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La pagliuzza e la trave
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E-book174 pagine2 ore

La pagliuzza e la trave

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L’espressione la pagliuzza e la trave rimanda alla ben nota parabola che Gesù recitò durante il discorso della montagna nel vangelo di Matteo, mettendo in guardia i suoi seguaci dal rischio di giudicare gli altri. Queste pagine ci parlano della debolezza umana, della difficoltà di instaurare rapporti autentici e sinceri, di giudizio e di ipocrisia, dell’accomodarsi dietro false apparenze per il quieto vivere e, ancora, dell’impossibilità di conoscere la verità del pensiero degli altri su di noi e del nostro gravitare in una bolla di noncuranza e incoscienza, soffocando emozioni e sentimenti dietro una maschera dall’espressione lieta. La trave resta lì, a deformare la visione della realtà, confinandoci in una solitudine sempre più profonda mentre la vita attorno è pronta a esplodere in tutta la sua più sconcertante evidenza.


Nato a Trieste nel 1958 da una famiglia istriana da parte di madre ed altoatesina da parte di padre – alterità questa che l’ha indotto a scegliere quello di Giuliano Adler come nome de plume per la sua opera di scrittura -  si laurea in Giurisprudenza nella locale Università. Gli anni dell’università sono per lui gli anni di “studio matto e disperatissimo” non tanto speso sui libri di diritto quanto sui classici, anni nei quali passa da Omero a Flaubert, da Turgheniev a Mishima, ma fondamentali per la sua formazione letteraria rimangono i tedeschi, da Grimmelshausen a Döblin, a Thomas Mann in particolare, ai cui luoghi di formazione dedica in quegli anni più soggiorni, da Lubecca a Travemūnde, a Zurigo.
Mantiene un rapporto forte e complesso con la sua città di origine che è costretto a lasciare per cercare più ampi spazi professionali che lo porteranno in diverse città d’Italia, tra le quali Venezia, Milano e Firenze.
Sposato con una triestina, con la quale ha avuto una figlia, ha operato per anni come dirigente in aziende industriali e di servizi nell’ambito della organizzazione e sviluppo risorse umane, ed è tuttora attivo con ruolo manageriale in una primaria azienda multinazionale.
Il suo romanzo di esordio La pagliuzza d’oro è stato pubblicato nella collana Vite sempre dal Gruppo Albatros Il Filo nel 2020.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2021
ISBN9788830653726
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    La pagliuzza e la trave - Giuliano Adler

    LQpiattocallierotti.jpg

    Giuliano Adler

    La pagliuzza

    e la trave

    © 2021 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-4078-8

    I edizione novembre 2021

    Finito di stampare nel mese di novembre 2021

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    La pagliuzza e la trave

    Un libro non è soltanto il racconto di un’esperienza, ma parte integrante dell’esperienza che descrive.

    Kurt Vonnengut Jr., Madre note

    1.

    La fine della scalata. L’altopiano.

    Rimanere lì, in quota, acclimatandosi. Gironzolare, bearsi di quegli alpeggi come pacifici silenziosi erbivori.

    Non cercare altre vie che salgano né che scendano, trovare la propria giusta altezza, quella corrispondente al nostro peso specifico, e anche lì galleggiare, fluttuare.

    Meditare, vagare di dentro e di fuori ciondolando, non cercare risposte, non porsi domande, non chiedersi dove ci si trovi.

    Se ci si pone una domanda è segno che quella non è la nostra dimensione specifica, e allora via, di nuovo con un’altra transumanza, e se non si è – ed è il caso di dirlo – all’altezza, ci si pone delle domande e si cercano necessariamente delle risposte, è segno che siamo ancora alla vecchia logica, che non riusciamo a stare a galla e in equilibrio con noi stessi.

    La prima risposta che ci viene alla fine della scalata, all’inizio del secondo tempo, è il giuoco. Ma il giuoco da solo non basta, perché anche il giuoco ha i suoi tempi, ha una sua logica necessariamente effimera, convenzionale, che dura un tempo dato e non di più di quello, fosse pure il giuoco più lungo e sofisticato del mondo come quello delle Perle di Vetro, o come il Lavoro.

    Allora quando anche il giuoco non basta, la seconda risposta che si cerca è la discesa nel mondo infero.

    Quando si è finito di costruire, quando cessa la fase eroica dell’allargamento dei confini e tutto diventa stabile tranne il vibrare dell’anima, quando si è finito lo smantellamento e ci si è ridotti all’essenziale, e di noi non è rimasto che come un riccio su di uno scoglio, quel motus animi continuus ci porta altrove, nel regno delle ombre, a rovistare nell’altra metà della mela.

    2.

    Ci sono dei momenti in cui le cose semplicemente accadono.

    Oggi, a meno di un anno dalla improvvisa morte di mia madre, mi viene offerto di vendere la casa nella quale sono cresciuto e che ho mantenuto lì immutata per anni. Sono insonne, ho fatto molte scelte di tagliare nella mia vita, compreso con la mia città, ma la sola idea di abbandonare definitivamente ed irrimediabilmente la casa in cui sono cresciuto è devastante. Sono nel pallone. L’amore però prevale: quello per gli altri, per coloro che ci amano e quindi in un certo preciso momento ho deciso di vendere, di recidere. E anche qui, o si decide di salire, di andare avanti, o di scendere: terzium non datur. Quella in quel punto non poteva essere l’altezza sulla quale soffermarci, perché semplicemente non è la nostra, è l’ombra dell’altrui. C’è chi vi si rannicchia: cinquantenni scapoli che la sera ritornano nella loro cameretta di sempre ne abbiamo conosciuti tutti, ma cosa i loro lombi hanno generato se non infertili fantasie?

    Mauro mi dice spesso che quando pensa a me, pensa alle case. Mia moglie mi rompe le scatole perché vuole una casa finalmente definitiva dopo tante temporanee se non palesemente provvisorie ma io respingo da tempo l’idea del posto definitivo, allontano la scelta di Thomas Buddenbrook che pur ricordando il vecchio adagio turco: Finita di costruire la casa, arriva la morte si lascia andare ad un ipotetico impossibile futuro e decide di lasciare lo storico edificio sulla Mengstrasse. L’unica nostra certezza è il passato, solo lì siamo solidi e protetti, solo lì le mura ci abbracciano salde e rassicuranti. Ma c’è anche per me un momento in cui ci si lascia andare, ci si abbandona ai flutti, e questo momento è arrivato.

    Un qualcosa di incompiuto comunque anche nelle nuove case si può sempre lasciare, anzi: si deve. Così, simbolicamente… non si sa mai… Così in quella che sto finendo di allestire, affacciata sul golfo di Trieste, ho riservato una stanzina giusto accanto allo studio, a rimanere lì ancora non finita, rimandandone l’allestimento sine die, ed ogni tanto ci entro, me la guardo e ci faccio progetti ora di un tipo ora di un altro, ma rimane ferma lì, a fare il suo buon dovere di guardia e preservarmi dall’arrivo della grande Signora.

    3.

    Nei miei racconti ho parlato poco di donne e ho parlato raramente del sesso, men che meno del sesso adulto. Non che ritenga questi argomenti banali o di poca importanza, al contrario li ritengo addirittura troppo alti per poterli trattare con le mie limitate risorse. Soprattutto ho parlato poco del vizio, mentre mi sono dilungato molto su ciò che lo precede come la solitudine e la paura.

    E se l’anima dell’uomo – come diceva il Maestro – è femminile, allora essa è attratta dalla sua stessa femminilità con la quale tenta il ricongiungimento, e mentre la ricerca nella risposta femminile diventa ineludibile, proprio in quel momento il femminile è potenzialmente vetta e abisso insieme, ed è l’imbuto nel quale ci perdiamo o risorgiamo.

    Il momento topico giunge quando una donna scopre il nostro codice segreto, la nostra parola d’ordine, il nostro rosebud: assai raramente lo scopre da sola, in genere siamo noi stessi a dettarglielo, e questo avviene massimamente quando una donna sa non essere

    s

    é stessa ma il nostro specchio, lo schermo bianco nel quale proiettiamo le immagini dei nostri sogni, la nostra anima: e noi poi stiamo lì come dei bambini che si perdono e vanno in estasi per le meravigliose apparizioni. Questa condizione può avverarsi per una coincidenza elettiva tra spiriti, ma anche più prosaicamente in presenza di un’arrivista intelligente che sa perfettamente recitare la parte della nostra anima sullo schermo bianco: lì ci si perde – o si rischia di perdersi. Lì è l’abisso.

    Questa donna è necessariamente il contra della compagna della nostra vita, è la sua negazione. Può anche essere la stessa persona ma il ruolo che giuoca è diverso, necessariamente alternativo al disvelamento del sogno, ed è di per sé nascosto, criptico, alternativo, segreto.

    Quando Chandler ne Il grande sonno descrive la moglie del generale come perfetta per un fine settimana ma una disgrazia per una vita intera, forse dice una cosa più grande di lui. In realtà accenna al rapporto proprio con il mondo infero, da cui Odisseo riesce ad uscire, e nel quale Dante si avventura solo se adeguatamente accompagnato là, ove più non si dismonta, e mai e poi mai possiamo portare ciò che appartiene alla notte sotto la luce del giorno, nemmeno Ercole vi riuscì: ciò che appartiene alla notte deve restare rigorosamente fissato nella notte.

    Non necessariamente vi sono persone della notte e persone del giorno: è come nasce la relazione, il ruolo che in essa si assume, e quando si assume un ruolo della notte, quel ruolo ha valore e senso solo quando le tenebre sono calate.

    Odisseo è il vero eroe di ogni tempo; è colui che non solo riesce a discendere nel mondo infero, e non per caso ma per umano interesse a conoscere; riesce a parlare con le ombre, perfino con quella della sua stessa madre, interrogarle sì, ma senza farsi distogliere e risalire in superficie. Ed è anche colui che nei dieci e dieci anni della storia, passa la metà del tempo con una ninfa che gli consente di non invecchiare, per poi lasciare che la storia continui e tornare a casa.

    Sta di fatto che il poema finisce quando l’eroe ritorna ad Itaca, ma esso non ci dice cosa succede dopo. Nessuna favola o mito ci racconta della stabilità, ma solo della ricerca e del ritrovamento. Forse a quel punto nasce il cosiddetto antieroe.

    Ma come mio solito sto accelerando e sto precorrendo i tempi, parleremo di questo più avanti, se ne avremo tempo, voglia e ci resterà l’energia per farlo.

    4.

    Ditemi il nome di un uomo che non sia schiavo delle passioni ed io lo porterò nel cuore del mio cuore, diceva il poeta¹. Ed io dico: dammi il nome di qualcuno. Di uno chiunque. Dammi il nome della persona più insospettabile, del più caro tra i tuoi amici, del più virtuoso tra i tuoi conoscenti, del più stimato tra i tuoi colleghi, del più integerrimo dei tuoi capi, ed io per questi e per ciascun nome che mi vorrai dare ti evidenzierò le mostruosità, sottolineerò le ridicole inconsistenze, le pietose contraddizioni. Di ciascuno saprò indicare la fondamentale puerilità, la meschinità, la innegabile incompetenza umana. Nessuno sfuggirà e resterà intonso al mio giudizio, così che anche il più inattaccabile degli uomini mostrerà, proprio in ragione ed in virtù di tale supposta perfezione, una sua assoluta spaventosa e fragilissima mostruosità.

    Il vizio allora, e il lavoro.

    Tutto ciò che può essere giuoco può essere anche vizio, come ciò che nasce come giuoco può diventare vizio, è una delle sue possibili sorti. Difficilmente accade il contrario, e comunque tutto dipende da noi.

    Il vizio è sempre una evoluzione di qualcosa d’altro, compreso di una virtù.

    Anche per il lavoro è esattamente così.

    Il vecchio arsenale del porto vecchio era ormai quasi completamente abbandonato da parecchi decenni. Imponenti edifici quadrangolari in pietra carsica si susseguivano l’uno dopo l’altro in file regolari tra le quali ampie vie pavimentate non erano che di rado percorse da auto di servizio o piccoli mezzi commerciali. Pochi i cartelli e le indicazioni, spesso illeggibili e coperte di ruggine.

    Su alcuni edifici l’insegna N° 1, N° 2, intendendosi per magazzini numero 1 o 2. In quello contrassegnato come N° 18 montagne di mobili, armadi, sedie, tavoli e casse tutte catalogate con numeri e nomi, di famiglie, alle volte luoghi e date; nomi come Petronio, Bonifacio, Tamaro, luoghi come Isola, Umago, Parenzo, Zara, Pola, date come 4 luglio 1946 o ancora 10 gennaio 1947, da quarant’anni in attesa che i legittimi proprietari, di ritorno dalla fortuna trovata in Argentina o in Brasile, passassero a riprendersele.

    Nelle crepe aperte dal tempo e dalle intemperie nelle vie crescevano erbacce che arrivavano al ginocchio e dalle quali a primavera sbocciavano piccoli fiori gialli, mentre torrette e frontoni che abbellivano gli edifici facevano da silenzioso rifugio a centinaia di tortore il giorno e ad innumerevoli pipistrelli la notte, da tempo unici veri cittadini del silenzioso quartiere. I gabbiani vi vegliavano sui punti più alti scrutando l’orizzonte, come in attesa che una nave che, partita quarant’anni prima, potesse tornare con i suoi passeggeri a reclamare le proprie masserizie.

    Le scarne attività ancora in vita dopo il crollo dell’Impero si erano trasferite in zone della città più moderne e meglio attrezzate – così si sosteneva in quegli anni – e della vecchia Speicherstadt ben poco era ancora utilizzato, e quel poco lo era solo in parte, spoglio e disadorno.

    Mi capitava di recarmici, in quel vecchio arsenale, solitamente l’ultima settimana del mese nei miei primi mesi alla Finmare, e c’era da perdersi tra quelle strade deserte e quei rioni nei quali era difficile incontrare qualcuno cui chiedere un’indicazione.

    La mia missione era delicatissima e naturalmente fidatissima: si trattava di prelevare copia del registro dei pasti ritirati dal personale portuale per gli addebiti contabili di competenza.

    L’intero primo piano di quell’edificio era costituito da una gigantesca unica stanza, ampia quattro palestre di quelle che avevamo a scuola e ci parevano delle piazze, ed alta anche di più.

    Era interamente sgombra di suppellettili ad eccezione di una enorme scrivania di legno massiccio, con ripiano foderato in pelle e poltrona in pendant imbottita tipo capitonné della medesima pelle, che in precedenza doveva aver adornato l’ufficio di un pezzo grosso, e di un numero imprecisato di comuni sedie dalla seduta di paglia posizionate alcune di fronte alla scrivania – che non abbiamo detto stava giusto al centro dello stanzone – e lungo tutte le pareti perimetrali, come in una sala da ballo di altri tempi.

    Su quella poltrona e di fronte a quella scrivania quasi invisibile all’inizio, un omino se ne stava curvamente seduto, la testa dai capelli radi e grigi china, intento come a contare qualcosa bofonchiando tra sé e sé.

    Sentitomi arrivare alzava il capo, si abbassava gli occhiali dalla montatura di metallo ed il volto si illuminava aprendosi in un sorriso che mostrava denti ingialliti dal tempo e dalla nicotina. Lasciava cadere la penna sul quaderno in quarto dai fogli di uso computisteria e si lanciava in un saluto: Oh dotor, che piazer: la xe qua!. Il suo viso era liscio come quello di un bambino, di un pallido grigiognolo ma il suo corpo era piegato come se egli fosse stato lì dall’inizio dei tempi.

    Sui lati della scrivania, sulle sedie di paglia accanto ad essa, su quelle tutte intorno la sala, sui profondi davanzali in marmo delle enormi finestre, perfino per terra, mucchietti ordinati di piccoli foglietti bianchi, milioni di piccoli foglietti. Da lontano pareva fosse caduta la neve, invece si trattava di

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