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Anonimo assassino
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E-book600 pagine7 ore

Anonimo assassino

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Info su questo ebook

Chi si cela dietro "Anonimo assassino"? Chi è effettivamente Dylan Rock!? Esiste veramente o è solo il frutto della fantasia letteraria dell'autore? In questa storia ci sono avvenimenti alquanto scomodi che si rifanno a fatti realmente awenuti: omicidi, episodi di cronaca nera, casi giudiziari tutt'ora irrisolti, riferimenti a personaggi politici e non solo camuffati ad arte, in modo tale da ingarbugliare le cose, cosicché non possiate scoprire la sua vera identità. I protagonisti hanno tutti un passato inquietante. Sono persone piene di difetti, ma anche di pregi e di valori. Odio, amore, rabbia, felicità, dolore, violenza, humor e un pizzico di sesso bello piccante fanno parte del loro background. Dylan Rock lancia una vera e propria sfida al lettore. Nelle pagine del libro, infatti, come sulla scena di un delitto, lascia alcuni indizi riconducibili a lui. Tocca agli inquirenti preposti e a voi lettori scoprire chi sia, anche se le probabilità che ci riusciate sono infinitesimali.
LinguaItaliano
Data di uscita7 mag 2020
ISBN9788835822769
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    Anteprima del libro

    Anonimo assassino - Dylan Rock

    ANONIMO ASSASSINO

    di Dylan Rock

    Prima edizione: maggio 2019

    Tutti i diritti riservati 2019 BERTONI EDITORE

    Via Giuseppe Di Vittorio 104 - 06073 Chiugiana          

                     Bertoni Editore 

    www.bertonieditore.com

    info@bertonieditore.com          

    È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi 

    mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata.

    Dylan Rock

    ANONIMO

    ASSASSINO

    PREMESSA

    Editore, per una forma di correttezza devo avvisarti che qualora questo manoscritto dovesse interessarti (e non ho alcun dubbio in merito), non potrò farti avere le mie generalità, né firmare con il mio nome, né tantomeno presenziare a qualsiasi evento promozionale. Per motivi di sicurezza personale, devo mantenere l’Anonimato. Ne va della mia vita. In seguito spiegherò il motivo di questa mia decisione. La storia del libro si ispira a fatti e personaggi reali, ma li ho camuffati bene. I fili della Verità e della Finzione si intrecciano ingarbugliandosi l’uno con l’altro tanto che neanche io saprei più sciogliere il nodo della matassa. Non credo che qualcuno possa risalire a me, almeno per il momento. Ho cambiato nomi, luoghi, date, le città nelle quali i protagonisti vivono, ma se qualche eventuale lettore non avesse niente di meglio da fare, può sempre calarsi nelle vesti di un detective e cercare di scoprire chi sono. Nella storia ci sono degli indizi, ma non sarà facile individuarli; a volte sono più giovane, a volte un uomo maturo, raramente sono io. Dovranno essere molto abili a scoprirli tra le righe di questa storia. Ma veniamo a te. Vuoi sapere il motivo per cui mi sono deciso a scrivere questo romanzo? Ad essere sincero, un po’ per pararmi il deretano da spiacevoli sorprese; molto, per un senso di giustizia che mi ha fatto diventare poi quello che sono, ma soprattutto perché (senza peccare di presunzione), credo di non essere da meno di tanti scrittori che stipano i ripiani di tante librerie. Sì, lo riconosco, sono un narcisista, egocentrico, arrogante, e soprattutto, molto ambizioso; non per niente sono il protagonista di questo libro! Somerset Maugham era solito dire:  Ci sono tre regole infallibili per scrivere un romanzo di grande successo, sfortunatamente nessuno sa quali siano.  E allora perché non provarci? In questa storia sono uno senza mezze misure. O sono un grande o faccio schifo. Un bambino cresciuto troppo in fretta o un uomo che non si decide a crescere. Oltre le donne (il mio punto debole), amo la cucina e il buon vino. Mi interesso anche di design, moda, arte. Conosco a memoria 1204 proverbi di tutto il mondo. So dipingere, suono da dio la chitarra e ho una voce da urlo. Ascolto un casino di musica: classica, jazz, pop, ma il genere che preferisco è il ROCK! In macchina il volume della radio è sempre a  tutta palla, costantemente sulle onde di Virgin Radio. Sto divagando, preso da me stesso(come si suol dire «l’ho fatta fuori dal vasino»)... Ma torniamo alla cosa che sicuramente ti interessa capire di più: perché ho scelto di rimanere nell’anonimato? Non è per modestia né per astuzia, lo avrai capito, no? Mi piacerebbe tanto apparire in Tv, essere in prima pagina sui giornali, andare in giro a fare la star, vedere la mia foto nelle librerie, firmare autografi mentre dispenso larghi sorrisi ai miei lettori. Purtroppo non posso. Lo vorrei, ma non posso. Perché tutte queste precauzioni? Perché sono un assassino. Che fai ridi?  Non è una battuta, uno scherzo del cazzo; quello che dico è tutto vero. Sai, ultimamente ho fatto fuori un sacco di gente e non ho ancora finito, ho ancora una missione da compiere. Quale? Ucciderti. Sì, hai letto proprio bene, ucciderti, ma non subito, forse alla fine di questa storia surrealmente vera per te. Sei nella lista. Dentro la matassa. Devo trovare il tuo filo, tirarlo fuori come una pallina dall'estrazione del lotto. Bingo! Hai vinto un viaggio gratis all’inferno. Congratulazioni! Ci sentiamo.

    Dylan Rock

    PS - Se pensi che sia uno squinternato o un mitomane, hai tutta la mia comprensione, anch'io al tuo posto avrei qualche dubbio. Tuttavia, prima di ordinare alla tua segretaria di gettare il fascicolo nel bidone dell’immondizia o farlo a strisce nel frullatore della carta, ti conviene perdere ancora un momento del tuo tempo. Abbi ancora un po' di pazienza, vai avanti, leggi solo un paio di pagine della storia. Potresti trovarle interessanti. Poi fanne ciò che vuoi. Considera il tempo che dedichi al mio libro come ore in più della tua vita… da vivere.

    I

    L’OMBRA NON ERA UN CONCETTO, NON STAVA IN AGGUATO DIETRO UN VELO: ERA UNA FORZA VIVENTE, PRESENTE, PRONTA A COLPIRE

    Ho ucciso persone. Fino adesso trentasei, ma ci saranno altri morti. La vita è imprevedibile. Non avrei mai immaginato di diventare un giorno un sicario, un killer professionista, un omicida spietato. E invece eccomi qua. Dietro la faccia bonaria e lo sguardo innocente, c'è un cacciatore di anime violente, crudeli. Tratto con la morte, come un prete con l'acqua santa, ma non mi sento un assassino piuttosto un giustiziere, dato che la giustizia, quella legale, ha consentito loro di non scontare i reati che hanno commesso, regalando a quei vermi immondi, la libertà di strisciare ancora su questa terra. Trentasei in poco più di cinque anni ma, come dicevo poco prima, non è finita qui. Tutto è iniziato una piovigginosa giornata di ottobre di qualche anno fa...

    II

    SEI ANNI. SEI MESI. SEI ORE. 666. IL NUMERO DEL DIAVOLO, PENSÒ...

    «Su pigrone, svegliati! Hai fatto di nuovo le ore piccole davanti al computer!» disse Laura tirando su energicamente la serranda della camera e aprendo la finestra. Una fresca brezza primaverile si diffuse piacevolmente dentro la stanza. «Dai, alza quelle chiappe di piombo o farai tardi allo studio!»

    «Che ore sono?» chiese Marco con voce impastata cercando di ripararsi dalla luce violenta del sole con il cuscino sulla faccia.

    «Quasi le 8.00. Ecco il tuo caffè. Cin...» 

    «Cin…» rispose Marco con un sorriso ancora addormentato. 

    Le tazzine si toccarono delicatamente. 

    Marco e Laura facevano sempre questa specie di brindisi mattutino. Era diventata un’abitudine e se qualcuno dei due se ne  dimenticava , veniva subito redarguito con uno sguardo di rimprovero. Era un rito, un gesto d'amore semplice ma che rivelava  ancora un sentimento di affetto e di attenzione nei confronti dell'altro. L’avevano fatto per la prima volta otto anni prima, in una piccola sala ristoro dell’Università della Sapienza di Roma. Marco stava cercando di recuperare le ultime monetine per il suo caffè ma la macchinetta, dopo essersi inghiottita con rapidità i suoi soldi, si rifiutava di materializzare bicchierino, caffè, zucchero e cucchiaino di plastica. Aveva iniziato ad inveire contro la macchina, scuotendola nervosamente, quando nella saletta apparve Laura. Un viso radioso, incorniciato da capelli biondo oro, gli si fece incontro. 

    Aveva una t-shirt a fiori, a maniche lunghe, un paio di jeans volutamente consunti e stivaletti di pelle con tacco medio. Emanava un buon profumo: note fiorite e ambrate che sfumavano in pepe rosa, fiori d'arancio e sandalo. 

    «Posso darti una mano?» disse vedendolo in difficoltà. 

    «Prego, accomodati. È tutta tua! Se ci riesci ti offro…» 

    Non aveva fatto in tempo a finire la frase che Laura, con un pugno ben assestato, aveva rimesso in moto la macchinetta.

    «Un caffè?» propose porgendogli il bicchierino, poi mise la sua moneta. La macchina brontolò un secondo prima di servire il suo. 

    «Cin …» disse Laura avvicinando il suo bicchierino a quello di Marco. 

    Il suo sorriso era come una calamita. Marco ne fu completamente stregato. 

    «Cin…» rispose, inebetito, mentre il suo cuore danzava dentro un vortice di emozioni mai provate fino allora.

    «Ciao amore, devo scappare!» disse Laura baciandolo sulle labbra. Poi si voltò verso il figlio. «Matty sei pronto? Dai, saluta papà!»              

    «Ciao papino!» disse Matteo buttandosi a capofitto sul letto.

    «Ciao puzzola!» gli rispose sbaciucchiandolo ripetutamente. «Mi vuoi bene? Da qui a qui, quanto?» domandò allargando le braccia.

    «Così!» replicò Matteo, stringendo due piccole dita fin quasi a farle toccare.

    Marco si fece una grassa risata. «Ah! Brutto muso di ciuco, e allora stasera niente cartoni!»

    «E dai Marco… Lascialo in pace!» intervenne Laura. «Vieni Matty, è tardi, su!»

    Marco sentì chiudere la porta poi i passi frettolosi lungo le scale e suo figlio che rideva felice insieme alla madre. Fece un grosso sospiro sentendosi appagato: la vita era bella. A malavoglia si alzò dal letto. Accese lo stereo. Mise un cd di Einaudi: Life. Chiuse gli occhi, aspirando profondamente dal naso: lui, la musica, la respirava. Andò in bagno. Stava per spogliarsi ed entrare nella doccia quando, dalla finestra della camera, sentì uno stridio di freni seguito da uno sgommare furioso che catturarono la sua attenzione. Affacciandosi, vide un gruppetto di persone confluire poco distante dal portone del suo palazzo. Il campanello di casa iniziò a suonare ripetutamente. Fu aggredito da un improvviso senso di inquietudine. Fissava il citofono come se fosse qualcosa di malefico da cui tenersi lontano. Il respiro si fece affannoso, un brutto presentimento incominciò ad attanagliargli il cervello ma si decise comunque a rispondere. 

    «Si?...» chiese sommessamente, sperando di sentire la voce di sua moglie che gli diceva di essersi dimenticata di prendere le chiavi o qualcos'altro ; non sarebbe stata la prima volta che gli citofonava per farsi aprire la porta di casa.

    «Signor Ghera...» Era il portiere.

    La sua voce era distorta dall’emozione. Seguì un silenzio inquietante.

    «Che c'è Giulio, che succede?» chiese nervosamente stringendo il pugno della mano così forte che le unghie gli penetrarono la carne. 

    «Per favore dottore, venga giù, è accaduta una disgrazia!»

    Il suo corpo fu percorso da un forte tremito ansiogeno. Lasciò cadere la cornetta del citofono precipitandosi di corsa per le scale. Il cuore batteva tumultuosamente, sembrava volesse scoppiargli in gola. Arrivato nell'androne del palazzo, il portiere gli si fece incontro con le mani nei capelli.

    «Signor Ghera...»

    Dio ti prego, fa che non sia vero, fa che non sia vero. cominciò a supplicare nella sua testa come una perpetua litania. 

    «Sua moglie… Il bambino…» continuò impacciato il portiere.

    «No! Zitto! Zitto! Non dire niente!» gli intimò perentoriamente, per evitare di ascoltare ciò che temeva di sentirsi dire. In preda al panico, uscì di corsa in strada. La gente, arrivata sul luogo dell'incidente, si scostava da lui come le acque del mare al passaggio di Mosè. Sentiva voci rimbombargli nelle orecchie, e occhi, che lo penetravano commiserandolo. Come l’istantanea di una foto, si fermò, ammutolito, davanti ai loro corpi  inanimati. Erano poco distanti l’uno dall’altro. Sembravano due marionette, abbandonate sul selciato dopo l’ultima rappresentazione. Laura aveva le gambe piegate, la testa girata di lato, in modo innaturale, e un rigolo di sangue le usciva lentamente da un lato della bocca, espandendosi sulla striscia bianca pedonale. Matteo, invece, era ripiegato su se stesso, come fa un riccio per difendersi dai predatori. Lo zainetto di scuola, nell’urto, si era aperto: sparse sull’asfalto, c’erano le matite colorate, i quaderni, le gomme per cancellare, il panino con la Nutella per la merenda e il suo orsacchiotto bianco, da cui non si separava mai. Una scarpina era volata via, chissà dove, e il calzino? Come aveva fatto a sfilarsi  dal suo piedino? Fu la vista di quel piccolo piede nudo, che Marco aveva mordicchiato tante volte, facendo scoppiare Matteo in risate così violente da fargli mancare il respiro, la cosa che inconsapevolmente lo sconvolse di più. Quella scena sarebbe rimasta impressa indelebilmente non nel suo corpo, ma giù, nel profondo pozzo della sua anima nera, e non ne sarebbe mai più riemersa. 

    Fu pervaso da brividi feroci, devastanti, che gli fecero quasi perdere le forze. Non era possibile che tutto questo fosse capitato a lui, si ripeteva disperato. Tutto stava crollando vertiginosamente dentro di lui. Era entrato in un’altra dimensione, quella dell'assurdo, del surreale; un’angoscia impotente quanto inutile lo pervase. Si sentì trafiggere da un dolore che mai aveva  provato prima: cadde in ginocchio stringendo il corpino di Matteo al petto, sussurrandogli paroli dolci come per rassicurarlo che tutto sarebbe andato bene, che lui e la mamma non l'avrebbero mai lasciato, perché era un bambino fantastico. Unico. Davanti  agli occhi cominciarono a scorrergli  flash di Matteo che si nascondeva, e di loro che facevano finta di non vederlo, i giochi interminabili al parco, le sue grida di felicità, le sue risate matte mentre, inseguendolo, faceva finta di inciampare cadendo a terra, la sua passione per la chimica e i tortellini in brodo, i suoi disegni, sempre con dei soli esageratamente grandi e luminosi, loro, con lui nel mezzo, mano nella mano e le notti che si fiondava nel loro letto per un brutto sogno. Alzò gli occhi pieni di lacrime e, proprio in quel frangente, vide un palloncino colorato librarsi in aria verso il cielo. Volteggiava libero, nel capriccio di un vento leggero,  nell'immenso spazio celeste. Sembrava felice... Marco, per una strana dicotomia del pensiero, lo associò a Matteo, alla sua energia radiosa che volava, come quel palloncino rosso, nell’eterea essenza dell'universo. 

    La sirena dell’ambulanza lo scosse dal profondo dei suoi pensieri riportandolo duramente alla realtà.

    «Mi scusi...» Un uomo in camice bianco lo scostò dal corpicino con fare gentile, ma deciso. Lo sentì dire: «Per il bambino, purtroppo, credo non ci sia più niente da fare mentre il cuore della donna batte ancora».

    «Salvateli, vi prego, salvateli!» implorò Marco disperatamente, scuotendolo con forza. «Non possono morire!»

    Non lo avrebbe mai potuto accettare.

    Mai.

    «Faremo tutto il possibile.» disse il dottore cercando di calmarlo. «Aiutatelo a salire su e dategli un sedativo!» ordinò poi rivolgendosi ai due portantini. «Forza, andiamo; ogni secondo che passa può essere l’ultimo!»

    Il lamento della sirena lacerò l’aria. Nel traffico caotico della città, nessuno sembrava prestarci attenzione. Gli automobilisti si scansavano di malavoglia. Alcuni ne approfittavano per accodarsi dietro. D’altronde, ognuno aveva i propri guai e tanti di quei problemi da risolvere che anche la Morte poteva far guadagnare loro qualche manciata di secondi sulla destinazione da raggiungere. 

    Quel giorno Marco perse sua moglie, incinta di sei mesi, e suo figlio di sei anni. Due extracomunitari, completamente ubriachi, li avevano falciati con la loro auto mentre stavano attraversando le strisce pedonali. Matteo era morto sul colpo. Laura, dopo un complesso e difficile intervento chirurgico durato oltre sei ore, si era spenta insieme al piccolo feto dentro di lei. Nello spazio di pochi minuti la sua vita, felicemente vissuta fino ad allora, era stata stravolta facendolo piombare nella desolazione più nera. Sei anni. Sei mesi. Sei ore. 666. Il numero del diavolo pensò, riflettendo per un attimo se, dietro a questa strana casualità numerica, non ci fosse un macabro disegno del Malefico. Si autocommiserò in una risata tragicamente beffarda, maledicendo il creatore del destino che gli aveva riservato quella nefasta sventura. 

    Con la deposizione di alcuni testimoni, la polizia era risalita ai proprietari della macchina: due rumeni dediti a sfruttamento della prostituzione e traffico di droga. Erano stati arrestati ma, alla sentenza del processo, vennero prosciolti per insufficienza di prove a loro carico. Marco ne uscì distrutto. Il medico di famiglia, per evitare che la depressione  in cui era caduto, unita alla rabbia e alla frustrazione, potessero portarlo a compiere un gesto inconsulto, gli prescrisse dei potenti farmaci anti-depressivi. Ma un giorno, dopo un periodo di annebbiamento mentale, decise che era il momento di farla finita con quella merda. Gettò tutti i farmaci nella pattumiera e, con grande forza di volontà, reagì ai momenti di ricaduta facendo leva su una tenace attività fisica e concentrandosi sulle sue capacità psico-sensoriali per affrontare le sfide e raggiungere gli obiettivi che si era prefissato. 

    La motivazione per uscire da quell’offuscamento mentale, da quel vivere-non vivere, non fu la voglia di ritornare ad una quotidianità normale, ma la determinazione a far cessare drasticamente la vita dei due extracomunitari. Era così indignato da quell’ignobile sentenza, che aveva deciso di intraprendere una guerra personale contro quei criminali. Lasciò l'incarico di portare avanti la sua azienda di ricerca cybernetica al suo uomo di fiducia, ritirandosi in un vecchio casolare in Maremma, sperduto in mezzo alla campagna toscana. In quei lunghi giorni di isolamento, l’idea di farsi giustizia da sé, di vendicarsi di quei maledetti bastardi che gli avevano portato via i suoi cari, divenne il suo imperativo, la sua ossessione. Iniziò a cercare su internet i casi più clamorosi di malagiustizia. Andava in tribunale ad assistere alle udienze processuali, documentandosi online sui molti casi irrisolti. E fu allora che capì che la sua vendetta personale non gli sarebbe bastata; c'erano altrettante persone che avevano subito, oltre il dolore, la delusione indicibile per una sentenza scandalosamente ingiusta, persone che, come lui, reclamavano giustizia. Ora sapeva cosa voleva e come avrebbe dovuto agire.

    III

    IN CIELO SPLENDEVA 

    UNA MERAVIGLIOSA LUNA PIENA.

    La colpì con una spranga di ferro. Lei cadde a terra. Era morta? Dal cranio usciva del sangue. Neanche tanto pensò. L'aveva percossa con tutta la sua forza . Doveva essere morta e invece respirava ancora.

    «Troia! Hai scopato con mezzo mondo, proprio con me devi venire a fare la verginella?» urlò l’uomo sputandole addosso. Infierì su di lei ancora e ancora. Era incazzato nero. Si era ribellata, gli aveva sputato in faccia, lo aveva graffiato.

    «Puttana! Zoccola! Sei contenta adesso?»

    Le affibbiò un calcio in faccia e la testa della ragazza si rigirò inclinandosi sul collo. La bocca, leggermente storta, piegata in giù, sembrava sorridere sprezzante. Gli occhi, spalancati, parevano fissarlo con scherno. 

    «Cos' hai da guardarmi così? Non ti è bastato ancora?»

    Tornò a colpirla di nuovo fino a massacrarla: ormai era una maschera putrefatta di sangue.

    «Ecco, stronza, la fine che fanno le puttanelle succhiacazzi come te!»

    Poi piano piano si placò. Si era sfogato. Aveva perso la testa, ma quella troietta se l’era cercata. Quante volte si era masturbato spiandola di nascosto nel bosco, mentre scopava ora con l'uno, ora con l’altro. Quella zoccoletta lo aveva fatto sempre arrapare, prima o poi se la doveva fare, se lo era ripromesso. Le avrebbe dato anche un po’ di soldi per farsi succhiare l'uccello. Forse non l'avrebbe neanche scopata, gli sarebbe bastato solo quello, metterglielo in bocca e farsi fare un bel pompino. Ne aveva presi così tanti, perché il suo no? Da un po’ di tempo faceva la santarellina! Da quando si era messa con quello lì, il figlio del finanziere, non l'aveva più vista con quel branco di sfaccendati, drogati, perditempo. Adesso però il pischelletto non c'era più. Dopo lo scandalo di suo padre, se n’erano andati via, dicevano in America. «Stronzi, vi sta bene! Fuori dal cazzo! Sciò! Andate a farvi fottere in culo!» gridò con un sogghigno crudele. Scosse la testa. Si guardò intorno. Annusò l’aria come un predatore che ha avvistato la preda. Il cielo cominciava ad oscurarsi. Cosa ne doveva fare ora di lei? Rimase un attimo a pensarci. Poi si decise. Emise un sospiro. 

    Digrignando i denti per il terribile mal di testa che lo attanagliava da giorni, si diresse lentamente verso la macchina. Dal portabagagli estrasse una vanga e la motosega, che utilizzava per procurarsi legna da ardere. Tornò verso la ragazza. Tirò la corda di avviamento. La motosega ruggì rabbiosamente prima che la lama penetrasse la sua carne fino alle ossa. Nell'aria si sparse un odore acre di carne bruciata. Il primo pezzo, a staccarsi dal resto del corpo, fu la testa. Rotolò per un paio di metri rimanendo con il collo all’insù. L’uomo, per un attimo, si fermò a guardarla quasi rapito, poi la motosega scese su di lei progressivamente fino ai piedi. 

    Quando ebbe finito, cadde a terra, esausto, sporco di schizzi di sangue, muschio e foglie appiccicate al sudore della fronte. Respirando affannosamente si guardò intorno: mani, braccia e gambe erano disseminate un po' dappertutto. Ora doveva solo seppellirle. Poi gli venne in mente che, sotto le unghie di quella stronza, ci potessero essere  tracce di sangue, del suo sangue...

    Se la polizia avesse rintracciato il corpo, quelli della Scientifica avrebbero potuto risalire al suo DNA. Tutte cose che aveva appreso guardando una delle tante fiction trasmesse in tv. Così raccolse le mani, le appoggiò sul tronco di un albero e poi, ad una ad una, tranciò le falangi delle dita.

    «I cani ci andranno a nozze con queste!» disse mettendole dentro un sacchetto di plastica.

    A malavoglia iniziò a spalare il terreno. La fatica cominciava a farsi sentire e la sera stava calando. Poi un rumore secco, come di un ramo spezzato, lo costrinse a fermarsi trattenendo il respiro. Tese le orecchie (tese), pronto a captare anche il minimo segnale. Niente. Solo un silenzio avvolgente, quasi innaturale. Riprese a respirare. Che cosa poteva essere stato? C'era qualcuno là, nel fitto degli alberi, che lo stava spiando? Qualcuno che aveva visto tutto? Rifletté un secondo. No, a quell'ora nessuno si avventurava nel bosco. Era più probabile si fosse trattato di qualche animale che aveva fiutato il sangue. Anzi ne era certo. «Meglio! Ci penseranno loro a finire il resto degli avanzi. Buon appetito. Offre la casa!» esclamò con un sogghigno marcio. Ricoprì la buca in fretta e furia. Così poteva bastare si disse asciugandosi il sudore dalla fronte. Riprese fiato.

    Adesso arrivava la parte più odiosa. L'aveva rimandata perché, il solo pensiero, gli faceva accapponare la pelle. Quella puttanella lo aveva riempito di graffi. Una gatta inferocita. Troia! Guarda come l'aveva ridotto! imprecò sputando sulla fossa. Si fermò un attimo a riflettere se ci fosse un'altra soluzione oltre quella cui aveva pensato. No, cazzo! Non gli veniva in mente niente! Doveva farlo e basta. Non gli andava proprio, ma doveva. Inveì ancora contro la vittima e la malasorte, poi chiuse gli occhi gettandosi di colpo tra i cespugli di rovi. Dalla sua bocca putrida uscirono bestemmie e urla agghiaccianti, che cercò inutilmente di reprimere. Sentì le spine lacerargli la pelle, procurandogli un dolore indicibile, lancinante, insopportabile. Le ferite bruciavano come se qualcuno si divertisse a torturarlo sadicamente con la fiamma ossidrica. Cercò di togliersi le spine dalla faccia, dalle braccia e dalle mani ma alcune erano penetrate così in profondità che ci sarebbero rimaste per molto tempo. Ansimando e imprecando di dolore, si diresse verso la sua auto. Mise gli attrezzi nel portabagagli, avviò il motore e accese le luci, scomparendo lentamente in fondo alla curva del sentiero boscoso.

    In cielo splendeva una meravigliosa luna piena.

    IV

    NIENTE... DISSE L'OMBRA 

    PRIMA DI FRACASSARLE IL CRANIO

    Erano al settimo cielo. Si erano acconciate e truccate per più di due ore per questo evento. Era la prima volta che andavano in discoteca. Finalmente erano riuscite a strappare ai loro genitori il permesso di uscire da sole. Tutte le loro amiche c'erano già state. Avevano dovuto subire le loro battutine a questo proposito, ma adesso era venuto il loro momento. Si erano fatte veramente carine. Niente trucco pesante, né tacchi a spillo altissimi o vestiti provocanti come la maggior parte delle altre ragazze per attirare l'attenzione dei ragazzi, ma il risultato finale era altrettanto soddisfacente. «Attente cocche! Stiamo per arrivare, non ce n’è più per nessuna!» avevano detto ridendo mentre entravano spavaldamente dentro il locale. Si stavano divertendo un mondo. Per tutta la sera avevano ballato felici in mezzo al casino generale. Al bancone del bar avevano fatto amicizia con tre ragazzi che avevano offerto loro da bere. Erano simpatici, divertenti. Due di loro non erano neanche male, il terzo però aveva un alito pestilenziale ed era quello che parlava di più, che faceva battute una dietro l'altra, che per farsi sentire si metteva ad urlare a un centimetro dalle loro facce. Uno di loro, il più figo, un biondino con grandi occhi azzurri da angioletto, propose loro di finire la serata nella villa dei suoi genitori. 

    «Abbiamo poco tempo a disposizione, alle due al massimo dobbiamo essere a casa.» disse Flavia guardando l'orologio. 

    'Faccia d’angelo' allargò le braccia. «E’ a soli quattro chilometri da qui. Ci mettiamo un attimo.» disse elargendo un sorriso accattivante.

    «Dai… Poi vi riaccompagniamo a casa.» incalzò il numero due nella lista dei bellocci.

    «Prima che la carrozza si trasformi in zucca!» concluse il 'Fetido' ridendo sguaiatamente.

    Flavia non era molto convinta. Voleva declinare l’invito, ma Giorgia la prevenne. 

    «Ok! Allora cosa aspettiamo?» disse con un’alzata di spalle prendendo per mano Flavia. «Dai, su, andiamo!»

    Uscirono dal locale in fretta e furia. Sulla spiaggia c'erano vari gruppetti di ragazzi sparsi qua e là. Qualcuno suonava la chitarra, altri bevevano e fumavano. Soprattutto canne. Raggiunto il parcheggio, le fecero salire su una Mercedes decappottabile. Giorgia era eccitata. Guardò di sbieco Flavia con espressione estasiata come dire: Hai visto che roba? Finora non aveva mai messo il sedere su una macchina del genere. Quei tipi avevano un sacco di soldi, lo aveva capito dai loro discorsi: viaggi, barche, macchine, orologi costosi, conoscevano gente dello spettacolo, attori, cantanti... Era felice, si sentiva nel giro che conta; perché invece Flavia aveva quell'aria preoccupata? Certo - si disse - con quella madre così severa, per non parlare poi di sua sorella! Una mezza matta col botto. Nel momento in cui stavano per scendere in ascensore, lei lo aveva bloccato con un piede. «Casomai dovesse succedere, fategli mettere questo!» le aveva detto mettendole in mano un paio di preservativi gusto fragola. 

    Erano rimaste tutte e due a bocca aperta. Flavia, imbarazzatissima, non sapeva cosa dire poi, in ascensore, erano scoppiate a ridere. Non ci stava tutta con la testa quella! 

    La macchina si fermò davanti ad una bella villa, a due passi dal mare. Percorsero un viale ghiaioso bordato da grandi pini mediterranei. L'interno della casa era arredato con gusto. Forse un po' anni Sessanta, ma bella. Si accomodarono nello spazioso salone intorno ad un grande tavolo basso, bianco. Accesero lo stereo. Una musica rap di Eminem si diffuse in tutta la villa. Il belloccio numero uno, 'Faccia d'angelo',  si allontanò per ritornare poco dopo con una bottiglia di Schweppes, una di Gin e del ghiaccio. Lo sfigato, quello con l'alito fetido, intanto stava preparando una grossa canna. Flavia si era già pentita di aver assecondato la sua amica che, tra l'altro, stava già limonando con il fichetto numero due. Bevvero un paio di bicchieri a testa e già erano su di giri. Il biondino aveva esagerato volutamente con il Gin. Flavia si chiese cosa sarebbe successo se la polizia li avesse fermati per un test con l'etilometro.L e venne in mente sua madre ma scacciò il pensiero prima che si trasformasse in angoscia. Il tipo con i problemi di fegato finì di arrotolare la canna. Dopo averla accesa, tirò una lunga boccata trattenendola un bel po' nei polmoni, poi la passò a Giorgia. Flavia guardò l'amica preoccupata. Non aveva mai fumato prima d'ora. Dopo aver aspirato, Giorgia iniziò a tossire convulsamente con le lacrime agli occhi. I ragazzi risero divertiti. La canna passò a lei. Non era la prima volta , per un breve periodo le era pure piaciuto, ma poi aveva deciso di non farlo più. Tutto qui.

    «No... Non mi va.» si scusò ridandola indietro.

    Quel gesto sollevò un coro di protesta.

    «Dai, su! Non è mai morto nessuno per un tiro!» disse 'Faccia d'angelo'.

    Adesso cosa doveva fare? La figura della pischella rompipalle, della signorina per benino, la solita guastafeste della situazione? Rassegnata, aspirò piano, trattenendo il fumo in gola e poi lo gettò fuori dal naso come un toro inferocito.

    «Ehi! Che fai? - la reguardì 'Fiato di Merda' - Dai, fatti un tiro come si deve!»

    La canna ritornò tra le sue dita. Avevano tutti gli occhi puntati su di lei. Giorgia sembrava incitarla con lo sguardo: Ti prego, è la nostra serata, dai divertiamoci. Tirò più forte, inalando il fumo dentro i suoi polmoni. 

    Il fuoco della canna s’illuminò tra le sue dita.

    «Brava! Hai visto? Cosa ci voleva?» disse con un gran sorriso 'Faccia d'angelo'. 

    Ecco, li aveva fatti contenti. Soddisfatti? si disse. Le scappò una risata. La testa aveva preso a girare lentamente. Giorgia aveva un sorriso beota. Anche lei aveva la sua stessa espressione? Questo pensiero la fece ridere ancora. Cosa c'era da ridere? si chiedeva, e intanto continuava a farlo insieme agli altri per qualunque stronzata venisse detta e non riusciva più a trattenersi. Nel frattempo, quelli continuavano a rollare canne e riempirsi i bicchieri di gin-tonic. La musica a palla, amplificava i bassi e i colpi della cassa rimbombando nella sua mente annebbiata. Flavia chiuse gli occhi. Il suo cervello incominciò a danzare come i Dervisci. Tutto vorticava velocemente come un mulinello di foglie secche. Poi cercò di riprendere il controllo e, quando li riaprì, vide il fighetto 'Numero Due' e 'Cesso Vivente' che si davano parecchio da fare con la sua amica.

    «Giorgia dobbiamo andare, è tardi.» disse, cercando di alzarsi. Ma una mano glielo impedì facendola ripiombare pesantemente sul divano.

    «Lasciala stare, non vedi che le piace?» Solo allora si accorse che 'Faccia d'angelo' era sdraiato al suo fianco. Prese ad accarezzarle i capelli, poi cercò di baciarla. Flavia si ritrasse. «No, ti prego…» disse, scostandolo gentilmente, cercando di non ferire la sua suscettibilità.

    «No-no-no-no-no!» disse quello schioccando la lingua tra i denti in segno di diniego. «Non ti credo per niente. Mi accorgo subito quando piaccio ad una ragazza e tu non mi hai tolto gli occhi di dosso per tutta la sera. Non è così?» Senza aspettare risposta, incominciò a tirarle giù la cerniera dei  pantaloncini.

    «Ma sei scemo?» urlò Flavia bloccandogli la mano.

    In quel momento sentì Giorgia invocare il suo nome. Si girò di scatto. Vide 'Alito Mortale' sopra di lei che le tratteneva le mani, mentre l'altro le bloccava le gambe, cercando di toglierle lo slip. I loro occhi erano dilatati come lupi affamati in preda ad una eccitazione selvaggia e incontrollabile.

    «Stronzi! Lasciatela stare!» urlò ancora Flavia, cercando di divincolarsi da quel coglione sopra di lei. 

    Fu investita da un pugno in faccia. Un’esplosione di luci violente si diffuse nel suo cervello. Si sentì tirare per i capelli. Strinse i denti. Faceva un male terribile.

    «Ti conviene stare ferma, se non vuoi che ti riempia di botte!» le disse 'Faccia D’Angelo', storcendole il braccio e bloccandole la testa con un ginocchio sul collo.

    «Non voglio, nooo... lasciatemi stare, vi prego! Flavia... !» implorava Giorgia supplicando il suo aiuto. 

    «Ma certo, fate le brave e vi riportiamo subito a casa.» intervenne 'Faccia d'angelo' con tono rassicurante. Poi, rivolgendosi ai suoi amici: «E voi, brutti maialini, cercate di non sporcarmi il divano!» li avvertì cinicamente.

    L'incubo era iniziato. Bloccata, impotente, con le lacrime agli occhi, tra rabbia e disperazione, Flavia assistette allo stupro della sua amica prima da parte di uno e poi dell'altro. Finito di espletare il loro coito selvaggio, si staccarono da lei ancora ansimanti e madidi di sudore. Giorgia era una maschera tragica. Lacrime di rimmel colavano copiose dalle sue guance. Piangeva in silenzio, con gli occhi chiusi, oscillando avanti e indietro. Brevi e regolari singulti, le scuotevano le spalle, la faccia, rappresa in una smorfia di freddo distacco, era più terribile di tutte le grida di disperazione del mondo.  

    Il cuore di Flavia incominciò a batterle tumultuoso nel petto. Adesso sarebbe stato il suo turno.

    «Qualcuno di voi venga a darmi una mano.» chiese con voce perentoria 'Faccia d'angelo'.

    'Fiato di merda' rimase con Giorgia, l'altro si avviò verso di loro.

    «Tienila ferma.» disse 'Faccia d'angelo' alzandosi da lei e scomparendo, per qualche secondo, dalla sua visuale. 

    «Tieni.» disse al suo ritorno, passandogli in mano un rasoio affilato. «Se prova a reagire, tagliale la gola con questo.»

    Flavia guardò la lama baluginare a pochi centimetri dalla sua faccia. Si sentì pervadere da un'intensa paura, paura d’impazzire, paura di morire, paura della paura. Il cuore stava per scoppiarle in petto. Aveva fame d'aria, di aria fredda che le sferzasse il viso come uno schiaffo violento.

    «Girala!» ordinò con una certa impazienza 'Faccia d'angelo'. 

    Respirando affannosamente, con la testa volta di lato, lo vide slacciarsi la cinghia dei pantaloni, calarsi le brache e tirare fuori il suo membro turgido. Lo sentì mentre cercava di penetrarla di dietro, nel suo orifizio poi, non riuscendoci, lo infilò nella sua vagina, secca, ancora inviolata, fino ad allora. Terrorizzata, sentì la carne squarciarsi come un’anguria aperta a metà. Le uscì un urlo di dolore. Pensò a sua madre, a sua sorella, alla vergogna e alla delusione che avrebbero provato rispetto alla fiducia riposta in lei. Poi fu come se tutto intorno non esistesse più nulla. Con gli occhi aperti, ma come cieca, entrò in un mondo ovattato, privo di suoni e di colori, perdendo cognizione delle cose, del mondo, del tempo, scivolando in una specie di stato comatoso. Quanto durò? Sembrò un’eternità, ma forse si era trattato solo di pochi minuti. 

    Nelle sue orecchie adesso filtravano voci attutite in un’eco lontana.

    «Ehi ...! Ma cazzo! E' ancora vergine!» imprecò stupito 'Faccia d'angelo'.

    «Pensavo fossero una razza in estinzione!» replicò 'Fiato putrido' con una risata marcia.

    «Merda! Non mi piace fare da apripista ad altri!» esclamò seccato, tirando fuori il suo membro macchiato di sangue. «Guarda che schifo!» 

    Imprecando, andò in bagno. Mentre puliva il pene da quel sangue mischiato a sperma, udì un trambusto di passi in corsa, confuso a grida e improperi provenienti dal salone. Si tirò su in fretta la cerniera; appena in tempo per scorgere Giorgia uscire dal patio e correre verso la spiaggia. 'Fiato mortale' era piegato, con le mani sulla testa, che gemeva di dolore.

    «Cos’è successo?» chiese incazzato, mentre prendeva dal caminetto una pesante spranga di ferro.

    'Il belloccio numero due' alzò le spalle guardandolo con una faccia da beota. «Quella stronza lo ha colpito in testa con il portacenere!»

    «Siete due coglioni!» disse, precipitandosi  fuori all’inseguimento della ragazza. 

    Giorgia correva sulla sabbia disperatamente, urlando «Aiuto!» con tutto il fiato che aveva in gola. Ma la spiaggia sembrava deserta, non c'era anima viva. Sentì dei rumori di passi veloci. Si fermò rimanendo in ascolto. Si voltò indietro. Nell'oscurità intravide un’ombra minacciosa correre verso di lei. Il sangue le si gelò nelle vene. Sta arrivando, scappa… si disse terrorizzata. Inspirare e urlare non serviva a niente ma non poteva smettere. Se ne fosse stata capace, si sarebbe buttata in mare e sarebbe scappata al largo, ma non sapeva nuotare. Quante volte suo padre le aveva proposto di andare in piscina a prendere un po' di lezioni, ma lei non ne aveva mai voluto sapere. Aveva una paura folle dell'acqua, fin da quando, proprio lui, suo padre, il gran cazzaro, nonostante le sue proteste, I suoi pianti e le sue grida di disperazione, l'aveva buttata dalla barca da piccolina in mare aperto, per superare la paura, aveva detto poi, ridendoci su, mentre sua madre inveiva contro di lui. Provava ancora un senso di panico nero nel ricordare la sensazione di soffocamento mentre annaspava furiosamente in preda al terrore di non poter più riaffiorare in superficie. Aveva ingoiato acqua salata e non riusciva a respirare. Un incubo ricorrente nelle sue notti insonni. Ecco stronzo! Mi sarei potuta salvare... In questo rimuginìo di ricordi, ebbe la lucidità di accorgersi che c'era un’abitazione poco distante da lei. Era apparsa come un miraggio nel deserto. C'era una luce fioca che la illuminava. Allora poteva darsi che ci fosse qualcuno in casa... - pensò – sì, doveva essere così. Non voleva morire, non poteva morire, non era giusto, era troppo giovane per morire. Continuava a ripetersi per infondersi il coraggio necessario per sperare di sopravvivere a quell'incubo infernale. Con la forza della disperazione raggiunse l'abitazione prima che l'ombra le piombasse addosso. Con il cuore in gola si attaccò al citofono, bussò con i pugni, dando calci furiosi alla porta, implorando soccorso, pregando che in casa ci fosse qualcuno. La sagoma, adesso, aveva smesso di correre. Non sembrava per nulla preoccupata dalle sue grida. Si stava avvicinando a passi lenti verso di lei producendo un rumore secco, come quello della carta del pane che si accartorcia tra le mani prima di gettarla nel secchio. Crash... crash... La luce del patio illuminava soltanto la parte bassa della sua faccia. Gli occhi erano rimasti nell'oscurità, ma si poteva intuire la loro malvagità. 

    «Urla pure. Non c'è nessuno in questa casa, i proprietari sono andati via proprio due giorni fa.» disse l'ombra canticchiando sinistramente. Era agghiacciante sentire la sua voce tranquilla, quasi rassicurante. Le venne la pelle d'oca. Poteva avvertire distintamente il suo odore. L'odore del Male. E il sapore di marcio, di putrefazione, che lasciava dietro il suo passaggio. Il suo cervello, nonostate fosse ottenebrato dal panico, riuscì ad elaborare un altro tentativo di fuga. Doveva tentare di raggiungere la strada e, da lì, fermare qualcuno che passava con la macchina. Perché non ci aveva pensato prima? Non era il momento di darsi della stronza. Con uno scatto felino, imprevisto, riuscì ad aggirarlo. Per un micro-secondo sembrò funzionare. Quel pulviscolo infinitesimale di tempo che valeva tutta una vita, altrimenti non ci sarebbe stato altro che il nulla.

    Fu raggiunta da un colpo pesante, proprio all'altezza della schiena.

    Cadde a terra producendo un rumore sordo. Non riusciva a respirare. Le uscì solo un urlo muto. Pensò di avere la spina dorsale rotta, era come paralizzata. Cercò disperatamente di trascinarsi avanti con le mani ma crollò dopo pochi metri, incapace di proseguire oltre.

    La sagoma le si parò davanti. Il suo sguardo era freddo, il sorriso crudele.

    Sentì il pianto salirle in gola. «Che cosa... vuoi... farmi...» mormorò Giorgia articolando faticosamente le parole.

    «Niente...» rispose l'ombra, con un sogghigno feroce, prima di fracassarle il cranio.

    'Faccia d'angelo' la fissò per un attimo. Sembrava morta. Sembrava? Era morta. Rise. Si guardò intorno per vedere se c'era qualcuno, poi la caricò sulle spalle e, fischiettando 'Nothing on you' di Bruno Mars, si avviò tranquillamente verso la villa. Giunto davanti al patio la lasciò cadere sulla sabbia producendo un tonfo sordo.

    «L'hai uccisa?» chiese il 'Fetido' premendosi la pezza bagnata sulla ferita della testa.

    «Sì. Certo.»

    «Cazzo! Ce n'era proprio bisogno?» intervenne l'altro. 

    'Faccia d'angelo' accennò un sorriso sarcastico. Scosse la testa guardandoli miserevolmente. «Non vi rendete conto, stronzetti, che se ci sfuggiva, quella andava subito alla polizia a denunciarci?»

    I due si guardarono come se non si fossero mai visti prima di allora. 

    «Che facciamo con l'altra?» chiese il 'fichetto numero due' rompendo il silenzio.

    «Dobbiamo uccidere anche lei, è ovvio!»

    «Sei sicuro?» chiese 'Alito letale'.

    «S-e-i s-i-c-u-r-o?»  ripeté 'Faccia d'angelo' rifacendogli il verso da idiota. «Coglioni! Volete finire in galera per il resto della vostra vita?»

    I due, a disagio, chinarono la testa. 'Faccia d'angelo' scosse la sua.

    «Portatela qui, cagasotto, ci penso io!» disse stringendo tra le dita la mazza di ferro ancora gocciolante di sangue caldo.

    V

    UNA CERTEZZA SUSSISTE: UN GIORNO CI SARÀ UN'ALTRA COSA CHE IL GIORNO.

    Era il giorno della ricorrenza della morte di mia figlia Anna: stuprata, strangolata, fatta a pezzi e sepolta nel bosco, poco distante dalla mia abitazione. Aveva appena compiuto sedici anni. Dopo tre settimane di ricerche da parte della polizia, di annunci sui giornali e in tv, il corpo, o quello che ne rimaneva, fu rinvenuto da un cacciatore in aperta campagna. Aveva sparato a uno stormo di uccelli. Sicuramente ne aveva abbattuto qualcuno; il suo cane si era gettato di corsa verso la preda ma, quando ritornò dal suo padrone, al posto di un fagiano, tra le zanne aveva una mano in stato di decomposizione. La polizia, accorsa sul luogo, rinvenne i resti del corpo straziato di mia figlia. Non fu facile identificarla. Il mio cervello si rifiutava di credere a ciò che gli occhi

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