
Due pagine la mattina per ricordarvi che non siete soli al mondo.
Tre o quattro pagine la sera se Grindr o Tinder non funzionano o vi siete già fatti tutta la provincia.
Un capitolo intero dopo cena se non volete concedervi al vostro partner.
N.B.: La scusa del mal di testa è vecchia come mia nonna e tutti abbiamo l’Oki Task a casa.
In metro, lasciando spiare il curioso di fianco affinché tutti possano conoscermi.
In pausa pranzo per non dover parlare con i colleghi.
In vacanza per evitare famiglie con passeggini e animatori in spiaggia.
Avvertenze:
Tenere fuori dalla portata dei bambini: potrebbe far scoprire loro che «la fata Turchina» è in realtà il nickname di loro padre.
Non lasciare incustodito: è fighissimo, va a ruba!
Leggerlo al contrario potrebbe causare apparizioni demoniache del commesso sconsolato in preda a una crisi isterica.
Possibili contenuti omosessuali.
Uso smodato di similitudini.
La lettura tutta d’un fiato può portare a un uso improprio della lingua italiana.
La lettura dell’intero testo può causare dipendenza da tutte le opere dell’autore.
Comprando una delle prime duecento copie, in omaggio il bambolotto parlante del commesso sconsolato!
«Posso aiutarla?»
«È l’ultimo rimasto, le consiglio di comprarlo.»
«I saldi sono finiti!»
IL MANUALE
DEL COMMESSO SCONSOLATO
C’era una volta
Ricordo ancora il primo giorno di lavoro, se così si può chiamare, a contatto con il grande pubblico, all’interno della grande distribuzione, con un gran sorriso e un minuscolo tavolino su cui promuovevo un giocattolo elettronico per bambini. La gente mi passava davanti frenetica, il Natale si avvicinava e io ero intenzionato a dare il meglio, come se quel lavoretto fosse una missione umanitaria.
«Buongiorno!» esclamai a un signore attempato che passava e buttava l’occhio sul mio banchetto.
«Perché mi saluta?» chiese.
Rimasi folgorato, come se, invece di tre parole e un punto di domanda, mi avesse lanciato addosso delle lucine di Natale difettose. Ebbene sì, quel lavoretto era una missione umanitaria da cui non sarei tornato del tutto illeso.
Una volta, a scuola, avrò avuto circa otto anni, la maestra chiese: «Cosa volete fare da grandi?».
Improvvisamente fu una standing ovation, uno sbocciare di mani alzate come suricati sull’attenti.
«Io voglio fare il medico.»
«Io farò la maestra!»
Giuro, non lo dissi io.
«Io voglio fare l’astronauta!»
E te pareva… Io, che ero Erode fin da piccolo, mi domandavo se sulla Luna ci fossero delle caccole da mangiare, altrimenti il buon Alberto, che proprio lì voleva essere lanciato, sarebbe morto di fame.
In tutto quel vociare, tra l’entusiasmo dei bambini e la fierezza della maestra, io rimasi zitto ad aspettare che un pensiero mi attraversasse la testa, come una palla di fieno attraversa il deserto. Che cos’avrei voluto fare, io, da grande? Me lo sono chiesto fino a poco tempo fa, e solo poco tempo fa trovai la risposta.
Prendendo in prestito la navicella spaziale di Alberto, torno indietro nel tempo, in quella classe, per rispondere a quella domanda.
«Io voglio fare l’autore!»
Prima di capirlo, ero convinto di voler fare lo stilista. Non era proprio una certezza, quanto una constatazione di mia nonna che mi vedeva perennemente con una matita in mano, intento a disegnare abiti. Lei è sempre stata un tipo anticonformista e all’avanguardia, ma soprattutto ha sempre cercato di capire cosa mi facesse stare bene e a esortarmi perché lo inseguissi senza sosta.
Da giovane faceva la sarta. Anche quando ripose nel cassetto ago, filo e pezze di tessuto per dedicarsi alla famiglia, continuò per passione, tanto che a novant’anni si creò da sola un vestito color oro che avrebbe fatto invidia alla sua amata Gina Lollobrigida.
La sobrietà non è mai stata la sua caratteristica principale. Andò avanti a tinte bionde fino a qualche tempo fa, quando i suoi capelli decisero di ribellarsi e chiedere aiuto. Quando seppe che avevo un compagno, rimase sconvolta: la gioia per il fatto che lui facesse il parrucchiere era tale che lo disse subito a tutti i parenti e gli amici. Spesso gli mandava WhatsApp per sapere che numerazione di tinta comprare.
È chiaro che, avendo trascorso la maggior parte del tempo con lei, da piccolo, l’unica cosa che volevo era disegnare tacchi e abiti con lo strascico da indossare il prima possibile! Se quelli fossero stati i tempi di Instagram, Facebook, Twitter, TikTok, Pinterest, Tumblr, per non parlare di Grindr, Tinder e Snapchat, sarei sicuramente stato avvantaggiato nel portare avanti un certo ideale di lavoro e di passione.
Si dice che i social siano deleteri per la vita reale, che ci rincoglioniscano. A mio avviso invece veicolano una quantità tale di informazione e di idee, punti di vista e stili di vita diversi, che ci portano a nutrire molta più curiosità verso gli altri e molto meno bigottismo.
Riflessioni a parte, quei tempi, i miei tempi, erano quelli in cui, invece dei selfie in bagno con le bocche a culo di gallina e gli hashtag #instalike e #instafollow, c’erano i fuseaux con l’elastico che passava sotto il piede. Erano quindi degli anni bui, tremendi. Uomini e donne di Neanderthal giravano a mocassino libero, incuranti che le loro spalline imbottite stessero per estinguersi, e che i loro fossili sarebbero stati riportati in vita solo da Balenciaga vent’anni dopo.
«Tu devi fare l’avvocato!»
«No, no, tu potresti diventare un chirurgo plastico.»
«Non ti piacerebbe fare l’architetto?»
L’avvocato. Mi iscrissi a Giurisprudenza subito dopo il liceo, e con la stessa velocità me ne andai, non prima di aver lasciato il segno: i cocci di vetro e metallo, per terra, dopo aver fatto lo specchietto della macchina contro una colonna del parcheggio. E dopo questa, anche l’ipotesi «pilota di Formula 1» era da scartare.
Il chirurgo plastico. Faceva talmente per me, che a trent’anni ho cominciato ad andarci.
L’architetto. Ne ho conosciuto uno, ma è durata solo qualche mese.
Provai ad accontentare le aspettative dei miei genitori sulla mia vita professionale, senza avere il coraggio di dire quello che mi sarebbe piaciuto fare veramente. Quando lo trovai, mi sentii rispondere che lo stilista non era un lavoro.
La mia valvola di sfogo fu svuotare l’armadio di mia nonna la domenica mattina per vestire i miei cugini e mandarli in soggiorno, creando veri e propri fashion shows. Finché non mi misero in punizione.
Da quel giorno, passarono anni senza che decidessi che cosa volevo fare nella vita. Volevo «vivere a colori»… Ma che vuol dire esattamente? Chiamate Alessandra Amoroso, vi prego, chiamatela e chiedeteglielo! Colori a parte, volevo fare un lavoro che fosse stimolante, che mi permettesse di guadagnare con piacere. Fraintesi e fui sul punto di fare l’escort.
Si avvicinava, inesorabile, il momento di fare pace con il cervello, così come si avvicinavano i trenta, e sapete cosa si dice dei trenta? A parte la pancia che assimila ogni grammo di carboidrati e la fata Gallina che, invece di lasciarti un regalino per un dentino, ti lascia le sue impronte intorno agli occhi, a trenta succede che, se non sei diventato qualcuno, non lo diventerai mai.
Questa frase, questo detto popolare vero a metà, mi faceva fischiare le orecchie. Diventare qualcuno… A me sarebbe bastato diventare me stesso. Poter vivere appagato dal mio lavoro, nel senso che fosse un lavoro che mi piacesse, ma mi pagasse anche il mutuo e le vacanze.
Deciso a combattere il destino che da lontano mi faceva gestacci, mi iscrissi all’università, e sapete di cosa? Di Moda. Nella capitale fashion de noantri: Rimini.
Lasciai la casa dei miei genitori, dove avevo i vestiti lavati, stirati e profumati di Coccolino, pranzo e cena sempre pronti e la camera da letto sempre perfetta. Entrai in un’altra dove avrei dovuto imparare a fare la lavatrice, accendere il forno e stirare, riuscendo a fare male tutte e tre le cose.
In quella nuova casa c’erano altre tre persone oltre a me: una biondina riccia con gli occhi azzurri che parlava solo veneto, un altoatesino che usciva dalla sua stanza solo di notte per mangiare – forse era un tasso e non ce ne siamo mai accorti – e un professore di filosofia, che era in realtà il proprietario di casa e, pur non abitandoci, veniva la mattina per fare la doccia. Ribadisco: la gente è strana.
Serate con gli amici, locali, drink, free drink e notti in discoteca. Rimini non sarà la capitale ufficiale della moda, però del divertimento lo è di sicuro. Tra un bacio e un tiro di sigaretta arrivava però il momento di quagliare. No, non con il tipo appena conosciuto, ma con il lavoro. Il desiderio di indipendenza era così forte che mi ripromisi di trovare un lavoretto estivo.
A dieci minuti di treno e cinquanta di autobus c’era Riccione: il fulcro della movida, dove tra hotel, locali, stabilimenti balneari e negozi era impossibile rimanere senza far niente. Curriculum dopo curriculum, cominciai a consegnare senza ritegno la mia privacy alle aziende, come il migliore dei venditori porta a porta.
E, a proposito di «porta a porta», mi stavo cacciando in un vespaio. Tra svariati «no, grazie» e «le faremo sapere», ci fu una donna poco sorridente, avvolta in un tubino nero e in perfetto equilibrio su un tacco dodici che, senza darmi troppa importanza, prese il mio curriculum e lo lesse.
Passarono due settimane, dopodiché fu amore a prima vista; a dire il vero a seconda vista, dopo il secondo colloquio, ma fu comunque amore e alla fine fui dentro. Aria condizionata, abito blu e scarpe scomode facevano di me un giovane commesso in erba. E di erba, negli anni seguenti impiegati a fare sempre lo stesso lavoro, ce ne sarebbe voluta a mazzi per sopravvivere!
Primo giorno di prigionia lavoro
In un giorno qualunque di giugno firmavo il mio primo contratto di lavoro. O meglio: firmavo il primo contratto di lavoro che mi rendeva autonomo e indipendente, nonostante prendessi il minimo sindacale.
Avevo inconsapevolmente messo fine all’estate da bambino e cominciato l’estate da grande. Non avrei più passato ogni giorno in spiaggia, arrivando ad agosto con la nausea da ombrellone e cocco bello. Non avrei più scavato buche sul bagnasciuga per nascondermi da animatori pressanti e scampare a tornei di beach volley. Invece mi sarei barricato in un asettico negozio di abbigliamento, nel quale anche in piena estate sarei riuscito a prendere l’influenza per i dieci gradi segnalati sul termostato.
Mettevo fine a una vita da universitario squattrinato, che doveva decidere se fare serata o fare la spesa. Avrei finalmente smesso di contare le monetine di rame e avrei tirato fuori un bel cinquantone color arancio; ancora meglio, avrei strisciato il bancomat, tirando di braccio fiero ed energico come la campionessa più cotonata della Ruota della fortuna.
Non appena terminata la sessione d’esami, invece che alleggerire la testa con un tuffo nel mare, andavo a firmare quel contratto. I miei colleghi di università tornavano a casa a farsi coccolare dalla mamma, dalle tagliatelle della nonna e dai loro amici d’infanzia. Io invece sospendevo i panni da universitario e vestivo quelli da commesso, ma almeno mi salvavo dalla pasta al pesto di mia nonna che digerivo dopo due giorni.
Quella mattina mi trovavo immerso tra carte da firmare e policies da imparare a memoria, seduto alla scrivania in un’agenzia interinale, quelle che oggi vengono chiamate in modo figo «agenzie di somministrazione per il lavoro» o, ancora più cool, «agenzie di head hunting». «L’interinale», da lì a poco, sarebbe diventato il primo nome con cui il mio capo mi avrebbe identificato.
«Dov’è? Dov’è coso… il ragazzo nuovo. Ma sì, l’interinale!»
Una volta messa l’ultima firma, il passo successivo era proprio quello da fare dentro il negozio. Sarei entrato con una Converse in tela, scucita sui lati, e sarei uscito con una stringata in pelle da restituire a fine contratto.
Sul tragitto c’erano un amico e dei Negroni ad aspettarmi. Sarebbe stato bello avere il Negroni al singolare e l’amico al plurale, ma mi accontentai e comunque l’effetto finale fu lo stesso. Camminavo storto verso la mia meta.
Mi rendevo conto di essere alticcio e di puzzare di alcol, così decisi di neutralizzare l’alito con delle mentine e risvegliare i sensi con del caffè. Arrivato davanti al negozio, trovai la saracinesca ancora abbassata e una ragazza che fumava, seduta sulla panchina circostante l’aiuola.
Era la mia nuova collega, la prima che conoscessi. Un’altra interinale assunta da poco che, come me, invece di tornare a casa a rimpinzarsi di cannoli siciliani e brioche con la granita, decideva di consumare sigarette in pausa pranzo tra una cliente in cerca di consigli e una in cerca del punto vita.
«Ciao!» mi dice con voce leggermente roca e tono radioso.
«Ciao» rispondo, titubante. Il caffè fa regredire l’effetto del Negroni e lascia tornare la timidezza.
«Anche tu lavori qua?»
«Sì, inizio oggi.»
«Sei il ragazzo nuovo…» Sorride, poi capisce che sono impallato e come ogni donna, decisamente più avanti dell’uomo, prende di petto la situazione e mi stringe la mano. «Piacere, Maria.»
«Piacere mio, Federico.»
Due pensieri mi attraversavano la testa in quel momento. Il primo è: Come ha detto che si chiama? È sempre così. Quando qualcuno si presenta, neanche il tempo di chiedergli «Come va?» e abbiamo già scordato il suo nome. E poi: Sarà simpatica? Ci andrò d’accordo? Il mio disagio da nuova conoscenza veniva interrotto dall’arrivo della direttrice, quella che su un tacco dodici e avvolta in un tubino nero ha letto il mio curriculum.
Era arrivato il fatidico momento. Lei si chinava ad aprire la serratura e poi spalancava le porte di quel tempio del lusso di cui ora facevo parte a pieni diritti. Avevo firmato e nessuno poteva togliermi quel privilegio… se non prima dei sessanta giorni di prova previsti dal contratto!
Una volta dentro mi guardavo intorno, stralunato. Tutti quei vestiti appesi con cura, i manichini perfetti in pose innaturali, accessori preziosi custoditi dentro teche di vetro anch’esso prezioso. Mi sentivo come se camminassi sulle uova, in punta di piedi e attento a non rompere quella scintillante perfezione.
Indovina chi… Il nuovo assunto
Dall’apertura delle porte a noi commessi all’apertura al pubblico passavano circa dieci minuti. Il tempo di cambiarci, spogliarci dei nostri vestiti da comuni mortali comprati da H&M e indossare quelli da ambasciatori del lusso.
Intanto ne approfittavamo per rompere il ghiaccio e scambiarci le classiche domande retoriche per provare a conoscerci meglio, starci simpatici e andare d’accordo. «Di dove sei? Quale università fai? Da quanto tempo vivi qui?»
Mi dirigevo verso il retro, pronto a indossare la mia prima uniforme, simbolo di un’identità perduta. Io, che nella mia breve ma intensissima vita da adolescente ribelle avevo sempre cercato di fare la differenza, io che odiavo omologarmi alla massa, ora allacciavo fino all’ultimo bottone una camicia bianca, stringevo il nodo alla cravatta, che poi come cazzo si fa il nodo alla cravatta, e mettevo un paio di scarpe stringate che facevano male solo a guardarle. Diventavo l’ennesimo numero su un cartellino che timbrava entrate e uscite, in un negozio con migliaia di insegne uguali in tutto il mondo.
Lo spazio in cui ci cambiavamo non era altro che un quadrato in cui convivevano un asse da stiro, le divise di tutti noi dieci, un boccione dell’acqua, i capi appartati per le clienti in attesa di decidere e una specie di sartoria.
In quei momenti sarei voluto essere Sailor Moon, che riusciva a indossare la sua divisa da paladina della giustizia in pochi secondi, ascendendo a una dimensione ultraterrena in cui le persone intorno sparivano, i vestiti si spalmavano perfetti sul corpo e aveva abbastanza spazio quanto ce n’è nella Galassia.
Invece no, indossavo la mia divisa da paladino del buon gusto, imparando a fare il contorsionista e, una volta pronto, ero più sudato di prima. Mentre infilavo una gamba nei pantaloni, la mia collega mi passava sotto per prendere le scarpe. Quando infilavo un braccio nella manica della camicia, il mio collega si allungava tipo canna da pesca e riusciva a scavalcarmi per riporre sullo scaffale il suo zaino e il suo pranzo a base di broccoli, il cui odore ti entrava anche nelle ossa. Non c’era orifizio, pelo o vena varicosa che non avessimo visto l’uno dell’altro in quel claustrofobico retro del negozio.
Durante il quindicesimo tentativo di fare il nodo alla cravatta, mi cadde l’occhio su un foglio A4 appeso alla parete, su cui erano stampati i turni del personale del negozio, ordinati ed evidenziati in una tabellina Excel. Scorsi con lo sguardo nome dopo nome e, non trovando il mio, chiesi alla direttrice quali fossero i miei turni.
«Qua, tu sei qua! Guarda…» esclamò in tono stupito, come se non capisse quale fosse il dubbio.
Puntò l’indice, perfettamente colorato di Rouge Noir, e indicò l’ultima riga. Vacant, mi avevano segnato sulla tabella così. Vacant: colui che è libero, colui che serve ma non serve, e in effetti spesso mi ritrovavo a vagare per il negozio e pensare: Che ci faccio qui? Era la posizione vacante ora ricoperta da me, o meglio, era lei a ricoprire me, fino al punto di diventare il mio